RENZO FRANCABANDERA e ELENA SCOLARI | RF: «È tipicamente ritratto come un affascinante vigilante mascherato che difende la gente comune e le popolazioni indigene contro funzionari corrotti e tirannici e altri cattivi nel Pueblo de Los Ángeles — il centro abitato fondato dagli spagnoli nel 1781 che nel XX secolo diverrà la metropoli di Los Angeles — ai tempi della California spagnola (1769-1821)». Questo dice alla voce ‘Zorro’ l’ultimo tentativo enciclopedico tutto umano ancorché digitale, l’ultimo grande sogno di onniscienza prima della grande macchina, l’ormai quasi vetusta Wikipedia.
E Zorro sicuramente è un supereroe totalmente analogico, televisivo, l’ultima scoria (più che storia) di cappa e spada che io abbia potuto respirare da cinquantenne, nella mia infanzia da teledipendente negli anni Settanta, mentre le BR incidevano davvero la stella a cinque punte sulla pelle di qualche malcapitato. Anche loro in difesa del proletariato.
Costume nero, mantello, cappello a larghe falde e una maschera che gli copre la metà superiore del viso. Praticamente come Melania Trump alla cerimonia di insediamento del marito Presidente.
ES: Melania però non frequenta i poveri. Perché qui di poveri si tratta, più che di Zorro, un richiamo che nello spettacolo resta quasi invisibile, come il segno Z che le spade tracciano nell’aria. I quattro cavalieri dell’Apocalisse proletaria, seppur abbigliati come per una gita luccicante alla Graceland di Memphis, si preoccupano di discettare a proposito delle relazioni tra ricchi e poveri – brechtiani o stanislavskiani – chiedendosi anche chi sia nato prima, come l’eterna questione esistenziale tra uovo e gallina.

Ma chi sono i quattro? Prima di tutto sono quattro attori molto molto bravi – Michele Andrei, Paolo Giovannucci, Stefano Laguni, Isacco Venturini – che interpretano, a turno, un poliziotto, un cavallo, un muto, un povero. In una girandola che prende spunto dai passi della quadriglia, ognuno ricopre tutti i ruoli e ne dà una sua personale interpretazione. Se muto e cavallo non sono proprio determinanti, poveri e poliziotti rivelano invece alcune declinazioni del tema: Andrei il verde è il più irriverente, comico, immediato – gli tocca pure tirar fuori il pisello -; del rosso Laguni traspare la toscanità, è familiare, popolare, nonostante tutto un uomo medio, Giovannucci l’azzurro è elegante, distinto, un bel signore, leggermente fuori contesto ma in un modo funzionale; il viola Venturini è la giovane star country, è l’allievo dotato, è qualcuno che ascolta gli altri tre, più in età di lui.
RF: Parto dall’impianto drammaturgico di questo spettacolo andato in scena nelle scorse settimane in prima nazionale al Piccolo Teatro di Milano, per la regia di Antonio Latella, su testo scritto dal regista stesso insieme a uno dei suoi drammaturghi di riferimento, Federico Bellini.
Lo spettacolo è diviso in due atti. Il primo vede il confronto dialogico fra i 4 personaggi, all’inizio di tono surreale e assurdo, tanto che viene evocato persino Beckett. Si scambiano i ruoli: tutti ora poveri, ora poliziotti, insomma sintesi del pensiero pasoliniano, anche se PPP non viene mai citato esplicitamente. Parliamo comunque di chi subisce al giorno d’oggi.
ES: Eh, un Pasolini non si nega a nessuno, qui non lo si nomina direttamente ma la citazione «I poliziotti sono figli dei poveri» sappiamo bene che viene dalla cronaca degli scontri di Valle Giulia, poliziotti contro studenti.
