CRISTINA SQUARTECCHIA l Sofia Nappi è un’artista cosmopolita, una coreografa italiana nata in Toscana, ma formatasi tra l’America e Israele, che fonde nel suo linguaggio diverse culture in una sintesi poetica e fisica insieme. È stata ospite al Teatro delle Muse di Ancona con la sua compagnia Komoco, nell’ambito della sezione Danza della stagione di Marche Teatro diretta da Giuseppe Dipasquale. Una stagione che da anni apre con particolare sensibilità al linguaggio coreutico, ospitando le firme più autorevoli della scena contemporanea. Nappi è stata la terza protagonista di una rosa di artisti inaugurata quest’anno da Marcos Morau, proseguita con Michele Di Stefano, fino a Piergiorgio Milano, atteso il prossimo 29 marzo con White out.
Ad Ancona Sofia Nappi ha presentato un incandescente Pupo, un lavoro che si ispira a Pinocchio di Collodi attraverso il quale la coreografa esplora il colorato universo dei personaggi della fiaba, le sfumature caratteriali di ognuno, con il molteplice e sorprendente linguaggio della danza. Un pretesto per riscoprire il fanciullo che è in noi e il sentimento misto tra paura e desiderio di crescere, tra le memorie d’infanzia mai sbiadite dal tempo e quelle ancora vibranti, che fremono di essere raccontate. Abbiamo incontrato Sofia Nappi, che ci ha parlato della genesi di questo lavoro e dei suoi prossimi progetti.
In questi giorni stai insegnando all’Accademia dell’Opera di Bucarest. Come sta andando?
Sono a una prima collaborazione con un programma speciale di un progetto chiamato ICE (International Contemporary Ensemble), il gruppo di dance competion più grande al mondo curato da un’organizzazione americana per supportare i talenti ancora in erba. Siamo un team di docenti internazionali: oltre a me, ci sono Marco Goecke, e altri artisti con stili di danza contemporanea differenti, pronti ognuno a dare il proprio contributo ai giovani danzatori. La cura artistica di questa grande piattaforma di coreografi è di Matam David, ex direttore della Batsheva Dance Company, con il quale ho collaborato.
Tutto questo, per me, ha un gran significato, è come un cerchio che si chiude, sono onorata di fare parte di questo progetto accanto a quelli che sono stati i maestri dei miei esordi a Tel Aviv come danzatrice e coreografa, a cominciare proprio da David.
Ora sto insegnando a degli allievi selezionati e talentuosi dell’Accademia di Bucarest, ai quali sto tramettendo circa 7 minuti del lavoro che abbiamo presentato proprio ad Ancona, Pupo, che verrà danzato nella serata conclusiva del progetto al Lincoln Center di New York in aprile.

Pupo è un lavoro di grande respiro che ha circa un anno di vita e ha raggiunto una sua maturità scenica. Quanto è cresciuto e come lo hai visto arrivare nella tappa ad Ancona in relazione alla tua ricerca artistica?
Pupo è cresciuto tantissimo in un anno, rappresenta un po’ l’essenza della mia ricerca. L’altra sera, ad Ancona, ho proprio percepito questo cambiamento. La creazione ha preso forma in un momento di grande crescita indipendente del gruppo Komoco, sotto una tormenta di nuovi contatti e relazioni che involontariamente riportavo in studio con i danzatori. Ho lavorato molto per alcune istituzioni teatrali d’Europa, che mi hanno messa sempre a confronto con stili e personalità diverse, e tutto questo è entrato in studio, modellando, poco alla volta, le sezioni di improvvisazione, pur conservando la forma coreografica di Pupo. In questa direzione, preziose sono le residenze e, in particolare, quella con Villa Nappi, grazie al supporto di Marche Teatro, che sostiene il nostro lavoro come gruppo Komoco, dentro il quale ho voluto lasciare delle finestre sempre aperte. Lascio molto campo libero ai danzatori, che possono contribuire apportando qualcosa di personale in considerazione del ricambio con alcuni di loro.

