RENZO FRANCABANDERA e MATTEO BRIGHENTI | MB: Un gioiello. Un gioiello teatrale purissimo. Capitolo Due di Neil Simon, portato in scena per la prima in Italia da Massimiliano Civica, illumina di complessa, commovente leggerezza il diventare coppia, da uno a due, attraverso il proprio vuoto. Perché la vita continua, nonostante la perdita di una moglie, nonostante il divorzio da un marito. La vita continua sopravvivendo al dolore dell’assenza. No, non sopravvivendogli: convivendoci. Accettando il buco che ti si è formato nello stomaco, e che si mangia tutto, se non lo fermi. Se non lo guardi, se non ti guardi dentro.
Andare oltre è accogliere, guardando il meraviglioso lavoro di Civica, mai così in ascolto dell’animo umano, imperfetto e commovente, da sempre e per sempre. Accogliere le proprie contraddizioni, quanto le reciproche incomprensioni. Quel gesto che George, Jannie, Leo, Faye fanno quando si incontrano, prendersi le mani nelle mani, mi dice questo, con una dolcezza sconfinata.
Accogliere, aggiungo, dandosi del tempo per trovare una via di cura, invece che di fuga. Stando l’uno nello stesso respiro dell’altra. Infatti, sul palco del Fabbricone di Prato Aldo Ottobrino, Maria Vittoria Argenti, Francesco Rotelli, Ilaria Martinelli, sono come legati da un filo. Il loro stare in scena è appeso a quello che fanno insieme, sedutɜ sui divani o in piedi in due salotti della New York bene anni ’60. E quello che fanno fa la scena.

Capitolo Due. Il debutto al Fabbricone. Foto di Ivan D’Alì

RF: Sul risultato dell’operazione sono d’accordo. È pregevole, intanto, la scelta di portare in scena uno scrittore così alto e raffinato, capace di raccogliere con ironia, a volte anche disperante, le contraddizioni della modernità, verrebbe da dire borghese. Ma poi, a ben riflettere: sono davvero questioni solo della modernità? Sono davvero questioni che riguardano la borghesia? O parliamo, piuttosto, di esperienze e dolori che attraversano la vicenda umana in modo orizzontale, senza distinzioni di censo, tempo e nazione? La storia cui si assiste, e su cui Civica compie alcune scelte registiche che le imprimono un andamento molto preciso, è una storia che arriva allo spettatore proprio perché è una storia che può capitare in ogni tempo a chiunque.

MB: Veniamo allora proprio alla vicenda. George è un giallista di successo e uno scrittore di libri impegnati di insuccesso. Leo, suo fratello, è un ufficio stampa teatrale. Jannie è un’attrice di teatro, come la sua migliore amica Faye. Capitolo Due comincia con George di rientro dall’Italia. Una valigia lui, una valigia Leo. L’appartamento in cui entrano, di proprietà di George, occupa metà del palco. Divano in cima, scrivania in fondo a sinistra. Il dolore per la morte della moglie – elemento autobiografico di Neil Simon – impregna la mente e il corpo di George, e si riverbera sull’intero ambiente. Le sue parole sono qui, ma lui è da un’altra parte: è bloccato nel ricordo e dal ricordo della moglie. Una costante a cui Aldo Ottobrino, che lo impersona, dà un fuoco ghiacciato di tenera bellezza.
Leo vuole “risolvere il problema”, vuole sistemarlo a tutti i costi, e invece George vuole restare nel problema con tutte le scarpe. Le insistenze del fratello, un Francesco Rotelli che trova dentro di sé sorprendenti sfumature di candore, violenza, virtù e abiezione, lo porteranno casualmente a incontrare Jannie, condotta in scena da Maria Vittoria Argenti come una ferita che non ha paura di mostrarsi aperta.
Ha appena divorziato, e vive nell’appartamento che occupa l’altra metà del palco. Divano in cima, scrivania in fondo a destra. È tutto doppio nella scenografia di Luca Baldini, è tutto simile, ma non è uguale, è speculare. Qualcosa di identico, a pensarci bene, oltre alla pronuncia di gas e Gus, c’è: la loro provenienza da un passato che non passa.

Foto di Duccio Burberi

RF: Questa tragicomica specularità si unisce alle scelte di Civica sul codice recitativo. La prima parte di Capitolo Due, pur essendo principalmente una commedia con toni realistici, ha alcuni momenti che potrebbero evocare un respiro drammaturgico affine ad alcuni leitmotiv del teatro dell’assurdo, soprattutto nella rappresentazione delle difficoltà comunicative tra i personaggi, e nel senso di straniamento che a volte emerge nel dialogo. Di Beckett mi tornano in mente, oltre ai tempi dei dialoghi, i temi della solitudine, dell’attesa e dell’incapacità di comprendere o essere compresi pienamente dagli altri, attraverso dialoghi frammentari e ripetitivi, che riflettono una condizione umana universale. Sebbene Simon mantenga un tono più leggero e accessibile, i dialoghi tra George e gli altri personaggi a volte sfiorano un’ineffabilità simile, in cui ciò che viene detto sembra non riuscire a colmare il divario emotivo tra i personaggi. Anche alcuni gesti, alcune micro-ossessioni, il codice dei costumi, proietta questo personaggi in una bloccata e bloccante dimensione infantile.
Questo elemento, oltre alla specularità scenografica, mi ha fatto pensare anche a Ionesco, in particolare a Delirio a due, qui moltiplicato al quadrato, con le relazioni umane che si muovono tra conflitto, incomunicabilità e assurdità. In Delirio a due, una coppia discute in modo incessante e grottesco mentre fuori si consuma una guerra, sottolineando l’insensatezza dei conflitti personali e collettivi. In Capitolo Due, le difficoltà di George nel riprendere la sua vita e nell’aprirsi a un nuovo amore sono in fondo un microcosmo di quei meccanismi ripetitivi e potenzialmente assurdi che caratterizzano le relazioni umane. I dialoghi tra George e Jennie, pur con la patina di realismo e ironia tipica di Simon, a volte sembrano sfiorare lo stesso terreno ioneschiano, con battute che mettono a nudo il vuoto o il fraintendimento dietro parole apparentemente banali.

