Il regista stesso, nell’incontro con il pubblico dopo la rappresentazione, ha ribadito il suo postulato artistico che si pone come primo obiettivo la comprensione dell’atto artistico tout court da parte dello spettatore: diversamente lo spettacolo sarebbe costruito come atto auto-celebrativo del regista.
Negli anni il regista e interprete pugliese si è confrontato con un repertorio classico molto ampio, proponendo sempre una chiave di lettura originale e scenicamente rivolta a cogliere le storture delle dinamiche relazionali, schiacciate dalle abitudini e dalle convenzioni sociali.
Qui si confronta, dopo Pirandello, Pinter, Manzoni, con Molière.
Ma non fidandosi di lui, la cameriera (Marisa Grimaldo), il figlio (Donato Paternoster), il cognato (Marco Ripoldi) e la moglie (Sara Drago) si alleano per dimostrare a Orgone quanto sia raccapricciante e viscida la natura dell’ipocrita intruso. Nella versione di tre atti era Orgone stesso a essere ricattato e cacciato di casa, in quanto non più proprietario dei suoi beni, mentre nella seconda versione, quella successiva all’intervento censorio del re, per capirci, come un vero e proprio deus ex machina, tutto ritorna alla normalità e Tartufo viene punito.
I costumi (ideati da Cloe Tommasin) sono assolutamente contemporanei e del tutto quotidiani, come anche la presenza in scena di uno smartphone dal quale, con meccanismo di controllo dall’interno della dinamica scenica, viene avviata la musica (all’inizio e in due cambi di scena); a questo oggetto dei giorni nostri si mescolano altri oggetti di archeologia digitale degli anni ’80 come il walkman e le cassette musicali, come a voler creare un luogo contemporaneo ma a-temporale, dove il barocco imperversa nel linguaggio e nella scenografia finale.
La musica è ultra pop, fino al dozzinale: in scena i corpi dei performer in posizione di relax totale (chi steso per terra, chi seduto); gli interpreti vengono interrotti nella loro nullafacenza dall’ingresso della madre di Orgone (Adele Tirante). Si cominciano a delineare i caratteri dei due personaggi principali, il truffato e il truffatore, attraverso le descrizioni che di loro fanno gli altri, riprendendo così un elemento presente anche nella versione di Molière: infatti Tartufo nella stesura originale entra solo al terzo atto in scena, mentre prima resta uno spettro che aleggia.
Il tono verbale è molto informale, quasi volgare nella prima parte: i personaggi interloquiscono fra loro alzando spesso la voce e si interfacciano in modo irruente nei confronti dei propri stessi familiari. Ecco allora la cameriera tenere testa al suo padrone o i comportamenti poco gentili del corteggiatore della figlia di Orgone (Gianni D’addario). Entrambi scatenano ovvia e ampia ilarità nel pubblico, forse proprio perché su una cifra di comicità semplice, a tratti quasi elementare, o anche perché utilizzano entrambi una forte cadenza regionale (veneta lei/pugliese lui). Esemplare la scena in cui D’addario mima una serenata d’amore, facendo il verso a Celentano nei movimenti: luci soffuse sull’amata e l’occhio di bue su di lui sottolineano il lato buffo più che romantico.

L’interpretazione di Sinisi si distingue per intensità dalla cifra degli altri personaggi e dona nerbo all’opera, rendendo quasi tangibile quella sensazione di viscido: in abiti sobri e tristi, emana doppiezza e le sue parole, i suoi movimenti e gli sguardi sono quelli di un predatore che agisce nell’ombra. Tenta l’avvicinamento con la bella consorte di Orgone e anche in quel caso riesce a trasmettere fastidio, disagio e disgusto.
La scenografia di Biancalani inizia a cambiare e ad animarsi dal momento in cui i familiari si uniscono per smascherare Tartufo. Spariscono piano piano gli oggetti, restano solo il tavolo di marmo e la cesta in legno, mentre il fondale viene spostato gradualmente in avanti, restringendo lo spazio calpestabile della scena.
Sempre le regie di Sinisi, che da anni collabora con l’artista e ideatore di macchine sceniche toscano, tengono molto in considerazione lo spazio scenico come primo interlocutore diretto per la costruzione dello spettacolo.
Sul finale questo elemento è ancora più eclatante: un corpo femminile ricoperto d’oro, in totale stile barocco, incede cantando l’epilogo posticcio della commedia, con il lieto fine voluto e ottenuto dal re. Il testo recitava “Viviamo sotto un Re nemico della frode, un Re che sa leggere in tutti i cuori e non c’è arte d’impostore che possa riuscire ad ingannarlo. È un grande ingegno, pieno di discrezione, e vede sempre giusto in ogni cosa”.
Suona chiaro quindi che Luigi XIV si sia regalato, tramite la penna di Molière, una celebrazione della sua carica e alla sua persona, oltre che aver fatto della commedia una cassa di risonanza per il suo potere. La scenografia in questo caso è di impatto fortissimo perché quello che inizialmente sembrava un costume eccessivo si estende fino al fondale invadendo di fatto tutto lo spazio, con una trovata che cattura l’occhio.
Quello che Molière/Sinisi vogliono sostenere è che siamo tutti un po’ Tartufo: tutti abbiamo un lato oscuro fatto di ipocrisia, di non limpidezza, di efferatezza.
Arrivisti, spietati e impostori sono i personaggi, ben oltre la retorica divisione tra buoni e cattivi. L’opera di Molière era una satira nei confronti della società nobile francese del ‘600 e rimane attuale nel suo messaggio, come sanno fare i veri classici. I vizi sono presentati volutamente in forma esagerata e semplificata, per aiutare l’essere umano, anche grazie alla visione di una commedia, a correggere quei comportamenti. Ma evidentemente l’obiettivo, quattro secoli dopo, è ancora lontano dall’essere raggiunto…
TARTUFO
Teatro Fontana, Milano | 19 gennaio 2025
* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.