ELENA SCOLARI | Un signore in età, dal suo posto in platea intona con voce ferma Grandola, vila morena di Josè Afonso, il canto popolare portoghese che accompagnò la caduta della dittatura militare di Salazar nel 1974, quando un manipolo di giovani colonnelli dissidenti diede il via alla rivolta dei garofani. Succede alcune sera fa, al LAC di Lugano, durante il lungo monologo finale di Catarina e a beleza de matar fascistas, scritto e diretto da Tiago Rodrigues.
Le luci in sala sono accese, la situazione chiama la reazione del pubblico. La chiamava anche nel 2022, quando lo spettacolo arrivò in Italia per la prima volta, ma oggi, tre anni più tardi, c’è qualcosa di ancora più forte che spinge gli spettatori a reagire.
Nelle due ore precedenti abbiamo conosciuto la storia di una famiglia portoghese con una tradizione piuttosto particolare: negli anni ’50 la bisnonna vide uccidere da un fascista la sua amica Catarina Eufémia, questa le comparve poi in sogno, chiedendole vendetta, e lei la ascoltò, uccidendo addirittura suo marito, che aveva assistito all’assassinio senza intervenire; la donna lascerà una lettera-testamento in cui chiede ai parenti successori di proseguire la sua missione, impedire che l’indifferenza permetta ad altri fascisti di uccidere altre donne. E di uccidere in generale. La famiglia prende sul serio l’eredità e da 70 anni si ritrova una volta l’anno nella campagna del sud del Portogallo per ammazzare un fascista. E seppellirlo nel querceto di proprietà.

Al centro della scena c’è la casa di famiglia, costruita in legno intorno a una delle querce (un po’ come il padiglione norvegese della Biennale di Venezia progettato dall’architetto Sverre Fehn), a destra una lunga tavola apparecchiata con una tovaglia bianca, che porta la scritta “Não passarao” (Non passeranno) ricamata in rosso; le luci di Nuno Meira hanno colori arcaici. I membri del gruppo familiare, uomini e donne, indossano un gonnellone di stile contadino (costumi di José António Tenente) e si chiamano tutti Catarina: per quel giorno assumono il nome della donna che vendicano da decenni. Il più giovane dà inizio allo spettacolo con una sorta di ammonizione sui rischi di appiccare un incendio, metaforico: «Chi accende un fuoco può finire bruciato». Il ragazzo indossa cuffie di colore metallico, ha scelto di ascoltare musica e di non farsi ascoltare, la sua diversità è il silenzio. L’ultima generazione ha una posizione distinta.
I parenti tengono poi una gustosa conversazione sugli zampetti di porco cucinati per l’occasione secondo la ricetta della defunta mamma, c’è però una sorella vegana, e si ironizza sapidamente sulla sua scelta. Non viene invece detto ma è palese il paradosso tra l’attenzione alle sofferenze degli animali e l’accettazione pacifica dell’omicidio annuale di un uomo.
La riunione prevede dunque il sacrificio, quest’anno tocca alla Catarina ventiseienne; la vittima in abito elegante blu siede, muta, a capotavola. Il piano è stato eseguito come sempre ma un dettaglio è sfuggito: non è stato sottratto il cellulare (che squilla) al sacrificando. Particolare presago di uno scricchiolio inconscio nell’ingranaggio. E, infatti, questa Catarina nutre il dubbio. Uccidere qualcuno, benché fascista, senza lasciargli nemmeno il diritto di parola, potrebbe non essere giusto. Non c’è bellezza, nell’ammazzare, no, Catarina proprio non la avverte. Non c’è libertà. Uno splendido scambio dialettico si consuma, allora, tra la ragazza e la madre – una guerresca Isabel Abreu – profondamente convinta che ogni fascista eliminato sia un passo verso la giustizia.
L’elogio del dubbio che la giovane Catarina tesse con vigore è forse il punto più alto del testo – di qualità lucente – dal punto di vista del contenuto etico. Sarebbe stato scontato sottolineare l’evidente e feroce arbitrio dell’assassinio in sé, più sottile è invece lodare il pensiero che dubita, la fatica di soppesare il significato e le conseguenze di un’azione, non soltanto un duello frontale tra giusto e sbagliato, ma il lavoro quotidiano di ricerca kantiana che a tutti noi tocca, se vogliamo capire qualcosa della vita. La legge morale è dentro di noi e la alimentiamo ogni giorno, non smettendo di interrogarci.

