GIANNA VALENTI | Una grande sala prove in un loft nella zona bassa ex-industriale di Manhattan. Un danzatore – persona A – attraversa lo spazio diagonalmente, ripetendo ininterrottamente il percorso avanti e indietro da un angolo all’altro. Cammina, corre, si ferma e poi riprende a correre, a fermarsi improvvisamente o a camminare. Quando la velocità glielo permette, le sue braccia si muovono rigide e dritte in più direzioni, simultaneamente e in maniera asimmetrica. Una danzatrice – persona B – esegue, in un angolo opposto alla diagonale usata da A, un intricato percorso di passi che la portano continuamente a cambiare direzione seguendo una traccia triangolare. Tutta la sua attenzione è sull’intreccio delle gambe e dei piedi che scivolano, battono o si sollevano per estendersi nell’aria nella direzione opposta a quella in cui si trovavano.
Un danzatore – persona C – cammina ininterrottamente sul perimetro rettangolare della sala senza mai cambiare direzione. Quando tutto sembra fissarsi in una ripetitività ipnotica, C si stacca dal perimetro correndo per fermarsi in un punto della stanza, dove esegue una sequenza di gesti multidirezionali che non sembrano fluire uno nell’altro. Ritorna correndo sul perimetro, riprende a camminare nella stessa direzione di prima e poco dopo si stacca di nuovo correndo. Si ferma in un nuovo punto dello spazio e ripropone la stessa sequenza di gesti già vista, poi rientra sul perimetro e ripercorre lo stesso schema per un numero incalcolabile di volte.
A e poi B lasciano i loro percorsi e lo seguono imitandolo. La stanza si riempie delle azioni dei tre danzatori che senza sosta camminano, corrono e si fermano per eseguire la loro sequenza di gesti in un punto dello spazio che di volta in volta cambia. La danzatrice, persona B, improvvisamente inizia a correre girando intorno agli altri due danzatori e creando così dei percorsi spaziali con focus mobili a figura otto, poi si blocca, fermandosi e rimanendo immobile nello spazio.

“Stop”. Il lavoro continua con delle domande da parte dell’insegnante: «Qual è la struttura di questa improvvisazione? Si possono riconoscere delle sezioni? Come avete usato lo spazio? Quali sono state le vostre scelte e come si sono susseguite? come vi siete relazionati? Quali sono stati i movimenti che avete scelto? Come avete deciso di collegare i diversi movimenti? Siete intervenuti sulle scelte degli altri danzatori? Le avete accolte e utilizzate? O le avete ignorate? Rintracciate e descrivete i tre momenti per ognuno di voi più significativi: quali regole o strutture possono essere elaborate per svilupparli ulteriormente?»

Queste, e altre, le domande a cui i danzatori devono rispondere nelle classi di Robert Ellis Dunn, alla fine degli anni ’50 e nei primi anni ’60, prima nello studio di Merce Cunningham e poi alla Judson Memorial Church, i luoghi in cui si incontrano e crescono le personalità del post-modernismo americano e in cui si intrecciano e manifestano le nuove modalità del fare coreografia.

Manifesto per la mostra Robert Ellis Dunn: Father of Post-Modern Dance alla University of Maryland, dove Robert Ellis Dunn ha insegnato negli ultimi dieci anni della sua vita.

Le domande conducono l’attenzione alla fisicità e alla spazialità di ciò che è avvenuto, singolarmente per ogni danzatore e collettivamente per il gruppo di danzatori. Riguardano la struttura, i focus spaziali, i collegamenti tra i danzatori, i materiali usati e il come si sono creati i collegamenti tra i materiali. Ogni valutazione qualitativa o rispetto al sentire non è prevista. L’apprendimento è formale e spaziale, è sulla realtà oggettiva dell’evento — la concentrazione è sulla thing-ness e coreografare diventa making, building, assembling.
Per i danzatori si tratta di un processo di apprendimento che porta trasparenza e leggibilità alla pratica coreografica, spogliandola da ogni psicologismo e da ogni pensiero ermetico e intimo rispetto al processo di creazione — un apprendimento che fornisce gli strumenti oggettivi e analitici per il fare e costruire coreografie.