Komoco è una realtà agile e flessibile di artisti e ogni nuovo danzatore va da sé che rinnova l’energia nel gruppo. In Pupo, per esempio, è stato essenziale che ognuno trovasse dentro di sé il proprio personaggio della fiaba. Le peculiarità del Gatto, della Volpe, della Fata turchina e di altri personaggi, sono emersi dai corpi dei danzatori: una fase di lavoro che ha fatto chiarezza su di me e su alcuni punti del mio stile. Primo fra tutti, il desiderio di sviluppare alcune sfumature nella caratterizzazione dei personaggi, arrivando poi a fissarli per trovare dei punti di coesione nel gruppo.
Inoltre, si sono definiti alcuni elementi della mia ricerca che hanno aggiunto ogni volta un tassello in più per me e il gruppo. Tutto questo partendo dal presupposto che ero intenzionata a lavorare sull’idea di una fiaba universale, ma non in senso narrativo; volevo esplorare l’idea di Pinocchio, della trasformazione di un burattino, un ‘pupo’ che cresce e prende coscienza di sé, e dell’evoluzione degli altri personaggi, attraverso uno storytelling del linguaggio komoco, riconoscendolo nella sua essenzialità.
La storia di Pinocchio rappresenta una delle favole simbolo dell’infanzia. Esplorando questa fase della vita, quali sono stati gli aspetti che hai toccato di più e restituito nel corpo?
Il senso del piacere. Il piacere di ritrovare il contatto del proprio corpo e vivere appieno il momento, quindi la forma e il cycle story che possono generare il movimento in duetti o assoli. Tutto ha preso forma a partire dalle tante sensazioni di piacere: esplorarle, esagerarle e dilatarle, stando dentro quell’immediata sensibilità. Una ricerca del e con il corpo a sensi aperti, per far affiorare, poi, una forma non oggettiva, ma soggettiva di una determinata sensazione, in uno stato di assoluta onestà.
Pupo è nato con queste premesse, che hanno fatto affiorare una gran quantità di materiale, dove il tempo si dilatava e generava una moltitudine di piccoli dettagli, cambi di storia, che qualcuno più attento può notare in scena nella sua codifica finale. Sono andata proprio a voler sentire la realtà in cui viviamo, andando anche a richiamare, inconsciamente, quel tema che avevo esplorato durante il Covid, che si lega al materno affrontato con IMA.
Ma Pupo ha colori ed esigenze diverse rispetto a IMA, è un universo più denso, perché assistiamo alla trasformazione del burattino che inizialmente è impulso puro, per poi divenire razionalità nella consapevolezza di sé.
Provo oggi un senso di stupore e piacere per la grande quantità di materiale emersa nella ricerca durante la lavorazione di Pupo che ha arricchito il mio stile.

Prima hai parlato di “elementi della ricerca”, potresti spiegare quali sono e a cosa ti riferisci?
Sono dei motori del corpo che attiviamo con i danzatori. Uno di questi è il concetto di source inteso come sorgente, che per noi si localizza nella pancia. Un pensiero molto fisico ispirato alla frase di Oshio: «Non siamo nati con il cordone ombelicale attaccato alla testa, ma alla pancia». È il motivo secondo il quale considero questa parte un focus centrale di ogni nostro movimento, istintivo, immediato, non razionalizzato, grazie al quale posso far affiorare tutto quello che vibra sotto pelle. In questa zona sono racchiuse tutte le nostre memorie, le nostre gioie e paure di quando eravamo bambini, tutto sta nell’ascoltare questo ricco serbatoio, e liberarlo per dare vita al movimento, poi alla forma e alla sua codifica.
L’altro elemento importante è il floor around, che è il pavimento intorno a noi, ovvero quel processo di disfare la forma, per esplorala a terra nell’ascolto del peso in relazione alla gravità. Una fase molto fisica in cui si amplifica la percezione, facendo appello all’immaginazione. Il movimento a terra può diventare liquido come l’acqua o denso come il miele, si tratta di pretesti che servono a risvegliare punti del nostro corpo un po’ dimenticati, e far emergere quel molteplice che abita dentro di noi. Una modalità che amplifica la percezione e la consapevolezza fisica e sensoriale di ciò che siamo veramente, per modellare poi in maniera soggettiva il proprio sentire.
Ti sei formata a Tel Aviv dove hai respirato culture diverse, cosa ti ha affascinato dell’Oriente, in particolare?
La cultura israeliana ha segnato la mia formazione e mi sono innamorata di queste terre del Medio Oriente, che sono costantemente bagnate dal sangue. E proprio a Tel Aviv sono rimasta rapita dallo stile Gaga, che è parte centrale del mio lavoro. In quella parte del mondo ho sempre percepito qualcosa di ancestrale che mi connetteva con l’universo. Quando ci vivevo, e anche ora quando mi capita di tornarci, amo sempre fare delle piccole escursioni in piccoli deserti, in piccoli kibbutz, dove respiro una tale densità, umanità e calore, che altrove non colgo.
Questa sensazione motiva per me il fatto che l’umanità si sia generata e sviluppata in quella mezzaluna fertile dove tutto assume un valore sacro e, per me, toccare questa cultura è stato come rinascere, fare un viaggio spirituale, grazie anche alle letture di filosofie orientali, che ormai nutrono la mia anima artistica. Se fossi rimasta in Italia, in Toscana dove sono nata, sarebbe comunque accaduto, ma in maniera diversa.

Su cosa stai lavorando in questo momento?
Per ora sono interessata a sviluppare lo studio del floor around, inteso come spazio che non divide gli esseri umani, ma li unisce. Uno spazio, quindi, che genera ascolto e sensazione tra le persone. Vorrei arrivare a uno studio più circolare dello spazio, toccando altri elementi, trasversalmente, per una nuova produzione. E poi, come sempre, l’attenzione allo storytelling non narrativo, per far affiorare aspetti dell’umano di cui non siamo pienamente coscienti, ma che il corpo ogni volta può illuminare.