SOFIA BORDIERI / PAC LAB* | Domenica 9 febbraio al Teatro del Canovaccio di Catania  è andato in scena Il vespro della beata vergine un testo del 1994, parte della tetralogia Quattro atti profani, del pittore e drammaturgo Antonio Tarantino. Nella regia di Mauro Lamanna la piccola costellazione di umanità è animata dall’interpretazione di Dario Natale che sembra entrare con ogni sua cellula nelle fibre di una narrazione fortemente drammatica.

Siamo all’interno della stanza di un obitorio. Un separé bianco cela il corpo di un giovane ventisettenne presunto suicida. La silhouette di una figura alta, ricurva, è quella del padre recatosi lì per recuperare il figlio defunto. Dalla penombra iniziale improvvisamente un’illuminazione quasi accecante dà avvio a un inarrestabile monologo polifonico. Si snocciolano, infatti, sin da subito i discorsi di Armonio, il padre, di Tosca, la madre, e del figlio conosciuto come Il Beato Verginello, perché un travestito.
Rayban da vista, t-shirt grigia e pantaloni jeans, padre-madre-figlio sono incorporati in un unico personaggio, presenza camaleontica che restituisce l’essere di una famiglia da tre diversi punti di vista. Come affetto da un disturbo dissociativo dell’identità, Natale cambia voce – strozzata, rigurgitata, strillata – e con essa le relative posture fisiche, generando un effetto di fitta intermittenza.

Foto di Angelo Maggio

L’uomo, all’interno della camera, avvia una comunicazione, una sorta di chiamata con il figlio. La conversazione tra i due appare delirante e surreale: è un ricordo? Sta avvenendo adesso? È avvenuta davvero?
Nell’alternarsi delle voci, sappiamo di essere a Torino: più volte viene nominata Piazza Madama, in riferimento a un’altra figlia – che mai proferisce parola – e che viene appellata dalla madre come puttana anche lei, oltre al figlio. In quella piazza lavorerebbe il suo amato, un certo Napoli che ha una bancarella di pomodori e due famiglie da mantenere. Un simbolo di fallimento famigliare perché, nonostante gli studi, la figlia si sarebbe accontentata di una vita che arranca. Ad essere ritratti però non sono i fallimenti di questa famiglia, ma una pressoché totale distruzione, un triste epilogo.

Nella non linearità della narrazione si disvelano le varie prospettive, ma non solo. Passato, presente e futuro si mescolano senza soluzione di continuità, amalgamati dal rancore della madre alcolizzata di Marsala e dalla fatica del padre di essere ago di una bilancia in frantumi. E, ovviamente, dalla morte del Beato Verginello mossa dal desiderio di non essere più nel mirino giudicante delle persone, della madre, di chi sta a Piazza Madama in quegli anni Settanta.
Diretta conseguenza degli stati d’animo è un registro linguistico eterogeneo volto al turpiloquio – l’appellativo bastardo terrone porco è un filo rosso dell’intero spettacolo. Il parlato è quindi grezzo e spicciolo ma non manca di essere estremamente poetico come sempre nella cruda e immaginifica scrittura del compianto Antonio Tarantino, che della Torino che da industriale diventava multietnica è stato testimone.

Foto di Angelo Maggio

Corposo ingrediente di questa dimensione poetica è il ricorso al mito, altro nodo cruciale del rapporto fra il drammaturgo e la scrittura. Il primo legame con la Grecia classica è il nome della pensione Corinto, dove il giovane viveva. Ma è il viaggio metaforico che compie ad essere centrale, in una Grecia sinonimo di dimensione altra, ancestrale e catartica. Nella messa in scena, l’apice di soavità corrisponde proprio a quel momento in cui il padre raccomanda al figlio cosa portare in terra ellenica per affrontare quel viaggio e poter arrivare al check-point Lete. In risposta il figlio, o la sua anima in transito, ringrazia per tutti quei consigli risultati utili.
Ad accompagnare lo scambio tra i due è una sequenza di frammenti di video d’archivio di famiglia proiettati sul separé e sul carrello vicino. Parole di premura sono accostate a immagini di vita ordinaria: un saggio di danza, la prima comunione, scene in piazza o al parco giochi, corpi di donne, uomini che si truccano.

Nel dialogo finale padre-figlio il tempo si fa rarefatto. In tutto lo spettacolo, in realtà, si intersecano livelli temporali che diventano spesso indistinguibili. Prima e dopo, vita e morte. Ne Il vespro della beata vergine il ricettacolo per raggiungere l’aldilà sublima la morte attraverso l’amore che sempre e comunque accompagna. Persino verso l’eterno dove poter finalmente posare il proprio dolore che non lascia invece chi rimane in terra.
Notevoli la regia di Lamanna e l’interpretazione di Natale che si configurano come un canale efficace per il testo di Tarantino, restituito con un lavoro di spessore.

 


IL VESPRO DELLA BEATA VERGINE

di Antonio Tarantino
con Dario Natale
regia di Mauro Lamanna
disegno sonoro Alessandro Rizzo
disegno luci Omar Scala
video-mappino Domenico B. D’Agostino
scena Pasquale De Sensi
contributi strumentali Mattia Natale / Donato Parente
vfc Giorgia Morabito
abito di scena Santina Nicotera
foto Luca Imperiale, Dora Coscarelli
grafica Pasquale De Sensi / Annarita Russo
comunicazione / Domenico D’Agostino
produzione Scenari Visibili.

9 febbraio 2025 | Teatro del Canovaccio, Catania

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.