RENZO FRANCABANDERA | Antonio Viganò è uno dei maggiori creatori di teatro che abbiamo in Italia da molti anni. E ancor di più questa cosa spicca adesso, in tempi in cui la grammatica della scena, così come quella della lingua, balbetta, dissipando le grandi costruzioni e lo studio di quella formidabile generazione del linguaggio dell’arte dal vivo che ha addensato le sue esperienze pionieristiche negli anni Settanta/Ottanta del secolo scorso. Il suo paradigma creativo, realizzatosi compiutamente a Bolzano con la compagnia Teatro la Ribalta – Kunst der Vielfalt, si è concentrato su un teatro senza barriere, che includesse nell’atto scenico attori con e senza disabilità, facendone un fulcro della poetica e del fatto artistico. Ma questo teatro occorre saperlo fare. Senza pietismi, senza essere penosi e banali. Perchè nulla urtica chi porta con sè le difficoltà della disabilità più della banale compassione da pacca.
E Impronte dell’anima, spettacolo che ha avuto nelle scorse settimane una bella tournée in Emilia Romagna e che abbiamo visto a Reggio Emilia ospite di iTeatri con la direzione artistica di Paolo Cantù, è un lavoro, da questo punto di vista, esemplare. In scena c’è il disabile e il preconcetto, il crudo rapporto fra atroce sguardo sull’imperfezione (concetto su cui poi vale la pena aprire la parentesi, per cercare chi non ne ha), e la miserabile selezione sulla base dei paradigmi eugenetici; fra vita e nazismo, insomma.

L’operazione Aktion T4, che ebbe sede centrale all’indirizzo Tiergartenstraße 4, a Berlino, fu gestita da un gruppo di medici, burocrati e ufficiali delle SS sotto la supervisione diretta del regime nazista. Il programma fu personalmente autorizzato da Hitler con un decreto segreto firmato nel 1939. Gli spunti “scientifici” furono trovati nelle teorie di Francis Galton (1822-1911), uno scienziato e statistico britannico che sviluppò le basi dell’eugenetica, una teoria che mirava a “migliorare” la specie umana attraverso la selezione artificiale. Partendo dalle teorie evoluzionistiche di Darwin, suo cugino, Galton applicò i principi della selezione naturale agli esseri umani, sostenendo che qualità come l’intelligenza e il talento fossero ereditarie. Propose quindi di incoraggiare la riproduzione delle persone con caratteristiche ritenute “migliori” e di limitarla per quelle considerate “meno adatte”. Le sue idee, sebbene inizialmente accolte con entusiasmo in ambito scientifico, furono poi distorte e utilizzate come giustificazione per le politiche di “purezza razziale” del regime nazista.
Ci furono moltissime persone coinvolte, da Philipp Bouhler, capo della Cancelleria del Führer e fra i principali responsabili dell’Aktion T4, a Karl Brandt, medico personale di Hitler e fra i principali supervisori medici del programma, fino a Viktor Brack, alto funzionario della Cancelleria del Führer, che organizzò gli aspetti logistici dell’Aktion T4 compreso il reclutamento del personale e la costruzione delle camere a gas nei centri di sterminio, Werner Heyde, psichiatra e responsabile scientifico dell’operazione, che sovrintendeva alla selezione delle vittime, per finire con August Becker, chimico delle SS, responsabile della fornitura del gas tossico usato per le uccisioni.

Dopo le crescenti proteste della popolazione e delle autorità religiose, Aktion T4 fu ufficialmente interrotto nell’agosto 1941, ma in realtà continuò in segreto fino alla fine della guerra, con le uccisioni proseguite all’interno degli ospedali psichiatrici e dei campi di concentramento. Fra questi divenne tristemente noto il castello di Hartheim, situato in Austria, uno dei principali centri dell’Aktion T4, dall’indirizzo Tiergartenstraße 4, appunto.
Le vittime, selezionate dai medici nazisti perché considerate “vite indegne di essere vissute”, venivano uccise in camere a gas con monossido di carbonio, e i corpi erano poi cremati nei forni del castello. In totale si stima che tra le 18.000 e le 30.000 persone siano state assassinate solo a Hartheim, ma il massacro nazista di persone con disabilità fece trecentomila vittime.

