RENZO FRANCABANDERA | Peggy Guggenheim morì nel 1979 e le sue ceneri furono sepolte nel giardino del suo palazzo, accanto ai suoi cani come da suo desiderio. Arrivò a Venezia nel 1948, dove acquistò Palazzo Venier dei Leoni, un edificio incompiuto affacciato sul Canal Grande. Divenne la sua dimora e, al contempo, la sede della sua collezione d’arte moderna.
Peggy trasformò il palazzo in un luogo vibrante, frequentato da artisti, intellettuali e creativi di ogni genere. La sua casa non era solo una residenza, ma anche uno spazio espositivo, dove era possibile ammirare opere di artisti rivoluzionari come Jackson Pollock, Max Ernst (che fu suo marito), Pablo Picasso, Salvador Dalí, e molti altri.
La sua collezione, iniziata negli anni ‘30, è una delle più importanti al mondo per quanto riguarda l’arte del Novecento. Peggy era famosa per il suo occhio critico e per il coraggio di sostenere artisti all’epoca poco conosciuti, contribuendo al loro successo internazionale. Palazzo Venier dei Leoni, dove ancora oggi c’è il museo Guggenheim a Venezia, è l’unico caso al mondo di un museo che ospita le ceneri di chi l’ha fondato.
E una leonessa effettivamente nella pièce ruggisce.

All’ingresso in  sala  si crea un piccolo capannello. Non capiamo come mai l’accesso alla Sala Fassbinder del Teatro dell’Elfo di Milano non proceda fluido come al solito. Quando entriamo, il palcoscenico è abitato non solo da alcune installazioni artistiche, una statua al centro dello spazio e una accumulazione a parete realizzata con amplificatori sonori sulla sinistra della scena; sulle due pareti laterali, infatti, non ci sono le tradizionali quinte, ma sedute già occupate da alcuni spettatori, mentre altri, rallentando l’ingresso in sala di altri spettatori, si aggirano fra le opere in scena, al seguito di una guida d’arte che, proprio come in un museo o in una galleria, conduce i visitatori verso una visione delle opere più consapevole.

foto Laila Pozzo

Un inizio quanto mai performativo, che si concluderà con una sorta di furto della statua a centro scena, per rivelare un pozzo da cui promana una luce dorata. Le scene di Marina Conti, così come le luci di Giulia Pastore, creano subito uno spazio dotato di specifica personalità, di eleganza museale contemporanea.
Per il seguito dello spettacolo, il regista Marco Lorenzi de Il Mulino di Amleto si assesterà su binari interpretativi più iscritti dentro i canoni del teatro di prosa, per portare il pubblico nella vicenda de La collezionista, un testo dalla drammaturga Magdalena Barile. A più riprese, comunque, lo spazio della platea, così come le vie di fuga laterali, rimarranno territorio permeabile all’azione.
Questa è la seconda occasione di incontro fra Il Mulino di Amleto e la Barile, dopo Senza Famiglia.
In scena fino al 2 febbraio, e ispirato evidentemente alla vicenda umana ma soprattutto all’allure della grande protagonista dell’arte e del collezionismo del Novecento, il nuovo lavoro è interpretato da un cast di attori che combina le esperienze della compagnia Il Mulino di Amleto con la storia dell’Elfo, nella persona di Ida Marinelli, una delle fondatrici della storica compagnia milanese, qui nel ruolo della protagonista, mentre attorno a lei si avvicendano bizzarri personaggi, affidati all’interpretazione di Yuri D’Agostino, Barbara Mazzi e Angelo Tronca, che si confrontano con ruoli surreali, degni della protagonista della vicenda.
Pare sia stata proprio Ida Marinelli a originare l’idea di uno spettacolo ispirato alla figura di Peggy, in cui forse rivedeva la propria passione bruciante per l’arte, e per lo sviluppo dei linguaggi, una femminilità viva in un mondo, come quello dell’arte, governato da figure maschili. Attorno a questa idea primigenia si sono poi sviluppati i contatti con la drammaturga milanese e Lorenzi, regista, fondatore e direttore artistico della compagnia Il Mulino di Amleto, con la sua visione registica improntata all’esplorazione della psicologia dei personaggi e delle relazioni interpersonali.
La scrittura di Barile si muove fra biografismo e atmosfera surreale, affiancando al personaggio della donna ormai matura e in crisi, un giovanetto tuttofare, arraffone e furbo, dall’evocativo nome di Marcel, e alcun3 artistoid3.
La pièce si apre con un’intervista della collezionista all’inviata di una vivace testata online che già aveva dato qualche grattacapo alla donna, ormai in cerca di visibilità per uscire dal cono d’ombra in cui la vita, per sua norma, precipita gli umani, anche quelli che hanno avuto gloria. Nulla è eterno.
L’inevitabile parabola dell’esistenza si staglia quindi sul fondo di una vita vissuta pienamente, che non trova più appigli all’inesorabile declino, delle forze e delle attenzioni di un mondo che cambia troppo velocemente, mentre attorno giovani artisti, spiantati o portatori di istanze eco-femministe, irrompono in questo ambiente asettico e dalle prospettive distorte.

