LAURA NOVELLI | Come può il linguaggio curare la solitudine di una donna caduta in un mondo non suo, in una casa non sua, in una vita non sua? Semplicemente: non può. Eppure, lo splendido monologo Anna Cappelli, che Annibale Ruccello scrisse nel 1986 poco prima della sua prematura e tragica scomparsa, è un corpo robusto e vigoroso di parole – parole dette, sussurrate, spezzate, negate, ripetute – costruito proprio con l’intento di evocare un universo drammatico chiamato a farsi àncora di salvezza per la protagonista. Anna parla e, parlando, esiste. O forse immagina.
Certamente, in quel suo dire (e dir-si), in quel suo anelito costante all’interlocuzione con le ombre, i fantasmi, le paure, le pulsioni che l’affollano, cerca caparbiamente sé stessa. Una ricerca, tuttavia, persa già in partenza. Lo si avverte in modo netto nell’originale, intensa, versione registica di
Claudio Tolcachir che, presentata al Teatro India di Roma nelle sere scorse, trova in Valentina Picello un’interprete a dir poco straordinaria.

Anna Cappelli. Foto di Luigi Angelucci

L’interno domestico, descritto dall’autore nelle sue poche e sintetiche didascalie, diventa qui uno scenario catastrofico (lo firma Cosimo Ferrigolo): un’alta coltre di terriccio scuro sul pavimento, una lavatrice sprofondatavi per metà, un frigorifero capovolto a terra, un lampadario di cristallo caduto dall’alto, una cyclette in pessimo stato, una poltrona/mondo di chiara foggia anni Sessanta (periodo, non casuale, di ambientazione della pièce) e poi abiti, oggetti: residui di un quotidiano esploso o terremotato. Su queste macerie, dolorose persino, il passo dell’attrice si mostra vacillante, affaticato, incerto. Affonda come affonda la Winnie di Giorni Felici di Beckett nella sua sabbia di immobilità. E proprio come Winnie, Anna parla, parla, parla.
A questo parlare, l’immensa sensibilità espressiva della Picello regala corde e registri diversi: il suo linguaggio frammentato, negato, ingoiato, ripetuto, sospeso, attraversa un continuo movimento della voce e dell’intonazione, che passano con musicale levità dal tragico al comico, dall’amarezza più profonda alla più acre auto-ironia, accompagnando lacrime e sorrisi, ammiccamenti al pubblico e sguardi bassi, movimenti lenti e improvvisi scatti fisici. Questa figura ha il dolore di un animale ferito, le contorsioni discrete di un clown lunare, i gemiti sommessi di un animo sofferente, che già all’inizio della pièce recita la sua incapacità di stare al mondo e, di contro, il suo bisogno di possesso, di esserci, di sentirsi nelle cose.
Guidata dal regista e drammaturgo argentino (che l’aveva già diretta nel fortunato Edificio 3, per il quale l’attrice ha vinto il Premio Hystrio 2022), l’attrice ci conduce dentro la progressiva follia di una donna in bilico – appunto – tra concretezza e astrazione, verità e allucinazione. Una donna che, al pari di altri personaggi di Ruccello, quali Adriana (Notturno di donna con ospiti), Jennifer (Le cinque rose di Jennifer), Clotilde (Ferdinando), Ida (Week-end), fa parte di una schiera di “deportati” della vita: esseri umani fragili e soli, votati a un fallimento che li fa scivolare giocoforza nell’irrazionalità più imprevedibile e più atroce.

