RENZO FRANCABANDERA | Ha debuttato in prima assoluta a Palermo al Teatro Biondo (dove resta in scena fino al 9 febbraio per poi spostarsi a Catania al Teatro Verga dal 14 al 23 e 27-28 a L’Aquila) la messa in scena del testo Il male oscuro di Giuseppe Berto nell’adattamento e con la regia di Giuseppe Dipasquale, recentemente nominato direttore di Marche Teatro.
Il male oscuro, che si aggiudicò i premi Viareggio e Campiello ma fu rifiutato da più di un editore prima che Rizzoli lo pubblicasse nel 1964, narra di uno scrittore in crisi segnato dai sensi di colpa per la morte del padre. Solo trent’anni dopo, nel 1990, Monicelli ne trasse il film con protagonista Giancarlo Giannini. Il motivo di tanta difficoltà? Evidentemente il tema. Per anni la depressione è stato un argomento di cui non si è potuto parlare. Il male oscuro, appunto, celato dietro le porte delle case, dietro le persiane sempre chiuse, nelle stanze in cui si accumulano i pensieri e gli oggetti mentre il buio si impossessa degli ambienti e delle persone che ne soffrono e che raramente trovano supporto rapido da parte di chi sta attorno, quel supporto essenziale per poterne uscire. Coraggiose quindi le diverse operazioni teatrali che in questi ultimi anni hanno dedicato al delicato argomento il loro interesse.
Interprete del ruolo di Bepi, il protagonista, è qui Alessio Vassallo, al suo fianco Ninni Bruschetta nel duplice ruolo dello psicanalista e del padre di Bepi. Il cast è completato da Cesare Biondolillo, Lucia Fossi, Luca Iacono, Viviana Lombardo, Consuelo Lupo e Ginevra Pisani. Le scene dello spettacolo, co-prodotto da Marche Teatro, Biondo e Stabile di Catania, sono di Antonio Fiorentino, i costumi di Dora Argento, le musiche di Germano Mazzocchetti, i movimenti coreografici di Rebecca Murgi.

Abbiamo intervistato il regista e neo direttore di Marche Teatro, dopo l’esito felice delle prime repliche.
Giuseppe, il tema della sofferenza psichica e del male oscuro è molto più diffuso di quanto si pensi. Ma come si può trasporre in scena la complessità delle relazioni e dei cambiamenti nelle persone generata dal subentrare della dinamica depressiva?
Il linguaggio del teatro permette esattamente questo: fingere la sindrome pur non avendola. Per lo stesso criterio Otello può uccidere Desdemona senza essere nella vita un assassino! Oggi tra l’altro è il momento più opportuno per riflettere sul tema della depressione, ovvero su quello che Giuseppe Berto chiama male oscuro. La società occidentale si è costruita una gabbia piena di obblighi e necessità, per lo più inutili al vivere quotidiano, ma utili all’esasperazione dell’ego. Questo meccanismo perverso determina ansia, angoscia, un male di vivere dal quale uscire non è sempre facile. Siamo riusciti a ricreare tutte le condizioni linguistiche e di azione sulla scena, attraverso l’interpretazione guidata con gli attori, le scene, i costumi e le musiche, al fine di restituire una sindrome costante così come si legge nel romanzo.

Perché hai scelto questo tema, al di là della eventuale rilevanza sociale che il fenomeno assume? È un tema con cui hai avuto anche personalmente nella tua cerchia di conoscenze modo di avere a che fare?
La depressione fino a qualche decennio fa non aveva neanche nome. Berto la chiama appunto “male oscuro”, Montale “male di vivere”. No, per mia fortuna non è stata un’esigenza autobiografica a spingermi nella scelta di questo testo, ma una visione più di ordine storico e sociale, come dicevo prima. È oltremodo urgente oggi manifestare le ragioni di un disagio psicologico che afferra anche e soprattutto le giovani generazioni, che non sanno avere la giusta consapevolezza di sé. Il teatro deve servire anche a questo, non per essere terapeutico, ma per mostrare la strada di un lavoro interiore che può portare ad inimmaginate risoluzioni del problema.
Il tuo è sempre stato un teatro di regia, di prosa, orientato a un rapporto fruitivo agevole con il pubblico. Che scelte stai facendo per questo allestimento?
Ho sempre avuto fiducia nel testo d’autore. Ma il testo è nullo, inerme se non si traduce in azione teatrale, operante nell’orizzonte poetico della regia e nella vita che l’attore gli dà sulla scena. Per questo male oscuro ho chiesto allo scenografo Antonio Fiorentino di realizzare uno spazio mentale dove potessimo entrare per trovare la dannazione di Bepi. Uno spazio sospeso dove tutto coesiste e tutto avviene con salti temporali non sempre consequenziali.
Alla costumista Dora Argento ho chiesto che i costumi dei personaggi che il protagonista evoca fossero quasi immateriali e trasparenti e addirittura incolore, affinché si percepisse l’appartenenza a una realtà altra rispetto alla concretezza del dolore che vive il protagonista.
Al musicista Germano Mazzocchetti ho chiesto un lungo unico tema, che si sviluppa dall’inizio alla fine quasi senza soluzione di continuità. Il risultato sembra molto convincente.

Ci sono eventi collaterali a margine del debutto per favorire una discussione sociale sul tema dello spettacolo? Ritieni che in questo caso il teatro possa essere motore di una apertura capace di coinvolgere il servizio sanitario, i servizi sociali, l’arte tutta?
Io ritengo che la democrazia di un paese si misura dalla qualità con la quale si produce concretamente cultura. Il teatro è un termometro significativo dei diagrammi sociali, anche se la sua immediata analisi può comportare, vista la natura complessa del linguaggio espressivo che adopera, qualche difficoltà.
Ma pensate all’importanza di un motore di idee, quale è un teatro, inserito nell’ambito di un territorio a volte anche difficile! Ebbene sì, anche le attività collaterali connesse adun solo progetto sono carburante produttivo per la crescita della società.