In un certo senso, sono le stesse persone che scelgono di offrirsi agli spettatori in questo spettacolo, per interpretare il ruolo di coloro che furono sterminati.
Lo fanno in piena consapevolezza e portando in scena uno spettacolo che per nitore e poetica ferocia ha fatto letteralmente il giro del mondo: in Italia gira da da dieci anni, è stato tradotto in lingua tedesca, francese e spagnola e rappresentato con successo in Germania, Francia e Argentina.
Ci sono alcuni performer con disabilità che interpretano i disabili, e un attore e un’attrice che interpretano il medico chimico e la sua infermiera. Partono bonari e accudenti, i due, ma pian piano il clima di gioco si trasforma, e l’aria diventa sempre più pesante e feroce. Arrivano le uniformi, la crudeltà gratuita, i modi bruschi, fino alla combustione finale, alla cenere, in un crescendo drammatico ma anche assurdamente poetico, come solo chi maneggia bene gli strumenti del teatro può realizzare.

Il pubblico, disposto come spesso capita negli spettacoli di Viganò a ridosso della scena, in questo caso delimita i lati lunghi, lasciando all’azione un rettangolo centrale di dieci metri per cinque. Le scene portano la firma diViganò stesso e di Roberto Banci che realizza anche i costumi (molto ben pensati) insieme a Sigrid Schwarzer. Profonde ed evocative le luci di Melissa Pircali,che portano dentro stanze di lager con appropriata e crudele lentezza, mentre gli spiriti leggeri dei performer giovani lasciano con il gesso le loro impronte sul linoleum, spazzate via da una passata di straccio.

La compagnia adotta un approccio di teatro civile e di testimonianza, utilizzando la narrazione diretta per raccontare le vicende storiche. Gli attori portano in scena indirettamente, ma in modo esemplare e tangibile, le storie delle vittime, offrendo una prospettiva autentica e toccante, perché centrata sulla difficoltà-bambina, sulla natura infantile e fragile dell’esistenza che deve fronteggiare l’enormità delle difficoltà. La recitazione trova sempre il modo intelligente di rompere la quarta parete in modo non pietistico, ingaggiando il pubblico con oggetti e memorie, ma trovando una misura che al momento opportuno permette allo spettacolo di richiudersi su di sé, trascinando tutti gli spettatori nel baratro del buio dolore. Notazioni e conoscenze storiche si mescolano a citazioni artistiche, il teatro di narrazione si intesse a rimandi pasoliniani, alle atmosfere di Salò e agli sprezzanti banchetti dei carnefici.
C’è poco da dire: gli ultimi istanti di silenzio, con le ceneri che bruciano e cadono, lasciano lo spettatore senza parole, ammaliato dalla potenza del teatro di poter dire senza esibire, dalla grandezza del linguaggio che affida il pensiero sull’atrocità umana alla metafora, alla leggerezza di un foglio di carta carbonizzato e a un colpo di mazza di scopaì. Il tutto con il niente.

I medici e gli ufficiali delle SS che operavano a Hartheim erano gli stessi che in seguito parteciparono allo sterminio nei campi di concentramento come Auschwitz e Treblinka, e molti di loro furono processati e condannati dopo la guerra.
Oggi il castello di Hartheim è un memoriale per ricordare le vittime dell’Aktion T4 e rappresenta un simbolo delle atrocità commesse sotto il Terzo Reich contro i più vulnerabili.

 

IMPRONTE DELL’ANIMA

scritto da Giovanni De Martis e Antonio Viganò
con Mathias Dallinger, Jason De Majo, Edoardo Fattor, Paolo Grossi, Paola Guerra, Maria Magdolna Johannes, Alessandra Limetti, Johannes Notdurfter, Michael Untertrifaller
scene e regia Antonio Viganò
scene e costumi Roberto Banci
costumi Sigrid Schwarzer
luci Melissa Pircali
organizzazione Martina Zambelli
Una produzione Teatro Stabile di Bolzano e Teatro la Ribalta-Kunst der Vielfalt
In collaborazione con Ass. Theatraki e Ass. Lebenshilfe
Sponsor Alperia