RF: Il secondo atto vede i quattro poveri antieroi alle prese, uno dopo l’altro, con un disperato monologo, un po’ in stile Koltès nei campi di cotone. Comunque Zorro è un pretesto totale: l’invito sotteso all’operazione è smascherare le logiche che rendono gli umani schiavi, ronzinanti della società post-democratica planetaria; è un invito allo spettatore a smascherarsi, denunciando il proprio stato (sempre più piccolo) borghese. Pochi i poveri in sala, pochi i neri. Insomma il teatro è un divertimento per benestanti, per una disillusa e deludente middle class.

ES: Sembrerebbe uno spettacolo pieno di segni, fin dal suo concepimento. Pare infatti che il regista abbia visto due mendicanti chiedere la carità vestiti da Zorro fuori dal teatro bolognese dove stava lavorando, e così ha pensato al personaggio di McCulley per affrontare l’argomento povertà. La Z che rappresenta il cavaliere mascherato non viene mai nominata ma quando uno degli attori pronuncia la parola ‘segno’ si spargono fumi in scena, qualcuno esce o rientra nella botola in mezzo al palco (ecco i passaggi segreti sotto la hacienda letteraria) e si attua il giro di quadriglia dei personaggi.
Sono segni anche i pochi arredi scenici tra cui una cabina per fototessere (la macchina ne stampa 4 e ognuno degli interpreti è uno e quaternario) e un grosso cactus. È un segno anche aver lasciato a vista il fondale del retropalco, dipingendolo di bianco, però.
RF: Costumi, scena, musiche e luci creano un’atmosfera nitida, chiara. Ne ha merito un gruppo di valenti artiste/i coinvolti nell’allestimento: la prima cosa in cui si imbattono gli spettatori entrando a teatro in via Rovello sono gli interpreti stessi nei loro costumi sgargianti da festa american-messicana ultrapop, pensati da Simona D’Amico. Accolgono gli spettatori su piedistalli, in posa, come al museo delle cere. Di lì a poco in sala Venturini alla moda di Elvis e illuminato da luci da concerto intonerà la prima delle canzoni eseguita per voce e chitarra con cui poi eseguirà la colonna sonora di questo lavoro (suono Franco Visioli). La scenografia di Annelisa Zaccheria mescola una solitudine urbana alla Hopper con il posticcio ambiente tex-mex: da un lato la macchina per foto automatiche disposta in fondo a destra della scena e le pareti spoglie del palco che rivelano lo scheletro della macchina scenica; dall’altro il cactus finto, posizionato a sinistra, in avanti. Null’altro in scena se non il reggi-chitarra e il microfono stile Elvis disposto sulle scale di accesso al palcoscenico. Una botola circolare disposta sotto il cactus completa la macchina scenica, insieme a selle e manganelli dorati, che gli attori usano a vario titolo per fare ora i padroni, ora i “sotto”. Le luci (molto belle, di Simone De Angelis) sono da concerto rock-fiesta con i toni freddi dei led a fendere dall’alto; in basso lampadine sulla scalinata di accesso al palco a dare l’idea della fiesta.
ES: Festa di paese ma anche luci della ribalta. Un altro oggetto molto importante è poi il grande puntatore rosso (come quelli di google maps) che scende dalla graticcia e replica la scritta luminosa ‘Piccolo Teatro’ proprio come l’insegna in via Rovello. È un signor simbolo perché parla di Milano, dell’edilizia “luxury” che la ha fatta diventare una città per soli facoltosi, perché parla di Strehler e Grassi che lì fondarono “un teatro d’arte per tutti” quando gli operai erano davvero parte del pubblico. Però Latella ci piscia sopra, al simbolo a forma di goccia rovesciata e che reca in cima la scritta luminosa Piccolo Teatro come quella di via Rovello; o meglio, lo fa fare a uno dei suoi personaggi, lo stesso (Andrei) a cui farà dire “Non c’è più Strehler, non c’è più Ronconi, non c’è più Castri e io devo recitare in questa merda di Latella”. Ecco, questo narcisismo fintamente autodenigratorio è irritante, segna lo scollinamento nella dimensione dell’ “io posso perchè sono io”. Un eccesso strafottente di confidenza.
