ILENA AMBROSIO | Bologna, 1826: Giacomo Leopardi scrive una delle pagine più iconiche e lucide del suo Zibaldone di pensieri. Ci invita in un giardino e in quel giardino a osservare come tutto, pur a prima vista ridente e florido, viva nel dolore, come qualsiasi essere – animato e non – sia in qualche modo traviato, violentato, molestato dall’altro: la rosa offesa dal suolo, un giglio da un’ape, un albero infestato da un formicaio, un ramo rotto dal vento, l’erba infranta dal passo di una donzella. Uno stato di souffrance, lo chiama. E poco prima, a introdurre questo quadro: Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male. Non v’è altro bene che il non essere; non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive.

Non era banale pessimismo quello di Leopardi ma la conquistata consapevolezza del sistema che regge il mondo, le cose, la vita. Lo stesso sistema che pare reggere l’universo de La Cupa di Mimmo Borrelli. Dal 2018 se ne è detto tanto. Molto meno si è avuta la possibilità di vedere questo lavoro. Forse per le difficoltà tecniche di una scena che pretende di svilupparsi in lunghezza, o per l’apparente ermetismo di un testo che porta alle estreme conseguenze quella che si può oramai definire la lingua di Mimmo Borrelli; ma forse anche per l’ottusità di un sistema – un altro – teatrale che fatica a sostenere l’eccezionalità appiattendosi sulle mode e su presunti “canoni”. Poco spazio a La Cupa fino a ora. Se non fosse per l’audacia e il coraggio che hanno suggerito alla direzione artistica del Teatro Bellini di Napoli di tenere lo spettacolo in scena per ben 24 repliche, infischiandosene della consuetudine delle stagioni mordi e fuggi. E rivedere La Cupa  (che sarà al Teatro Stabile di Torino dal 16 al 20 Novembre e a Maggio al Piccolo di Milano) rende necessario parlarne ancora. Non perché sia possibile raccontarla o descriverla o commentarla – francamente chi scrive pensa che proprio non lo sia – ma perché questo lavoro smuove, sposta, stimola, sprona, suggerisce. E, per riprendere il filo del discorso, rivedere La Cupa suggerisce, forse più di ogni altra cosa, il male: assoluto, inesorabile, irrimediabile.


È potente assistere allo spettacolo da un posto in platea proprio di fronte alla pedana che si protende dalla scena: un lungo corridoio immerso nella nebbia e nella semioscurità, sormontato dall’enorme sfera che è il monte di tufo della cava in cui si svilupperanno le abominevoli vicende di un manipolo di dannati. Direttamente da quel punto di fuga il male arriva addosso con una violenza sovrumana, come si fosse inghiottiti da quella terra che i dannati popolano e insieme violentano.

Tutto è male. È male, prima del resto, la lingua. Il napoletano flegreo di Borrelli è un tutt’uno con il suo teatro; è il suo teatro, che non potrebbe essere altrimenti che così. Sanguigno, vigoroso, frutto di un lavorio di erudita filologia del folklore, la variante flegrea del dialetto napoletano ha dato prova di essere il mezzo più congeniale al potente espressionismo dell’immaginario teatrale di Mimmo Borrelli. Ma in La Cupa la lingua è anche di più. Violente, oscene, inaudite le parole pronunciate da questi personaggi sembrano venir fuori stuprando le loro corde vocali, la lingua, le labbra.
Non esiste alcuna misura, perché violenza, incesto, parricidio, pedofilia, assassinio, la cancrena di una terra e dei suoi figli non possono che trovare proprio quelle parole per dirsi e raccontarsi. Perché Maria delle Papere, giovane e pura, per raccontare la sua verginità violata con il più infame degli inganni, non può che dire: ’Nnaggia ’u sanghe ca me saglie pe’ dint’ ’a fessa / La mia verginità cola quella ferita / ca nutrisce collera, suicidio e malavita. / Vergine santa, madre Dio, me songhe perza. / Aggio perzo ll’imene, ll’utero mio è ’a smerza. Perché un pedofilo, violento, stupratore come Scippasalute, non può che espimersi dicendo: A picchiacca toja fa ’i funge p’ ’a perimma!!! / Pe’ parta mia chillu musso re ciostole, / chilli quatte diente fracete ’i sfaccimma / ’u prossimo bucchino hanna schiuppa’ a carcioffole. / Mannaggia ’a Maronna sperza dint’ ’a severa!!! / L’aggia piscia’ ’ncuollo po’ c’ ’u faccio vevera! / Tu si’ na lardica’i mare curalline!!

È tutto comprensibile? Certamente no. È necessario che lo sia? Assolutamente no. La lingua de La Cupa attinge al potere primordiale e tribale del suono, del ritmo, del verso poetico, e quel potere sa darsi al di là della mediata comunicazione logico-razionale, così come il male non è logico, non ha ragione né mediazione.

