MATTEO BRIGHENTI e ELENA SCOLARI | ES: Teatro Elfo Puccini di Milano, Sala Bausch. All’ingresso le maschere ci fanno pescare da una scatola piena di piccolissime bustine bianche: ognuna contiene un bottone. Per non perdere il filo. Sì, perché il personaggio di Tommaso Bianco si schiude alla platea lentamente, ma poi ‘attacca un bottone’, intimo e raccolto, che finirà solo con lo spegnersi delle luci.
MB: Il poco, quel poco che Marcello ha per non soccombere all’oblio di sé, Bianco lo mette tutto negli occhi e nella fissità di ogni singolo muscolo. È una sorprendente sfida di resistenza, per lui e per il pubblico, presi insieme nel gorgo di un personaggio che vive nell’ombra ma insegue la piena luce. È appena il chiarore di un battito di cuore, che poi esplode nello scintillio che Rebecca Ihle consegna al costume più scenografico che abbia mai visto a teatro: un’armatura, una corazza di colori sgargianti, che lo protegge, lo rivela e pure lo ingabbia nel suo desiderio di essere Un po’ meno fantasma. Nient’altro. Perché il carattere ideato da Tommaso Cheli e scritto con Francesca Sarteanesi – che cura anche la regia – fantasma, comunque, lo è e lo rimarrà. Come il chiarore che lo illumina, come il silenzio che lo circonda. Nonostante voglia, fortissimamente voglia lavorare sulla sua trasparenza. Cioè, sulla sua esistenza, per essere finalmente visto, ascoltato e, infine, accettato.

ES: Dopo i primi minuti si ha l’impressione che la testa di Bianco sia sospesa in mezzo al grande bozzolo piumato, come se spuntasse al centro di un pouf, un po’ come il sorriso dello Stregatto di Alice. E allora Marcello diventa solo la sua voce. Un fil di voce.
Anche perché quel costume è un simbolo che sopraffà qualunque altro elemento, non se ne può prescindere. Io mi sono lungamente chiesta il motivo di tanta opulenza sartorial-cromatica per un personaggio che dichiara di essere poco meno che invisibile e che vorrebbe essere preso più in nota. Hai voglia a non vederlo! Ma siccome il contrasto è una ragione banale, la risposta che mi sono data è quella metaforica: quel piumaggio sgargiante è una condizione dello spirito di Marcello, un’idea astratta. Uno come lui, se riuscisse a farsi notare, non circolerebbe certo così acconciato.
MB: Un fantasma è chi appare in un modo ma si sente in un altro. Il costume-mondo di Marcello racconta questo, e si fa eco dissonante di un’essenza che passa, come dici bene, innanzitutto dalla voce. Tommaso Bianco, alla sua prima prova attoriale in solitaria sul palcoscenico per un progetto di Kronoteatro, ma portato per mano dal disegno luci di Alex Nesti e dalla supervisione di Maurizio Sguotti, parla in sottrazione, quasi soffia le parole. Cerca una voce che elimini sfumature, inflessioni, movimenti di tono, come a inseguire il colore neutro, l’unico che praticamente non ha sul costume: il bianco. Si dice, ricorda a sé stesso che è vivo, nonostante tutto.
Marcello è un pensiero che prova a ripensarsi sempre, si guarda allo specchio dei suoi racconti e si fissa sulle cose: le persone non lo capiscono, non lo vogliono. Gli oggetti, invece, restano lì. E lui ha la capacità di entrarci dentro, di attraversarli, di sentirli. Proprio come un fantasma.
A ogni fiato sembra sempre più spaventato della vita, della sua stessa vita. Quasi preferisca non essere lui a viverla ma un altro, un altro con la presenza, la manifestazione abbagliante che ha trovato qui, su questo palco.

