OLINDO RAMPIN | Una verità non nuova ma non per questo meno taciuta afferma che la ferocia capitalistica, nella sua fase “classica” e nella sua odierna forma non meno rivoltante, disumanizza tutti, anche gli sfruttati, anche le vittime. Nel migliore dei casi, con i suoi falsi piaceri e i suoi mezzi di persuasione fa regredire a pseudo-concezioni, a mitizzazioni subculturali, a forme di irrazionalismo e spiritualismo, di cui spesso non sono consapevoli nemmeno i suoi detrattori.
Penso a questo mentre cerco di capire cosa mi turbi, al di là delle sue intenzioni, in Vautours (Avvoltoi), lo spettacolo di Roberto Serpi, anche interprete con Sergio Romano e Ivan Zerbinati, nuova produzione del Teatro Due di Parma. La sala in cui va in scena è a un piano superiore del Teatro Due, ma l’ambientazione e soprattutto l’atmosfera da sottosuolo emanata da quanto avviene in scena farà credere a molti spettatori, alla fine, di dover salire anziché scendere le scale per uscire dal teatro.

Tre uomini di mezza età sono stati licenziati e devono uscire dal trauma che ciò comporta, trovando un nuovo lavoro. L’economia politica ci spiega che una delle conseguenze della perdita di valore del lavoro nell’ultimo trentennio è il crollo del suo potere negoziale. Jeremy Rifkin nel 1995 scrisse La fine del lavoro: stavamo entrando nell’era della “fine del lavoro”, calcolatori e robot avrebbero sostituito via via l’uomo in un numero crescente di settori produttivi.
I tre uomini, presumibilmente impiegati o operai a bassa qualifica, sono soli di fronte al loro lutto. Non ci sono né amici, né parenti, né colleghi. Non c’è una forza che li rappresenti, né sindacale né politica. Questa solitudine è vissuta senza essere dichiarata, nessuno se ne lamenta. È un dato di realtà dato apriori, e questo rende credibile e concreta la situazione da animali in gabbia che la nuda scenografia contribuisce a ricreare. Nessun oggetto, salvo una sedia, un tavolino, un telefono a disco “bigrigio”, di quelli in uso negli anni Sessanta e Settanta. Siamo forse in una tana, in una catacomba dove, come i primi cristiani perseguitati, i tre si riuniscono: ma non per pregare, come quelli, un dio che oggi ha perso adepti, al contrario per concepire piani di rivincita assurdi, farseschi, violenti, deliranti.

Su quel telefono, il Siemens S62, che verrà cancellato dalla storia negli anni Ottanta e Novanta, alcuni degli spettatori da adolescenti hanno presumibilmente recitato la propria personale versione de La voce umana di Cocteau, un “teatro puro” sgradito ai genitori, che restituiva alla parola la sua sublime banalità attraverso logoranti pene d’amore. Il Siemens S62 è un simbolo, probabilmente preterintenzionale, degli anni in cui i lavoratori avevano ancora conservato qualche tenue diritto, il sindacato non era popolato da grigi funzionari culturalmente indistinguibili dai cosiddetti imprenditori, direttori o consiglieri di amministrazione, talvolta spregevoli arruffoni con entrature nel verminaio della piccola politica politicante. Per licenziare allora era ancora necessario chiamare le cose con il loro nome, ora si può farlo con leggi create per eludere la verità, si possono isolare e demansionare i lavoratori con l’avallo di un sindacato inetto e compiacente, come gli avvocati di cui si avvale, e con la complicità dei lavoratori, correi nella losca manovra in opere e omissioni.
Ma Vautours non è uno spettacolo brechtiano, non vuole demistificare la ferocia e l’infinito squallore del mondo del lavoro di oggi analizzandone i caratteri peculiari. Il telefono “bigrigio” a disco è qui soprattutto la quarta dramatis persona. Il suo squillo arcaico corrisponde ad altrettanti colpi di scena e cambiamenti di intreccio. Non vi si aspetterà più la telefonata dell’amato, come la protagonista de La voce umana di Cocteau, ma una voce attesa benché disumana, quella dell’azienda, o quella dei nuovi candidati alla macabra offerta di lavoro con cui i tre tenteranno di impiantare una società di servizi.