Tutto è male. Il male è nella lingua e il male è nei corpi. Dopo la parola è la fisicità a raccontare l’oscuro abisso che inghiotte le anime di questi dannati. Il lascivo movimento del piede di Scippasalute, le mani sempre a incrociare i genitali, la rigidità delle gambe di Maria che abita la scena come fosse una marionetta nelle mani del destino; i contorcimenti di dolore di Josafat divorato da un cancro che è quello che infetta le terre del sud… Come in una “Tragedia dell’Arte” la gestualità del corpo svela prima ancora dell’azione compiuta. Svela le psicologie, le psicosi, i rimossi; il ciarpame delle origini, avrebbe detto Thomas Mann.
Di questi corpi, che sinistramente scintillano delle chiazze di terra che ne ricoprono gli abiti cenciosi, Borrelli ha fatto figure pittoriche, ora marionette, ora combattenti, ma sempre  materia impotente nelle mani di una forza oscura che li ribalta in volteggi, li scaglia in corse improvvise in preda a furori ossessi, ma anche li compatta in processioni cantanti e in potentissimi tableaux vivants.

La lingua, il corpo e poi lo spazio. Il male è in ogni dove. Si cela nel buio della cava come nei riverberi che ne illuminano i meandri, in quel monte che è insieme un cosmo in bilico che minaccia ogni momento di decomporsi, di tracollare trascinando con sé le misere esistenze che sono ai suoi piedi.
La fitta simbologia de La Cupa carica lo spazio di un misticismo che è insieme sacralità e paganesimo, magia e superstizione: la croce/totem con al centro una pietra di tufo, l’enorme tronco a metà tra un crocifisso e una fenice che cala dall’alto, le piume di piccioni sacrificati, il sangue, il bastone di Innocenzo che pare uscito direttamente dalle pagine del Vecchio Testamento. Tutto, indistintamente, parla di sacrificio, di passione e pena.
Sì, tutto è male nella Cupa. Borrelli è riuscito a costruire un universo scenico nel quale ogni dettaglio ruota coerentemente attorno al peccato o all’innocenza violata, in cui tutti sono vittime senza scampo e allo stesso tempo carnefici. In cui tutto è volto al male e persino le eccezionali atmosfere sonore e musicali di Antonio Della Ragione sembrano venire fuori dalla volontà di un Demiurgo che ha votato al male la sua umanità. Maria, Innocenzo e gli animali: gli unici a restare puri. Maria forse proprio grazie alla sua cecità – in un originale recupero dell’immaginario classico ruotante intorno alle figure dei ciechi come esseri privilegiati –; Innocenzo, segnato dalla violenza ma poi allontanatosi dalla Cupa; gli animali, incapaci di malvagità, numi tutelari dei loro padroni. Puri ma non salvi perché avviluppati dalle tenebre malefiche della cava.

Ma cosa accade assistendo a tutto questo? Un’epifania: forse la stessa di chi ebbe il privilegio di assistere a Rythm 0 di Marina Abramović, di chi vide per la prima volta La classe morta di Kantor o Café Müller di Pina Bausch; di chi ascoltò per la prima volta l’Overture del Tristan und Isolde di Wagner o il coro della Nona di Beethoven; di chi sentì per la prima volta dell’accecamento di Edipo o dell’infanticidio di Medea. La Cupa sconvolge e non solo per l’eccellenza del cast, per la potenza della scena, l’espressionismo della lingua, la pura bellezza della musica. La Cupa sconvolge perché sembra voler essere tutto: Shakespeare e il suo modo di intrecciare tragedia e commedia, la tragedia greca che vive delle colpe tramandate tra generazioni e delle catene di agnizioni che le svelano; un’opera in musica. Vuole essere una modernissima Commedia dell’Arte assieme alla più sacra delle Passioni; un crime, un giallo – e del resto è Edipo re il primo giallo della storia –, un saggio di antropologia e un documentario sulle dinamiche della malavita; performing art, poesia, prosa.
La Cupa stravolge perché è tutto questo, ma in un modo soltanto suo che tiene insieme in equilibrio il terribile e il poetico, il volgare e l’aulico, ciò che sembra catapultarsi sulla scena dalla notte dei tempi e gli echi di una sconvolgente modernità.
Tutto nel segno del male, dell’oscurità, dell’oblio delle coscienze. Eppure con l’inesprimibile bellezza di un rito che non vuole conoscere e certamente non conoscerà tempo.

 

LA CUPA
Fabbula di un omo che divinne un albero

versi, canti, drammaturgia e regia Mimmo Borrelli
con Maurizio Azzurro, Dario Barbato, Mimmo Borrelli, Gaetano Colella, Veronica D’Elia, Rossella De Martino, Renato De Simone, Gennaro Di Colandrea, Paolo Fabozzo, Enzo Gaito, Geremia Longobardo, Stefano Miglio, Roberta Misticone
scene Luigi Ferrigno
costumi Enzo Pirozzi
disegno luci Cesare Accetta
musiche, ambientazioni sonore composte ed eseguite dal vivo da Antonio Della Ragione
foto di scena Marco Ghidelli

produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini 

9 Novembre 2022
Teatro Bellini – Napoli