Dalle classi di Bob Dunn passano i nomi che faranno il post-modernismo americano, da Lucinda Childs a Yvonne Rainer e Steve Paxton, da David Gordon a Trisha Brown e Simone Forti. Bob Dunn è uno strutturalista e un grande insegnante di improvvisazione danzata e coreografia e forse, senza queste suo supporto, gli artisti che abbiamo imparato a riconoscere come i grandi interpreti del post-modernismo americano, i Judson choreographers, non avrebbero sviluppato la necessità e il desiderio comune di dar vita a coreografie capaci di celebrare il corpo come pura presenza e il movimento danzato come pura intelligenza. 

Il MoMA, Museum of Modern Art di New York, ha dedicato nel settembre 2018 una retrospettiva ai Judson Choreographers: Judson Dance Theatre — The Work Is Never Done (sul sito diverse registrazioni audio come documenti di storia orale).

Yvonne Rainer (left) performing ‘Corridor Solo’ and ‘Crawling Through’ from Parts of Some Sextets at the Wadsworth Athenaeum, Hartford, Connecticut, 1965

Sì, ma cosa c’era prima? Qual era il mondo della danza teatrale occidentale in cui stavano crescendo questi coreografi? Il libro scritto nel 1933 dal critico d’arte americano John Martin, The Modern Dance, affermava la centralità e indissolubilità del legame tra uno stato emotivo e psicologico interno e l’espressione fisica e visibile danzata, definendo un codice che nasceva dalla danza espressionista e dal primo modernismo americano degli anni ’20, un codice che segnerà il mondo della danza teatrale americana e il suo apprendimento accademico e amatoriale per i decenni a venire. 

Lasciamoci condurre dalle immagini di due lavori emblematici di quegli anni: Pastorale, del 1929, della coreografa tedesca Mary Wigman e Lamentation, del 1930, della coreografa americana Martha Graham, qui danzato da lei nel 1943. E ancora, da Two Ecstatic Themes del 1931 di un’altra coreografa americana del modernismo, Doris Humphrey, qui ricostruito e danzato nel 1984. E per finire un lavoro di José Limon che omaggia il lavoro e gli insegnamenti di Doris Humphrey, A Choreographic Offering, qui in una breve sezione danzata nel 1964, proprio mentre New York si infiammava del post-modernismo nella danza, nel teatro, nelle arti visive e nella musica, e proprio mentre Bob Dunn insegnava la pratica coreografica con la modalità con cui ho iniziato questo racconto.

Se la sintassi di una composizione coreografica è legata alla necessità di un’espressione psicologica, con un’identità emotiva ben definita, che diventa il tracciato per la manifestazione fisica del corpo che danza, la coreografia nel suo complesso e le diverse frasi di movimento sono valutate come una sostanza con un’unità e una continuità che non può essere toccata e su cui si può intervenire solo su alcuni aspetti secondari.
È in questo paesaggio compositivo che il coreografo padre del post-modernismo Merce Cunningham, dopo aver incarnato il modernismo come danzatore di Martha Graham, propone un nuovo codice coreografico che dà valore alla pienezza dell’atto fisico.

Suaregame rehearsal 1976 — Catherine Kerr and Cunningham — PH Johan Elbers

Cunningham usa come traccia drammaturgica i metodi compositivi aleatori di John Cage, per dar vita a frasi di movimento e strutture coreografiche (principalmente la posizione dei danzatori nello spazio, le loro entrate e uscite e talvolta la sequenza delle sezioni di un lavoro) slegate da ogni necessità emotiva e da ogni traccia psicologica e, per quanto possibile, da incidenze e preferenze personali. «This method — scriveva nel 1955 — allows each dancer to be just as human as he is». Ecco alcuni corpi nei nuovi lavori di Cunningham: How to pass, kick, fall and run, 1965, (qui danzato nel 1970, la voce è di John Cage da Stories of Indeterminacy), e Walkaround Time, frammento dal film del 1973.