L’ipotesi di una lotta sindacale non è nemmeno presa in considerazione. Né fa parte delle possibilità la ricerca di un nuovo lavoro attraverso le vie più battute: niente agenzie interinali, niente corsi di formazione, niente life coaching, niente incontri di supporto all’auto-imprenditorialità, niente “ricomincio tutto allevando api o accarezzando asini in un borgo dell’appennino”. Quelle sono cose che succedono solo sui media, oppure se sei un figlio di papà. Neanche la ricerca di una raccomandazione è contemplata. Storditi dal colpo ricevuto o forse lucidamente consapevoli che a quell’età non ti si fila più nessuno, i tre abitanti della tana decidono di provare a farsi riprendere nel vecchio posto di lavoro.
I nostri avvoltoi non sono degli abili mangiatori di carogne. I loro piani sono raffazzonati, surreali. La loro indole è inetta. La loro incapacità palese. Così l’atmosfera in scena non è tragica, è sospesa. La matrice alta, da teatro dell’assurdo, vira nel guignol, a volte nel sapiente cabaret. Non a caso il più timido dei tre, il più insicuro, cappellino da baseball e sguardo innocente, interpretato da Ivan Zerbinati, ama canticchiare filastrocche infantili, come “La bella lavanderina”. Ciò, come accade appunto nel teatro di burattini o nella classica comicità di coppia cabarettistica, infastidisce il più trucido del gruppo: capelli lunghi da vecchio biker in sovrappeso, barba lunga, sguardo aggressivo che all’entrata in sala, fermo in piedi, punta gli occhi negli occhi degli spettatori (è Roberto Serpi, anche autore e regista). Il terzo, il più “impiegatizio”, camicia e giacca, interpretato da Sergio Romano, si rivelerà il più violento, ma di una violenza grottesca che non ha nulla di morboso o di sadico, non è mai agita in scena, è riferita a posteriori o programmata in bislacchi piani di vendetta o rivincita.
Il “buono” riesce a farsi riprendere in azienda per coprire un’assenza e spiega ai due compagni di sventura che anche loro forse tra qualche anno, se si libererà un posto, potranno rientrare. Brutalizzati per anni e resi disumani da un lavoro alienante, i due traggono dall’informazione ricevuta la “logica” deduzione che, siccome l’unica strada percorribile è fare i tappabuchi e sostituire degli assenti, devono creare loro stessi le condizioni perché ciò avvenga, attraverso la gambizzazione manuale delle vittime.
La nuda messinscena, da “teatro puro”, non contiene nessuna belluria, nessun effetto. Niente video, niente musica, niente scene, nessun costume o abito che fornisca un aiuto, un segno, un appoggio rinforzante. Nulla supporta o sostiene la recitazione degli attori, ed è proprio così che può emergere pienamente, con il passare dei minuti e lo svolgersi della tragicomica e paradossale vicenda, la reale consistenza degli interpreti, il loro senso dell’azione scenica, la loro energia drammatica. Non ne risulta mai compromessa la padronanza di una materia ardua e potenzialmente scivolosa, mentre vengono impressi ulteriormente ritmo e teatralità alla metrica esattezza dei dialoghi.
VAUTOURS
(Avvoltoi)
di Roberto Serpi
interpretato e diretto da Sergio Romano, Roberto Serpi, Ivan Zerbinati
luci Luca Bronzo
costumi Elisabetta Zinelli
Nuova produzione Fondazione Teatro Due
Premio Mezz’ore d’Autore 2022
22 gennaio 2025 ore | Teatro Due, Parma |