GIULIA BONGHI | I know not what tomorrow will bring. Sono le prime parole che ascoltiamo dello spettacolo ed è l’ultima frase che Fernando Pessoa scrisse il giorno prima di morire, nel 1935. Solo dopo la sua scomparsa fu scoperto un baule contenente oltre 25.000 pagine tra poesie, racconti, saggi e riflessioni, scritte in tre lingue e attribuite a una moltitudine di eteronimi.
Pessoa. Since I’ve been me è un affresco della personalità dello scrittore e poeta portoghese, che visse frammentato tra decine di identità letterarie, ciascuna con una propria voce, una propria storia, una propria visione del mondo, perdendosi nel desiderio inesauribile di essere altro da sé. Scriveva come se fosse una moltitudine. Viveva come se non fosse nessuno. Nella sua incessante ricerca di identità, non trovò mai riparo dalla frantumazione dell’io, intrappolato in una condizione esistenziale simile a «una stanza con innumerevoli specchi fantastici che distorcono, attraverso false riflessioni, un’unica realtà preesistente, che non si trova in nessuno di essi e che è presente in tutti».

Ho assistito al debutto l’anno scorso al Teatro della Pergola di Firenze – qui la recensione di Renzo Francabandera – e l’ho rivisto qualche giorno fa al Teatro Sociale di Trento. Ero lì, mi è sembrata un’occasione imperdibile.
Una volta seduta in sala al posto assegnatomi, mi sono accorta di avere il regista Bob Wilson seduto a un paio di poltrone di distanza da me. Ho quindi osservato la sua mano dirigere ogni dettaglio fuori posto: un movimento troppo spedito, dei gesti leggermente imprecisi, una luce che entra con qualche secondo di ritardo. Come se potesse controllarlo, quel mondo che si andava creando sul palcoscenico. E a me sembrava proprio così: pareva avesse il potere di rallentare e accelerare le cose, di aggiustare e plasmare a distanza la sua idea. Come fosse un orologiaio, intento a smontare e ricostruire il tempo di un meccanismo invisibile, regolando il ticchettio degli istanti perché coincidano esattamente con la sua visione. Sistemava l’ingranaggio, una vite stretta o allentata, affinché lo scorrere della scena obbedisse al suo disegno.
Il fulcro dell’estetica di Bob Wilson è la composizione visiva; come lui stesso afferma, provenendo da studi di architettura: “quando comincio a lavorare, la prima cosa che faccio è illuminare lo spazio. Comincio con la luce. Anche se non so ancora quale sarà il testo o la situazione, comincio con la luce. La luce crea lo spazio e fatto questo comincio allora a riempirlo. Il mio lavoro è questo: una costruzione tra tempo e spazio, una costruzione astratta che ha a che fare con cosa vedo e cosa ascolto” – cito da un articolo del The Hollywood Reporter Roma.

Lo spazio si compone attraverso figure geometriche che accolgono gli attori come in un tableaux vivant. All’interno di queste composizioni estetiche, il tempo scenico viene manipolato e reso percepibile attraverso improvvise accelerazioni o un’estrema lentezza dei movimenti.
Il corpo degli interpreti – più performer che attori – si trasforma in una scultura vivente, un elemento plastico che abita un universo onirico. Anche la parola perde la sua funzione narrativa tradizionale: non viene interpretata ma semplicemente enunciata, ridotta a materia sonora che si intreccia in modo dissonante con il gesto, in un dialogo sospeso tra presenza e astrazione. La drammaturgia esplora i molteplici volti dell’identità di Pessoa, assemblando parole e frammenti fondamentali che siano espressioni di quei séì alternativi a cui sono state attribuite le sue opere.
Pessoa. Since I’ve been me intreccia lingue e culture diverse, ispirandosi alla molteplicità identitaria di Fernando Pessoa. In scena, gli attori enunciano frasi in più lingue senza dialogare tra loro, creando sovrapposizioni vocali e sonorità caotiche che trasformano il testo in esperienza sensoriale. Il sonoro è potente e variegato, con vetri infranti, tempeste e battiti metallici che accentuano il senso di spaesamento. Il testo si dissolve nel ritmo della scena, mentre l’estetica grottesca attenua l’inquietudine pessoana, evocando un’umanità sospesa nell’astrazione.