RF: Sarà proprio la reazione che avranno voluto suscitare? Di fastidio per un teatro che non dà più fastidio se non a chi lo ama, quando lo si tocca nei sacri tabernacoli? Evviva che ci urtichi, che ci tocchino la nostra chiesa… In Godot we trust.
ES: Il fastidio (mio) non è per il dileggio dissacratorio quanto per la presunzione di poterselo permettere perché ci si sente in famiglia. Piuttosto, ho trovato interessanti – almeno per un po’ – le riflessioni testuali sul linguaggio, sui pronomi (in dialoghi che arrivano a essere esercizi di acrobazia linguistica), soprattutto sul senso della parola “convenzione” in teatro, perché lì dentro sta tutto il significato del patto di fiducia tra scena e platea. Se qualcosa di originale si vuole provare a dire, dalle convenzioni bisogna però allontanarsi. E allora non mi hanno convinto i costumi stracarichi di lustrini indossati anche per raccontare, documentaristicamente, i dati sulle persone che scompaiono ogni anno in Italia o sul divario tra ricchi e poveri che in California è aumentato.
Ma parliamo della forma musical, cosa ti hanno fatto pensare le scelte musicali? A partire da Sono un ragazzo di strada dei Corvi che apre lo spettacolo per arrivare a La mia Lambo di Niko Pandetta, star siciliana del trap autore anche di altre perle come Pistola nella Fendi?

RF: Questo è un po’ una cifra a più riprese presente nella vita artistica di Antonio Latella, penso che sia quell’incoerenza vesuviana che fa convivere geneticamente nella metropoli campana le sofisticatezze di Capodimonte, le visionarie gallerie d’arte partenopee con il magma pulsante di Via Toledo e dei quartieri: lirica e neomelodico. È l’incoerenza della società multistrato. Non mi disturba. Capisco che non sia lineare e costringe a salti quantici dal punto di vista dei contenuti ma non dal punto di vista formale, visto che le scelte musicali – che comprendono anche classici della canzone pop e cantautorale americana – sono eseguite tutte chitarra e voce da Venturini.
ES: Molto bella, a mio avviso, l’idea dell’arlecchino nero, uno Zanni, il povero teatrale per eccellenza – un Giovannucci assai chic, in verità – che smette gli strass di Elvis e veste un abito giacca e pantaloni a losanghe nere, impegnato in una variante del celebre lazzo della mosca, mangiata la quale reciterà un monologo in cui il ronzio si trasferisce in ogni finale di parola: (cito a memoria) ‘noi siamo la fecciaz, ci lasciate ai marginiz, perché puzziamoz…’, ecc. L’idea è fantasiosa ma diventa compiaciuta per via della lunghezza, la sindrome della lista colma la misura. Meglio sarebbe stato chiudere con questo elencoz, senza aggiungere l’ultima canzone.
RF: Zanni è un’altra fissazione di Latella. Cosa sarebbe d’altronde l’arte senza fissazioni, senza ossessioni? Sono nel linguaggio dell’artista la calligrafia autentica, i segni profondi. Ricordo il suo Servitore di due padroni dove il lazzo della mosca era il culmine dello spettacolo, affidato a Roberto Latini, e anche in quel caso si rivelava a fondale la pura macchina teatrale.
Il regista è appassionato della lunghezza autentica ed extra teatrale delle cose, che non di rado in molti suoi spettacoli, Zorro compreso, si risolvono in bolle di vuoto e noia marthaleriana assolutamente volute: lì diventa essenziale il gioco di rimbalzo con la parola. A volte funziona, a volte meno. Non ha mai praticato il tranquillo pascolo di una drammaturgia classica senza affidarla a qualche fidato drammaturgo vivente, per farla a pezzi, rimacinarla, trasformarla. Questo aspetto scivoloso, rischioso del suo fare teatro e del suo essere artista, da artista lo apprezzo. Si è sempre messo in difficoltà, si è sempre fatto porgere complicazioni dai suoi drammaturghi (Dalisi/Ponzio/Bellini). Se questo si risolva sempre in spettacoli “belli”, posso dire sicuramente di no. Se questo si risolva in quesito d’arte, posso altrettanto sicuramente rispondere: sì.