Catarina delude la madre, delude la sorella minore, lo zio, i fratelli. Interrompe una linea sanguinaria, tradendo la volontà dell’antenata, sì, ma ha insinuato il dubbio sul senso di una consuetudine violenta. La parola ‘ribelle’ in portoghese (rebelde) non fa rima con niente, bisogna essere coraggiosi per ribellarsi, e lei ha dato respiro alla libertà di dubitare e prendere un’altra strada.
Questa è la sua eredità.
La regia conduce un cast di ottimi attori – António Fonseca, Beatriz Maia, Marco Mendonça, António Parra, Carolina Passos Sousa, João Vicente – che sa dipingere un ritratto di famiglia con uno zio poetico e un nipote cinico disposto ad assassinare il fascista ma pronto a salvarlo in cambio di denaro per il suo progetto di agriturismo.
Una a una cadranno a terra tutte le Catarine, sotto spari che non si sa chi fa esplodere, rimarrà solo il giovane con le cuffie che, attonito, vede il fascista, ormai al sicuro, avanzare in proscenio e cominciare il suo comizio: mezz’ora di testo montata assemblando le parole di Bolsonaro, Salvini, Orbán, Trump (nel 2020, quando venne scritto, Meloni non era ancora al governo) e il portoghese Ventura. Un’orgia populista che si gonfia man mano, senza alcun tentennamento. A Lugano, patria di anarchici, Romeu Costa continua incrollabile davanti al pubblico che gli grida Basta!, canta Bella ciao, rumoreggia, qualcuno si alza e se ne va, qualcuno suggerisce di salire sul palco. Entrati nel gioco paradossale i più decisi urlano “ammazzatelo!”, c’è chi ride, altri applaudono per mettere fine a una prolusione che ‘non si può sentire’. E questo è il rito degli spettatori: c’è bisogno di liberarsi, di pronunciarsi, di prendere la voce, di vedere Em cada equina un amigo, em cada rosto igualdade (In ogni angolo un amico, in ogni viso uguaglianza, dalla canzone di Afonso).
Intanto, gli attori si sono rialzati, assistono con gli spettatori al baccanale oratorio del fascista sopravvissuto; il rito si concluderà con il pubblico in piedi per un vero e lungo applauso, sentito.
Rodrigues si chiede e ci chiede cosa sia lecito fare per difendere la democrazia. Il suo teatro accende il pensiero. Quale fuoco è più democratico?
CATARINA E A BELEZA DE MATAR FASCISTAS
testo e regia Tiago Rodrigues
con Isabel Abreu, Romeu Costa, António Fonseca, Beatriz Maia, Marco Mendonça, António Parra, Carolina Passos Sousa, João Vicente
collaborazione artistica Magda Bizarro
scene F. Ribeiro
costumi José António Tenente
luci Nuno Meira
disegno sonoro e musiche originali Pedro Costa
direzione del coro e arrangiamenti vocali João Henriques
voci registrate Cláudio de Castro, Nadezhda Bocharova, Paula Mora, Pedro Moldão
coreografia Sofia Dias, Vítor Roriz
maestro d’armi David Chan Cordeiro
traduzioni Thomas Resendes (francese), Daniel Hahn (inglese), Vincenzo Arsillo (italiano), Igor Metzeltin (tedesco)
sopratitoli Patrícia Pimentel
produzione esecutiva Festival d’Avignon
produzione Teatro Nacional D. Maria II (Lisbona)
in coproduzione con Wiener Festwochen, Emilia Romagna Teatro Fondazione (Modena), Théâtre de la Cité – CDN Toulouse Occitanie & Théâtre Garonne Scène européenne Toulouse, Festival d’Automne à Paris & Théâtre des Bouffes du Nord, Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Comédie de Caen, Théâtre de Liège, Maison de la Culture d’Amiens, BIT Teatergarasjen (Bergen), Le Trident – Scène nationale de Cherbourg-en-Cotentin, Teatre Lliure (Barcelona), Centro Cultural Vila Flor (Guimarães), O Espaço do Tempo (Montemor-o-Novo)
LAC Lugano | 20 febbraio 2025