Mentre questo mondo onirico si dipanava davanti ai miei occhi, non ho potuto fare a meno di cadere nella concretezza del reale attorno a me: la luce verde dell’apparecchio di segnalazione di fuga in caso di emergenza; l’immancabile stropiccìo della carta di una caramella che qualcuno deve obbligatoriamente scartare e succhiare durante una pièce; la sfida impossibile di chi tenta di aprire una borsa con la cerniera, nella convinzione che più rallenti l’azione, più attutisci il rumore; il bisbiglio maldestro di chi cerca di spiegare lo spettacolo al vicino; l’infallibile tempismo di una suoneria dimenticata; lo sforzo sovrumano di chi tenta di deglutire un colpo di tosse, aggravandone l’emissione esplosiva; la sinfonia degli starnuti trattenuti, che si trasformano in piccoli spasmi e acuti singulti soffocati.
Ma la magia di Bob Wilson è questa: quando credi di esserne uscito, ti afferra e ti riconsegna al suo mondo, senza strappi. Uno dei suoi grandi meriti è proprio quello di restituire con semplicità le cose complesse, costruendo un mondo rarefatto in cui non occorre scegliere cosa guardare: hai il tempo di ascoltare e osservare, tutto si offre allo sguardo con naturalezza. Il libero arbitrio si sospende, non per imposizione ma per la gentile concessione di non doverne fare uso.
Il racconto di Pessoa non è una storia, ma una condizione esistenziale. La sua vita, modesta e appartata, contrastava con la vastità della sua produzione letteraria. Più che un semplice espediente letterario, la creazione di eteronimi rispondeva a una necessità profonda: erano incarnazioni di un’identità mai del tutto definita. In scena vi è tutta la moltitudine del poeta che si esprime durante le tappe fondamentali della sua vita.

Dapprima, dunque: la nave. A sette anni Pessoa si imbarca con la madre per il Sudafrica, dove passerà il resto della sua infanzia e imparerà la lingua inglese: Nay, what is man himself but an inane blind insect buzzing against a closed window […] And yet I believe that a man of genius, the poet, does somehow struggle through the glass into the outer light; he feels warmth and gladness at being so much beyond all men, but is even he not still blind; is he any nearer to knowing the eternal Truth?.
Poi il ritorno in Portogallo e il caffè A Brasileira in rua Garrett, dove passava il tempo a scrivere. Eu nunca fiz senão sonhar. Não pedi à vida mais do que ela me não exigisse nada (Non ho fatto altro che sognare. Non ho chiesto alla vita più di quanto lei non mi chiedesse in cambio).
Le lettere a Ophelia, con la quale condivideva un legame amoroso profondo e inevitabilmente irreale. Se la stessa vita, che è tutto, passa, perché non dovrebbero passare l’amore, il dolore e tutte le altre cose che sono solo parti della vita?.
Percorre il mosaico delle sue personalità, esplorando frammenti e visioni letterarie. Dalle Odi di Ricardo Reis – Breve il giorno, breve l’anno, breve tutto. Manca poco a essere niente – ad Alvaro de Campos – Ho posato la maschera, e me la sono rimessa. Così è meglio. Così sono la maschera. E ritorno alla normalità come a un capolinea – e le sue ultime poesie: J’ai eu un passé? Sans doute… / J’ai un présent? Sans doute… / J’aurai un futur? Sans doute…
Lo spettacolo di Bob Wilson attraversa la moltitudine ed esce da questa vita sempre evitata con un jingle, ispirato a Keeper of Sheep I, in cui Pessoa è meno malinconico del solito – Conosco la verità e sono felice.
Since I’ve been me.
PESSOA. SINCE I’VE BEEN ME
regia, scene e luci di Robert Wilson
testi di Fernando Pessoa
drammaturgia di Darryl Pinckney
costumi Jacques Reynaud
interpreti Maria de Medeiros, Aline Belibi, Rodrigo Ferreira, Klaus Martini, Sofia Menci, Gianfranco Poddighe, Janaína Suaudeau
co-regia Charles Chemin
collaboratrice alla scenografia Annick Lavallée-Benny
collaboratore alle luci Marcello Lumaca
sound design e consulente musicale Nick Sagar
trucco Véronique Pfluger
stage manager Thaiz Bozano
direttore tecnico Enrico Maso
collaboratrice ai costumi Flavia Ruggeri
consulente letterario Bernardo Haumont
assistente personale di Robert Wilson Liam Krumstroh
commissionato e prodotto da Teatro della Pergola – Firenze e Théâtre de la Ville – Parigi
coprodotto da Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Teatro Stabile di Bolzano, São Luiz Teatro Municipal de Lisboa, Festival d’Automne à Paris
in collaborazione con Les Théâtres de la Ville de Luxembourg
6 febbraio 2025 | Teatro Sociale, Trento