Foto di Luigi Angelucci

Tuttavia, in questo grande teatro e in questa grande drammaturgia, la Parola, seppure non può essere salvifica, almeno può mostrarsi consolatoria: in tutto il monologo, Anna parla e straparla per avere la possibilità di pensarsi ancora viva o, più probabilmente, per esercitare la libertà di abitare i suoi incubi, i recessi meno perscrutabili della sua stessa mente. Nel suo vestitino a fiori un po’ dimesso, i capelli raccolti, poi sciolti, poi di nuovo raccolti, un’inquietudine insofferente la attraversa: lei, che ha lasciato il paese e la famiglia d’origine per lavorare come impiegata comunale in una città (Latina nel testo), che sente estranea, ha preso una stanza in affitto presso l’appartamento della signora Tavernini. Un appartamento che puzza, che Anna non sopporta, che – appunto – non le appartiene.
Nulla, in fondo, le appartiene e questo senso di vuoto diventa gigantesco bisogno identitario, al di là e a prescindere dai venti rivoluzionari che, proprio nel periodo di ambientazione del lavoro, scombussolarono il perbenismo imperante, portando alla ribalta il tema dell’emancipazione femminile. Aspetto che senza dubbio c’è nel lavoro ma che, a nostro avviso, nulla toglie al fatto che abbiamo a che fare, innanzitutto, con una dolente storia umana. Una storia senza tempo.
Motivo per cui, non appena Anna/Valentina stringe un rapporto amoroso con il ragionier Tonino Scarpa, si scopre pronta ad accettare compromessi pesanti pur di andare a vivere con lui, in una casa finalmente sua, con mobili e oggetti suoi, un uomo suo: «No! No! E no! Non ci sposiamo: convivremo insieme senza sposarci! È contenta?…E non me ne frega un accidente se lei e le sue care amiche si scandalizzano tanto!…Siamo due persone emancipate, va bene? Siamo due persone emancipate che non credono nelle convenzioni borghesi. E poi finalmente avrò una casa mia!…Capisce signora?…Mia!!!…». Niente matrimonio. Niente figli. Ma almeno l’illusione di essere finalmente qualcosa.
Ed ecco che, nello spettacolo di Tolcachir, il persona
ggio – in passato portato sulle nostre scene da attrici quali, tra le altre, Benedetta Buccellato, Alvia Reale, Maria Paiato – entra in un campo di battaglia tutto interiore, cui la concretezza morbida della recitazione restituisce una profondità grottesca e lacerante. L’abito a fiori cede il posto a una sottoveste celeste chiaro, poi a una camicetta colorata; un paio di orecchini, un filo di perle, una passata veloce di rossetto sulle labbra.

Foto di Luigi Angelucci

Ancora, però, quel passo vacillante. Quel dis-equilibrio dell’anima che da lì a poco, non appena il suo uomo la lascerà per abbracciare una nuova vita “altrove”, la spingerà a un atto estremo di indicibile crudezza. Un atto arcaico. Un rito di riappropriazione tanto oscuro quanto necessario.
Stesa sul frigorifero/tomba dove riposa il corpo martoriato dell’amante (nell’opera si tratta di un letto), questa Anna della Picello sembra assurgere a eroina classica, a simbolo: una Medea moderna che annienta e travolge ogni possibilità di riscatto. Ma, anche qui, il dire si impasta dei tremolii e dei sussurri dell’inizio; e ora tali tremolii e sussurri confondono la tragedia con il sarcasmo, il dramma con il cinismo della resa.
E poco importa capire se l’epilogo descritto dall’autore partenopeo (che non smetterà mai di mancarci e al quale il Teatro di Roma tributa, quest’anno, un trittico di allestimenti composto da questa
Anna Cappelli, Le cinque rose di Jennifer diretto da Geppy Gleijeses e Ferdinando firmato da Arturo Cirillo) sta nella concretezza della vicenda o solo nelle ombre allucinatorie dell’immaginazione. Perché esso vibra dentro la lingua. Come un sospetto fluttuante.
Fluttuante nelle parole di Ruccello e nella lettura di Tolcachir. Fluttuante, tanto più, dentro la grande prova interpretativa di un’attrice che non solo intercetta pienamente la poesia della partitura drammatica e le dilatazioni argute di una regia coraggiosa e sensibile, ma è capace di trovare sé stessa nei confini di Anna e di restituircene un’immagine davvero indimenticabile.
Basti soffermarsi sull’epilogo: dopo le belle virate grottesche delle scene precedenti, dopo le danze tristi intraprese sulle note di
Raffaella Carrà (Porque el Amor) e Gino Paoli (La gatta), dopo le imprecazioni, le rivolte, i no, le suppliche, Picello è sola con i suoi fantasmi. La voce si fa più bassa. Il dialogo macabro con il defunto inciampa nella pazzia. Lei non c’è più. Non ha più nulla. Nemmeno sé stessa.

ANNA CAPPELLI
di Annibale Ruccello
regia Claudio Tolcachir
con 
Valentina Picello
scene Cosimo Ferrigolo
luci
Fabio Bozzetta
produzione 
Carnezzeria, Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatri di Bari
in collaborazione con 
AMAT

Teatro India, Roma | 24 gennaio 2025