ESTER FORMATO | Prodotto dal Teatro Elfo Puccini, con il contributo e patrocinio della Fondazione Banca Popolare di Milano, Tutto quello che volevo di e con Cinzia Spanò e con la regia di Roberto Recchia, è – come recita il sottotitolo – la storia di una sentenza.
È il 2014 quando, nel più che benestante quartiere Parioli di Roma, fu scoperto un giro di prostituzione che coinvolgeva delle ragazzine di 14 anni che incontravano in una sorta di scantinato clienti di tutte le età, per la maggior parte professionisti, ricchi e istruiti.
Il caso, passato alla stampa come quello delle Baby Squilloespressione assai infelice che verrà argutamente contestata nel corso dello spettacolo – fece scalpore perché le minorenni implicate erano italiane e non costrette a prostituirsi, ma spinte da un comune desiderio di avere risorse economiche tutte per sé, allo scopo di comprare tutto ciò che si vuole, che si vede e si desidera nelle vetrine dei negozi. Da qui, appunto, il titolo che Cinzia Spanò conferisce al suo testo.

La raggelante banalità che si nascondeva dietro questo odioso microcosmo lasciò trasparire tutta l’inconsapevolezza delle minorenni coinvolte, aspetto cardine e cruciale della vicenda, di certo non trascurabile neanche in termini giuridici, oltre che etici.
Non è una scrittura giornalistica, quella proposta da Cinzia Spanò, ma una narrazione incentrata su una specifica figura da lei interpretata, quella di Paola Di Nicola Travaglini, la giudice che emise al processo una sentenza sorprendente: invece di risarcire le ragazze con la cifra richiesta dai loro avvocati, decise di convertire quel denaro in libri, film, tutto ciò che avrebbe potuto formare la coscienza civica, ma soprattutto la consapevolezza delle giovani in merito alla loro appartenenza al genere femminile.

Qual è stata la genesi di tale clamorosa scelta? Questa la materia dello spettacolo. L’attrice avvia il suo racconto immaginando la Travaglini – tra le figure più attive per la lotta per la parità di genere e dei diritti delle donne in Italia – camminare per i bui corridoi del carcere di Poggioreale, a Napoli. Sente i suoi passi echeggiare e tutta l’irrequietudine del luogo su di lei, prima che incontri un suo cliente, accusato di gravi reati ambientali. È già fuori dal carcere, quando una telefonata la catapulta a Roma, fra le carte di questo nuovo processo, drammatico, eticamente e moralmente complesso nel quale emerge nuda e cruda la negazione della cresciita psicofisica delle due giovani studentesse.

Il racconto delle testimonianze delle quali l’attrice dà lettura, immaginando il lungo lavoro di studio del magistrato, sono accompagnate da voci registrate e da proiezioni video su pannelli girevoli di colore nero che conducono lo spettatore in quel piccolo sottoscala di un palazzo elegante, dove, ogni pomeriggio, dopo la scuola, le due ragazze aspettavano e intrattenevano i propri clienti. La mera narrazione del fatto in sé si arricchisce, di volta in volta, di elementi di contorno rilevanti e decisivi per l’epilogo processuale, raccontati in una maniera lucida ed essenziale, senza sfilacciamenti retorici. È uno sguardo consapevole e indagatore, quello che si riserva Cinzia Spanò, che svela, senza sorta di giudizi aprioristici, le motivazioni delle giovani coinvolte e tutta la fragilità di un background familiare che le ha velatamente esposte a tutto quello, contribuendo gravemente alla negazione di un’adolescenza sana e di un’educazione sentimentale, dunque, violate per sempre.

Il percorso delle indagini processuali finisce così per sovrapporsi a una serie di riflessioni che conducono la protagonista a un gioco di specchi, a un viaggio – raffigurato metaforicamente da una serie di immagini proiettate sui pannelli – nelle proprie scelte di vita per le quali è stato necessario imbattersi in un percorso cruciale e frastagliato.
Un passaggio drammaturgico questo, che intende dare allo spettacolo una lettura più profonda e strutturata, mettendo in luce un’interiorizzazione di un atto processuale che, altrimenti, rischierebbe di limitarsi a un racconto di cronaca.

Tuttavia, in questa fase, lo spettacolo perde qualche punto in termini di scorrevolezza, impelagandosi in una parentesi psicoanalitica un po’ macchinosa, sebbene dopo si comprenda che è propedeutica a un’ultima parte dell’allestimento, nella quale la protagonista matura una prospettiva militante e complessa che la porta ad acquistare una posizione organica e profonda del suo intervento nel processo. È quella della questione di genere in Italia: soltanto a partire dall’anno 1963 le donne furono ammesse al concorso in magistratura. Prima no, gran parte di chi aveva facoltà di parola sull’argomento considerava la donna, anche per ragioni biologiche”, un essere volubile, quindi inadatta a poter svolgere un ruolo così delicato. L’attenzione poi si sposta sul caso del Circeo, primo processo a essere stato ripreso dalla televisione che ben registrò le vessazioni psicologiche  cui fu sottoposta la giovane sopravvissuta; una delle pagine più orribili del secolo scorso, sullo sfondo della quale emerge l’operato encomiabile di Tina Lagostena Bassi, l’allora avvocato di Donatella Colasanti, celebre per aver lottato per i diritti e le tutele della sua assistita.

Processo del massacro del Circeo

Tutti passi imprescindibili per la parità di genere nel nostro paese, della quale Travaglini si fa carico, partorendo, infine, la celebre sentenza sul caso Baby Squillo con uno sguardo lucido e conoscitore di un tessuto sociale ed economico, oltre che politico, ancora impregnato di rigurgiti patriarcali che ostacolano la completa emancipazione femminile. Com’è possibile, dopo tutto questo, restituire un risarcimento in denaro, quando con il denaro stesso è stata barattata la dignità di due ragazze? E ancora, qual è il metro di giudizio da applicare a queste ultime, se hanno agito senza consapevolezza di sé, data la loro età così prematura rispetto a uno sviluppo a tutto tondo della personalità e dell’emotività di un individuo?

La costruzione di Tutto quello che volevo trascende dalla narrazione del singolo caso, per approdare a una prospettiva militante (del resto, chi più di un magistrato donna?), mediante un compromesso fra una scrittura didascalica e una più intimistica e psicologica con cui si cerca una soluzione narrativa non meramente cronachistica, non oggettiva, ma segnata da un processo di crescita interiore che, infine, diviene come incarnazione di una presa di coscienza che coinvolge tutta la società.


TUTTO QUELLO CHE VOLEVO
Storia di una sentenz

di e con Cinzia Spanò                                                                                                regia Roberto Recchia                                                                                                luci Matteo Crespi                                                                                                        suono Gianfranco Turco                                                                                                voci di Irene Canali (Laura) e Ferdinando Bruni, Federico Vanni, Francesco Bonomo, Giovanna Guida, con l’amichevole collaborazione di Francesco Bolo Rossini    produzione Teatro dell’Elfo, Effimera

Lo spettacolo è inserito nel progetto COMBATTERE GLI STEREOTIPI DI GENERE realizzato dal Teatro dell’Elfo con il contributo di Fondazione Banca Popolare di Milano
foto di scena Laila Pozzo

11 dicembre 2024 | Teatro Elfo Puccini, Milano