foto Laila Pozzo

La trama, pur presentando numerosi personaggi a margine, non attribuisce a nessuno di questi un rango capace di sviluppare un reale conflitto con la protagonista, decadente e straniata, che resta imprigionata in una solitudine distaccata e via via sempre più incomunicabile. Si susseguono quadri affidati all’irrompere nella vicenda di questo o quel personaggio, a conti fatti minore e dal piglio recitativo carico e surreale, senza però modificare l’ineluttabilità del fato.
Elegante, sia per i notevoli costumi disegnati da Elena Rossi, che per la sua pregnante intensità e presenza scenica, la Marinelli incarna questo tormento di essere attorniata da un fastidioso sciame di mezze figure, con alcune delle quali intesse anche emozioni erotiche di piccolo cabotaggio, ma incapaci di interferire sull’andamento emotivo di un’esistenza vissuta fino alla fine da donna indipendente, pagandone ovviamente anche le ovvie conseguenze. Tenta, qualche furbetto, di sfruttare le debolezze della senescenza di lei a scopo di gloria e lucro con la circonvenzione. Ma la donna, e questa è forse la cosa più bella dello spettacolo e della pensata artistica nel suo complesso, resta, pur nell’eccentricità, lucida e consapevole della luce grande che da lei promana, e che si spegnerà con lei.
Certo, i temi che la pièce tocca (pur senza sceglierne uno su cui andare a fondo) sono diversi, e riguardano anche il sistema dell’arte, i rapporti arte-mercato, il possesso privato del bello, l’accessibilità alla creazione, forze e debolezza della vita artistica, ma tornando dopo qualche giorno con il pensiero sulla creazione, non c’è dubbio che la sensazione di maggiore persistenza resti indiscutibilmente legata alla figura femminile iconica.
La regia, pensata per amplificare il dialogo tra testo e pubblico, si sforza di amplificare i pochi elementi conflittuali che il testo offre, per creare un ritmo e un pathos in cui esplodano i conflitti fra la donna e una contemporaneità con cui non dialoga più. Ma, in ultima analisi, il vero conflitto che sempre affligge chi vive d’arte è proprio quello con la sensazione di tramonto e con il dramma dell’essersi lasciati attraversare l’esistenza da questa “malattia”.
Mi torna alla mente, da vecchio frequentatore di sale teatrali, la versione de L’ignorante e il folle di Thomas Bernhard andato in scena all’Elfo di Milano nel 2008, quando era ancora nella vecchia sede di Via Menotti, anche lì con una Marinelli colossale a interpretare il prosciugamento dell’arte, con simili atmosfere di ossessione claustrofobica: anche qui la casa-museo, a conti fatti, è una prigione senza finestre sul mondo esterno, una sorta di cella da Finale di Partita di Beckett da cui dovrebbe arrivare l’odore putrido della laguna e, invece, arriva una asettica colata di colore giallo, che riga la parete come in un dripping di Pollock.

foto Laila Pozzo

Efficace resta, a consolidamento di questa lettura, la proiezione a video proposta dalla regia, durante una sorta di falso rapimento della protagonista da parte di un gruppo di artist3/attivist3 (forse si vuole ricordare il furto del 1972): in primo piano la Marinelli di oggi il cui volto viene proiettato in gigantografia a fondale, mentre di fianco scorrono stupende foto in bianco/nero dell’archivio del Teatro a cura di Guido Harari e Armin Linke.
Insomma, a leggere bene anche la filigrana che sta sotto la tessitura drammaturgica, che lascia solo intravedere alcune ispirazioni legate alle biografie al femminile che ruotano intorno alla vicenda, questa storia vuole raccontare più di tutto di donne, arte e tempo, mentre la società e quello che gira attorno finisce per scivolare in secondo piano.
Il leone che ruggisce, ma non si vede, oltre che ai leoni richiamati nel nome di Palazzo Venier, rimanda, forse, ai felini che di quella casa sono evidentemente cifra peculiare, visto che anche una delle precedenti proprietarie della dimora veneziana, la nobile Luisa Casati, anche lei femme fatale, per un certo periodo usò cingersi il collo con un boa vivo, e girava per le calli veneziane con dei ghepardi legati al guinzaglio (ispirarono un gioiello di Cartier), oltre ad andare di notte in gondola totalmente nuda, sotto la pelliccia aperta.
Può darsi che Peggy di quella casa, che dopo la Casati era finita nelle mani di una donna non meno chic ed eccentrica, Doris Delevingne, Viscontessa Castlerosse, ha ereditato davvero la folle passione per la vita da consumare in modo tumultuoso, aderendo a un ideale di femminilità libera e indipendente, misteriosa e sconvolgente per il secondo dopoguerra del secolo scorso. Ma probabilmente anche per il tempo presente…
Si tratta di esistenze vissute come un bagliore, come la luce che Marinelli/Peggy, in un meraviglioso peplo ieratico, porta con sé fra le mani, e che si spegne mentre narcisisticamente la donna, sola, si specchia nella fontana di miele al farsi della notte.

LA COLLEZIONISTA

di Magdalena Barile
regia Marco Lorenzi
con Ida Marinelli, Yuri D’Agostino, Angelo Tronca, Barbara Mazzi
scene Marina Conti
costumi Elena Rossi
luci Giulia Pastore
suono e video Gianfranco Turco
effetti scenici Tommaso Serra
assistente alla regia Giorgia Bolognani
assistente alla regia stagista Alessio Boccuni
foto proiettate sulla scena Guido Harari e Armin Linke (dall’archivio del teatro)
foto di scena dello spettacolo Laila Pozzo
produzione Teatro dell’Elfo, AMA Factory

Teatro dell’Elfo, Milano | 24 gennaio 2025