RENZO FRANCABANDERA e MATTEO BRIGHENTI | MB: Ci sono riusciti ancora. Armando Pirozzi e Massimiliano Civica mi hanno fregato anche stavolta. Hanno portato la vita sulla scena, facendomi dimenticare che La stoffa dei sogni è teatro: è tutto ed è niente.
Come la Tempesta shakespeariana continuamente evocata da Carmine, il cabarettista dalla lunga e incostante carriera impersonato da Renato Carpentieri, non si vede, eppure si avverte, nella pressione di un incontro riottoso che non concede niente e non lascia scampo, né a lui, né a sua figlia Barbara, né al giovane collega attore e devoto allievo, rispettivamente Maria Vittoria Argenti Vincenzo Abbate. È una notte, la loro, che impone di trovare un riparo dal buio tempestoso di fuori e di dentro, un rifugio dalla bufera delle incomprensioni e dell’assenza.
In fondo, avrei dovuto capirlo subito che la risposta è il palcoscenico, il nascondiglio dove, con un niente, si può essere tutto: le luci dello spettacolo sono accese fin dal nostro arrivo, fin da prima dell’inizio, e non si spengono, a differenza di quelle in sala.

RF: Questa è la seconda Stoffa dei sogni a cui si dedica Carpentieri, che ha lavorato anche nell’omonimo film del 2016 di Gianfranco Cabiddu, che pur non avendo avuto un grande successo al botteghino ha comunque registrato un buon successo di critica e diversi premi. Un film in cui c’è un naufragio, c’è Shakespeare, c’è anche Eduardo, che si leggono chiaramente in controluce nella drammaturgia. Anche in quel caso si parla del teatro come modalità salvifica e ineludibile del vivere umano, proprio come nello spettacolo scritto da Pirozzi e diretto da Civica, dove il naufragio, invece, è tutto domestico, e dove i protagonisti rischiano di affogare in un bicchier d’acqua. In realtà, nelle storie di famiglia a volte i bicchieri d’acqua possono essere profondissimi.

Foto Duccio Burberi

MB: Veniamo alla scena. È esposta in tutta la nudità di un salottino in vimini, con una sedia, un tavolino, un telefono, un baule, un vaso con piume di pavone, un tappeto arrotolato. Aspetta quieta e insieme trepidante il trasloco dei personaggi nel rettangolo di luce, dalla penombra delle quinte dove ci sono una panca e una valigia poco discosta.

RF: Io, della scena, che mi piace molto proprio per quella logica un po’ da natura morta, ho apprezzato tantissimo il tocco di genio dell’ombrello rosso nel cestino di vimini con dietro le penne di pavone verde. Sono ancora sensibile ai contrasti dei complementari. So che Enrico Capecchi e Loris Giancola che hanno messo l’ombrello lì ci hanno pensato. Ed è un segno di cura. Un punto che richiama lo sguardo.

MB: Gli interpreti accedono a quello spazio sospeso nel tempo, ma vi entrano soltanto dopo averci dato l’impressione di averne ascoltato il respiro, e di aver accordato il loro a quello dell’ambiente circostante. Carmine è andato a casa della figlia, trovandosi a passare di lì per una qualche tournée, ma è un ospite inatteso quanto ingombrante: lei non può dirgli di no – è pur sempre suo padre. Spera che lo capisca da solo, ma lui non lo capisce, o meglio non può capirlo, perché nel suo universo essere è già fare, quindi essere genitore è averne e svolgerne comunque il ruolo, a prescindere dal fatto che sia davvero così.

Foto di Duccio Burberi

RF: È la classica situazione del genitore assente nella vita di un figlio. Qualsiasi figlio ha avvertito una qualche assenza, a volte reale, a volte anche solo percepita o immaginata, perché da figli non si conosce il vissuto antico delle persone che fanno da genitori, le ferite, le mancanze subite. Questa figlia è tutta arroccata con le braccia conserte di fronte a un padre che – è questo forse è il motivo vero del conflitto – non le mostra una dimensione autentica ma recita la sua antica parte di buffone, tanto da indossare presto un naso da clown proprio a trasformare il personaggio in un ulteriore personaggio, da teatro nel teatro.