Ci sono registe/i di cui conosci per gran parte lo spettacolo che andrai a vedere, ben prima di entrare in sala. Con lui questo non è.
ES: A me piace fare la poliziotta cattiva e ti dirò che in tutta questa fluviale esposizione di teorie economiche che partono niente meno che dalla moltiplicazione – qui divisione – dei pani e dei pesci, non ho mai alzato un sopracciglio per una riflessione indotta e nuova. La sorpresa dell’iconografia di Elvis dura poco e non è abbastanza.

Quando Giovannucci, al calar delle luci, alza il suo dito/spada a fare il supereroe, rivela proprio tutta la miseria, una miseria geograficamente diffusa e presente, come su una mappa di Google. Forse, qui si parla di povertà, ma penso che si parli dall’altra parte di meschinità e miseria umana. Quando si parla di povertà, in modo esplicito e didascalico (e nel secondo atto capita spesso), lo spettacolo secondo me non funziona granché. Quando si parla di miseria, di decadimento, di supereroi invecchiati e imbolsiti da fine impero, come in Kingdom come, la saga a fumetti di Axell Ross e Mark Weid, quando si legge in controluce l’esistenza fragile e antieroica, l’atmosfera si fa più interessante. E di chicche ce ne sono.
Ti seguo sulla questione maschera/identità, e la collego al povero in costume verde che mostra il membro a riprova che sia più identificativo di un documento, che non documenta.
Ma sui supereroi sono confusa: se la scelta è andata su Elvis perché lui esisteva davvero ed era ingabbiato in un costume, allora perché Batman, Spiderman e compagnia briscola vengono cercati e individuati in platea?
RF: Diciamo che quando esci da uno spettacolo di tre ore, dove ci si perde e ci si ritrova, ci si annoia e ci si infastidisce, e che comunque ti costringe ad analizzarne i segni, in fondo la missione artistica è compiuta. Chi se ne frega del bello. Meglio il fastidioso, l’urticante. E quella noia che rifuggiamo nella vita reale. Nemmeno La cantatrice calva di Ionesco è divertente. Si potrà dire che questo testo è poco ispirato, e posso convenire. Ma quella famosa sigaretta lunghissima che Latella spiega all’inizio dell’intervista che gli feci nel 2017 resta ancora il suo chiodo fisso sul senso di fare scena oggi, di quale sia l’elemento urticante del suo teatro.
ES: I balletti maschili su I will survive non urticano più nessuno da almeno vent’anni, diciamolo una volta per tutte.
RF: Eppure da 20 anni mi sorbisco le sue maratone, i suoi monologhi con attori anti-divi, a volte sconosciuti gioielli di borgata, spettacoli quasi mai “belli”. Quasi mai riusciti. Penso che proprio l’idea di uno spettacolo bello e riuscito, alla fine, non gli interessi nemmeno. E fa bene. L’artista deve fottersene. Se no non è artista.
ES: L’artista può fottersene di quello che vuole ma la grandezza non sta in questo, sta nel restare nella carne e nella mente dello spettatore, anche dopo che la spada è tornata nel fodero.
RF: FoderoZ…
ZORRO
prima nazionale
di Antonio Latella e Federico Bellini
regia Antonio Latella
scene Annelisa Zaccheria
costumi e simboli personaggi Simona D’Amico
suono Franco Visioli
luci Simone De Angelis
movimenti coreografici Alessio Maria Romano
assistente alla regia Paolo Costantini
con Michele Andrei, Paolo Giovannucci, Stefano Laguni, Isacco Venturini
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Piccolo teatro Grassi, Milano | 31 gennaio e 7 febbraio 2025