Foto di Duccio Burberi

MB: «Ci vuole tempo per risalire. Non voglio che ti prenda un’embolia» dice inizialmente a Jannie la Faye di Ilaria Martinelli, che non cede, ma resiste con coraggio e sprezzo, anche di sé, al vortice degli eventi che vorrebbero trascinarla lontana. Quindi, il mondo di Capitolo Due è come sott’acqua: un grande acquario dell’immobilità, in cui i toni vanno contro i pensieri, e i pensieri contro le parole, e da qui il lato comico, e tutta la strada che si sente che la volontà fa dalla testa per arrivare al cuore.
Siamo, comunque, a teatro, e allora il trillo del telefono, il suono del campanello, lo fanno le attrici e gli attori, il testo si allarga a tutto, e tutto ha una consistenza fisica, anche l’attesa, la speranza, la trepidazione. In un mare di silenzi, che sono il tempo preso in scena per esserci davvero, per vedere e farsi vedere davvero. Per ricominciare a vivere l’uno attraverso l’altra, come accade a George e Jannie, per cui a un certo punto non hanno nemmeno più bisogno di parole per parlarsi, bastano le interiezioni, ah, eh, così impacciate, così sincere.

RF: Nonostante le affinità di cui parlavo prima e che in sostanza argomenti anche tu, Neil Simon si differenzia in modo significativo per il tono e la finalità della sua scrittura dalla cifra dell’assurdo, e il secondo atto dello spettacolo lo definisce in modo esemplare. Dove il teatro dell’assurdo esplora il non-senso e la condizione umana in modo esistenziale e destabilizzante, Simon mantiene una prospettiva più ottimista e una forte attenzione al realismo emotivo. Il suo obiettivo, come quello di Civica, che legge molto bene lo scarto di registro fra il primo e il secondo atto dando spessore anche nel codice recitativo in particolare ai due personaggi principali, è per un verso quello di creare empatia e far sorridere, ma per l’altro quello di dare spunti di senso all’esistenza attraverso il reciproco sostegno umano; Beckett e Ionesco miravano con la loro scrittura destabilizzante da inizio a fine opera a mettere il pubblico di fronte all’assurdità o al vuoto dell’esistenza. Insomma qui quella patina non-sense viene usata da Civica in una logica chiaroscurale per far risaltare poi questa prossimità umana che salva dalla durezza del mondo, non solo dalle guerre fuori, ma anche da quelle interiori, che a volte non fanno meno male.
se i maestri drammaturghi novecenteschi usavano l’assurdo per rivelare il caos dell’esistenza, Simon lo usa solo occasionalmente per dare profondità ai suoi personaggi e alle loro relazioni, rimanendo comunque ancorato a una narrazione prevalentemente accessibile e umana, per indagare i sentimenti in profondità, cosa cui si arriva senza sconti alla fine dello spettacolo.

Foto di Duccio Burberi

MB: Dunque, c’è un momento stabilito, un momento giusto, per accettare il dolore, di cui dicevo prima? Il secondo atto di Capitolo Due, come hai appena rilevato con invidiabile acutezza, ci precipita nella verità del non detto, nella razionalizzazione dei sentimenti per paura della felicità. In fondo, è sempre la solita storia deglɜ altrɜ che vogliono guidare le nostre vite.
Ma è ancora una volta attraverso il parlare che si scardinano le chiusure, le difese, che si tirano giù le barriere, e ci si lascia invadere dalla difficoltà di tenere insieme la verità su di sé e la percezione di sé. L’espressione del desiderio che non si arrende davanti a nulla è la rivoluzione trasformatrice che conduce Jannie alla fine, con una tirata da attrice di Argenti che mi pare la più emozionante vista da tanto, tanto tempo.
Dicono che non può succedere due volte, l’amore. E invece succede, succede eccome. Bisogna concederselo, lasciar fare alla vita, che è più saggia di noi. Allora, puoi sentire la musica, anche quando la musica non c’è.

CAPITOLO DUE
di Neil Simon
uno spettacolo di Massimiliano Civica
con Maria Vittoria Argenti, Ilaria Martinelli, Aldo Ottobrino, Francesco Rotelli
scene Luca Baldini
costumi Daniela Salernitano
luci Gianni Staropoli
traduzione e adattamento Massimiliano Civica
proprietà intellettuale della traduzione di MTP Associati Srls
produzione Teatro Metastasio di Prato

Teatro Fabbricone, Prato | 21 e 22 gennaio 2025