È sul nuovo orizzonte della ricerca coreografica e formativa di Merce Cunningham e delle classi di coreografia di Bob Dunn che si muovono i nuovi coreografi, in una New York che vede attivi, tra i più conosciuti, il Living Theater, l’Open Theater, il Polish Lab Theater di Jerzy Grotowski, Viola Spolin e il collettivo di Fluxus.

Rientriamo nella nostra lezione*. L’insegnante chiede e i danzatori rispondono, muovendosi nello spazio per recuperare la memoria di ciò che è avvenuto.
L’azione di descrizione del materiale danzato è un’azione che ribalta la visione per cui danzare è essere posseduti tanto da non poter ricordare, oppure che danzare ha a che fare con una sfera dell’essere che non permette di verbalizzare. Danzare, nella nuova visione e nelle nuova didattica, è incarnare pienamente un’azione e praticare contemporaneamente un’intelligenza coreografica, con una doppia awareness verso il sé e verso gli altri, e con una responsabilità per l’intero tessuto spaziale.
Se danzare non è solo agire, ma anche mantenere uno stato di awareness nell’azione, ciò che si è danzato può essere ricordato e reiterato, oppure essere verbalmente descritto e suddiviso in unità coreografiche che possono servire per un apprendimento o per una costruzione successiva.
Descrivere verbalmente permette anche di superare la contrapposizione tra danza e azione verbale, tra azione fisica e testo, tra corpo e intelletto. Permette di affermare il valore testuale della costruzione coreografica e di rendere disponibile per ogni corpo che danza le conoscenze per il costruire e fare danza. La parola permette di riconoscere, recuperare, costruire, analizzare, fare.

Lucinda Childs Dance Company, Congeries on Edges, 1975 – PH Babette Mangolte

Lavorando al movimento come atto completamente libero da ogni altra valutazione, come sostanza fisica, come thing-ness, permette di accettare ogni tipo di attività motoria come azione danzata e anche di incarnarlo e manipolarlo come insieme di unità assolutamente spostatili, raggruppatili, separabili, accumulabili, sovrapponibili, ripetibili, trasportabili, copiabili, sezionabili, dilatabili e altro, in una molteplicità infinita di azioni e di relazioni.

Lasciamo viaggiare il nostro corpo attraverso alcune testimonianze del post-modernismo reperibili in rete:
Carnation, coreografia e danza Lucinda Childs — 1964
Trio A, coreografia e danza Yvonne Rainer — 1965
Variations V, Merce Cunningham Dance Co. — 1966
Carriage Discreteness, coreografia di Yvonne Rainer  — 1966
Rainforest, coreografia di Merce Cunningham del 1968, qui ricostruito e danzato nel 2019 dal Ballet de Lorraine
Accumulation, coreografia e danza di Trisha Brown — 1971
Watermotor, coreografia e danza di Trisha Brown — 1978
Dance, coreografia di Lucinda Childs del 1979, qui in un restaging commentato del 2011

Quali corpi ha svelato questo viaggio? Le strutture coreografiche sono assolutamente diverse, le sintassi di movimento anche, ma sono tutti corpi che scelgono di dare attenzione piena al movimento che agiscono e di darla nel momento stesso in cui lo agiscono, senza anticiparlo, prepararlo o caricarlo di altro. Corpi che danno fiducia a una fisicità che si offre semplicemente e completamente nella pienezza dell’istante in cui si manifesta.
Ma la semplicità è solo apparente. Il controllo del flusso energetico e del tempo interno è un’attività che richiede attenzione e preparazione. Come per il minimalismo nelle arti visive, la semplicità è un’attività di distillazione e il movimento, come segno, nasce dal saper incanalare e condurre con precisione. Il corpo che agisce nella pienezza di ciò che è, senza altre sovrapposizioni, permette di portare sulla scena la complessità che umanamente siamo e che proprio nel corpo, attraverso il corpo e oltre i confini visibili del corpo, trova, cerca e attiva i percorsi per potersi manifestare.

* La lezione narrata è ricreata rispettando alcune testimonianze sulle lezioni di Robert Ellis Dunn e utilizzando la mia esperienza diretta sulla formazione post-modernista durante due anni di lavoro all’Università della California.