ES: Questo rimanere sempre di fianco a sé, un po’ discosto e un passo indietro rispetto alla propria vita, è coerentemente supportato da un testo evanescente, che corrisponde, per impalpabilità, alla sostanza esistenziale dell’uomo piumato. Teatralmente parlando, colpisce la prova di Bianco, che mostra la capacità di toccare tanti toni sul pentagramma del testo, senza mai muoversi dal centro della scena.
A determinare il respiro dello spettacolo è la curva discontinua degli attraversamenti umani che Marcello subisce: i personaggi che fanno parte del suo racconto entrano in scena come un treno che passa veloce e fai appena in tempo a vederlo. Improvvisamente sbatti gli occhi perché la voce si alza, riacquista pasta tangibile e arrivano un prof. veneto, l’amico dei treni, la principale del nuovo lavoro, un proprietario di merceria (che vende bottoni).
Che ognuno abbia un marcato accento regionale è forse un po’ troppo album di figurine, ma certo aiuta a distinguere le meteore umane esterne in modo ancora più deciso.
MB: Se la voce di Marcello è sottile, esile, un niente che si spegne subito, senza clamore, il mondo fuori è una babele di dialetti ed espressioni gergali che lo sovrasta. Il contrasto produce lo sconcertante effetto che, ti dico la verità, a me sembrava di rifiatare solo quando a parlare erano ‘gli altri’. Ovvero, l’espressione della normalità più bieca, stereotipata e grottesca. Con lui, che è la rappresentazione più pura della diversità, mi ritrovavo, invece, in un’apnea snervante, volevo smettesse il prima possibile. Per lunghi tratti Marcello è davvero scomparso alla mia vista, tirandosi dietro anche Bianco, diventato irriconoscibile da quanto tiene a essere Marcello. E lasciando al suo posto un senso di angoscia profonda. È il lascito più imprevisto e importante di Un po’ meno fantasma, che mi interroga a distanza di giorni: troppa sensibilità è una condanna, e porta a rifiutarla.

ES: L’elogio della mitezza e della timidezza torna ciclicamente come un topos, forse accade inconsciamente quando aumenta il livello di grossolanità globale per cui nel vociare continuo si nota il flauto e non la grancassa. A distanza di giorni, però, io ricordo i particolari della nonna che dava il cognac al nipotino bambino, l’orchestra di fratini in peltro, la teoria degli amori non corrisposti… Ma il quadro d’insieme sfuma.
MB: Allora, l’amore non è vero amore, il lavoro non dà soddisfazioni, e la famiglia è un insieme di conti che non tornano. Marcello è ‘il triste’, così l’hanno soprannominato. È più e meno di un personaggio, è una maschera che trattiene tutto dentro di sé, nella sua testa, e non lascia andare nulla. Un punto di colore nel vuoto più nero che c’è, opprimente come un urlo o una portiera sbattuta di una macchina che non ti porta da nessuna parte che riguardi te.
ES: E questo è un punto focale: dove porta Un po’ meno fantasma? Forse, da nessun parte. Lo stile ‘understate’ della scrittura di Cheli e Sarteanesi sembra sempre voler suggerire, senza arrivare mai a dire. Già parlando del loro monologo Sergio (di cui Sarteanesi era anche l’interprete) lei diceva: «Volevo inventare uno spettacolo dove non ci fosse nient’altro che il corpo dell’attore e in cui attraverso la scrittura e il modo di stare in scena si facessero vedere oggetti e altre persone». Porta quindi avanti questo obiettivo cucendo addosso a Bianco un ruolo che estremizza la sua idea di teatro nella immobilità fisica, a vantaggio della sola parola e di una melodia drammaturgica che si esplica in picchi solo quando sono i comprimari a entrare “di sfroso” nel flusso narrativo.
Non c’è una vera trama, il racconto è puntellato di figure, di ricordi, di incontri recenti, è una rete di rapporti da cui Marcello sfugge sempre, uscendo dalle maglie larghe.
MB: La trama, per me, è il palpitare di un’anima che le prova tutte ma alla fine capisce che è sconfitta. Dopo la storia delle sue ultime disgrazie, cala anche l’ultima maschera che gli rimane: il volto. Tommaso Bianco ci dice con un impercettibile “svuotamento” dello sguardo che Marcello ha capito. Deve tornare nel bozzolo da dove è venuto, l’uovo-cuore che batte come all’inizio. Non sono bastati nemmeno tutti quei colori. Per questo, fantasma ora non lo è un po’ di meno: lo è un po’ di più.

UN PO’ MENO FANTASMA
terzo capitolo del progetto triennale La libertà dei ciottoli
un progetto di Kronoteatro + Francesca Sarteanesi
ideazione Tommaso Cheli
drammaturgia Tommaso Cheli / Francesca Sarteanesi
regia Francesca Sarteanesi
con Tommaso Bianco
disegno luci e responsabile tecnico Alex Nesti
scene e costumi Rebecca Ihle
supervisione progetto Maurizio Sguotti
produzione Kronoteatro
coproduzione Teatro Nazionale di Genova
con il sostegno di PimOff, Spazio ZUT!, L’arboreto/Teatro Dimora
Elfo Puccini, Milano | 19, 23 febbraio 2025