MB: Carmine vive dei e attraverso i suoi personaggi e i suoi testi, ma la realtà è un’altra. La “stoffa dei sogni” è la traduzione che ha fatto Eduardo De Filippo della famosa battuta di Prospero – «Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita» –, ma la magia nella realtà non succede, è solo una menzogna.
Barbara è un muro respingente, fatto della distanza che li separa. Per lui passa tutto dal successo, dall’essere e essersi realizzato, mentre lei avrebbe voluto soltanto che fosse presente, che le stesse accanto, come un padre. Adesso è tardi, ora non lo ritiene in grado di aiutarla per la bravata che ha fatto suo figlio – che ha significativamente il nome del nonno –, ma soprattutto non pensa proprio ne abbia il diritto, ecco.
Carmine, invece, si è presentato dalla figlia proprio per far capire a lei e a sé stesso che ha la “stoffa” del genitore, che può mantenere la parola data, che può portare a termine le cose. Se il tempo ha preso il sopravvento su di lui, lui è qui per giocare con quel suo naso da clown al tempo che va indietro. O almeno, per provare a rallentarlo. Carpentieri è sempre riconoscibile e in questo sta il suo magistero. Lui non recita: si presta al personaggio, si mette a sua disposizione e si lascia interpretare dalla figura dolce, beffarda e dolorosa, di un uomo cha ha dato tutto per l’arte, per l’impalpabile, per l’impossibile, e ha perso, però, la concretezza di ciò che conta davvero.

Foto di Duccio Burberi

RF: C’è la terza figura, quella che dovrebbe fungere da aiutante magico, da figura che rompe l’arrocco del rapporto bloccato genitore-figlia. È una figura onirica che dapprima è Carmine da giovane, poi un suo aiutante in un emblema scenico che vuole lasciare un dubbio sulla reale identità e sulla realtà di questo personaggio, se non sia piuttosto un frutto di una dimensione proiettiva, come se fosse portatrice di una sorta di rivelazione. Forse, qualche ulteriore gioco di luci a segnare un effettivo passaggio dentro un mondo onirico, invece del nitido piazzato che circoscrive il rettangolo della stanza in cui avviene l’azione, avrebbe potuto attribuire una qualche dimensione di ulteriore mistero, di maggior profondità psicanalitica a questo ingresso che, proprio perché crea il triangolo, risulta rilevante ai fini degli equilibri.
Infatti, è proprio questa figura che risolve il conflitto, permettendo al padre una bonaria recita finale davanti a sua figlia, che finalmente viene raffigurata per come ovviamente un genitore percepisce la propria discendenza, una regina con un cappello fatto di piume di pavone, che finalmente sorride a questo genitore che fa quello che sa fare: recitare.
Si parla, quindi, di teatro come una religione a cui è impossibile sfuggire, a cui si deve fede, speranza e carità. Forse è un modo anche per l’artista di autoassolversi da una vita di mancanze. Gli artisti antepongono la propria dimensione narcisistica agli affetti intorno: chi è artista ferisce.

Foto di Duccio Burberi

MB: Avendo scambiato la vita con il teatro, a un simile Minetti, tuttora incantato delle potenzialità del mestiere d’attore, a differenza dell’originale bernhardiano, non resta dunque che fare spettacolo di sé. Là fuori le occasioni perse non le ridà indietro nessuno, anzi, più ci provi e più ti rendi patetico, ridicolo, ma qui dove siamo capita che la più grande lontananza si sciolga in un abbraccio.
Su un palcoscenico c’è un mondo intero che sta al gioco e lo porta avanti, fino alla fine, anche se Carmine non ha più un ruolo per gli altri, ma solo per sé stesso. È scritto che sia così, qualunque cosa accada. E Pirozzi lo scrive con grazia e delicatezza. Tanto che fa dire a Civica nelle sue note di regia: «La scelta tra sogno e realtà è lo scacco matto che la vita fa a tutti noi.» E La stoffa dei sogni fa alla vita.

RF: È un lavoro intenso, dove c’è un grande attore a cui basta anche solo un gesto per creare paesaggi e mondi. Una produzione rischiosa, fatta nel periodo dell’anno in cui di solito i teatranti si dedicano a beghe amministrative ministeriali invece di buttarsi in sala a provare, ma Civica se l’è rischiata.
Forse, qualcosina si può ancora registrare nella lettura registica e nel gesto delle due figure giovani, che comunque si dedicano con generosità alla prova. Sono entrambi proiezioni filiali, sia la figlia biologica sia l’altra figura che racconta il personaggio da giovane e il figlio d’arte, il figlioccio, l’allievo di bottega.
Questo spettacolo ha che fare con la genitorialità e con il concetto che l’arte stessa, il prodotto artistico, per chi fa arte, ha la dignità di un figlio.


LA STOFFA DEI SOGNI

di Armando Pirozzi
uno spettacolo di Massimiliano Civica
con Renato Carpentieri, Vincenzo Abbate e Maria Vittoria Argenti
costumi di Daniela Salernitano
disegno luci Massimo Galardini
suono Daniele Santi
oggetti di scena a cura di Enrico Capecchi e Loris Giancola
assistente alla regia Valeria Luchetti
produzione Teatro Metastasio di Prato
Prima Assoluta

Teatro Metastasio, Prato | 28-29 gennaio 2023