RITA CIRRINCIONE | Tra gli appuntamenti di Scena Nostra Winter Edition 2025 – la rassegna trimestrale sulla creazione teatrale contemporanea diretta da Giuseppe Provinzano in corso allo Spazio Franco dei Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo – nel focus dedicato alle realtà siciliane, il 6 e 7 febbraio è andato in scena COSI. DUCI. della Compagnia catanese Lucipicuraru con la regia di Andrea Lapi e la drammaturgia dello stesso Lapi e di Flavia Monfrini.

COSI. DUCI. spettacolo finalista alla XVI edizione del Premio Dante Cappelletti racconta la storia di una famiglia che, in occasione della morte della madre, si riunisce per la veglia funebre. Il momento della commemorazione innesca una serie di inedite dinamiche familiari, facendo emergere vissuti dimenticati, sentimenti repressi, contraddizioni e non detti.

Flavia Monfrini, Vincenzo Ricca, Oriana Martucci, Maria Elena Iozza – ph. Dino Stornello

La scena iniziale – una scena fissa, spoglia, quasi buia – rappresenta un immaginario triangolo al centro del quale, su un catafalco costituito da un’asse di legno inclinata ricoperta da un lenzuolo bianco, è adagiato il corpo della madre; in piedi, agli angoli, sono disposti i tre figli.
C’è “U picciriddu” (Vincenzo Ricca), il figlio prediletto, con il suo sorrisetto di eterno bambino sempre stampato in faccia e con le sue frasi fatte, infantili e autorassicuranti. “Cosi duci del titolo riprende una di queste.
C’è “Figlia 1” (Flavia Monfrini), la quale, per prima, commemora la madre con un discorso funebre in cui enumera un lungo elenco di qualità che, piuttosto che definirla, la rendono ancora più misteriosa e indecifrabile.
C’è “Figlia 2” (Maria Elena Iozza), che prova più volte a leggere una poesia dedicata alla madre,  ma c’è sempre qualcuno o qualcosa che glielo impedisce.
C’è “U papà”, personaggio ombra, figura solo evocata, assente in scena e nella vita familiare, tenuto in disparte anche in questa estrema occasione: «Lassatilu stari u papà, è stancu!» è il mantra che ripetono spesso le donne di casa.
E poi c’è “Madre” (una perfetta Oriana Martucci, terribile e umana, vecchia e bambina, tenera e crudele). Per tutta la vita ha tenuto le redini delle vite di tutti, ha protetto i maschi di famiglia – di fatto castrandoli ed esautorandoli – e non ha perso occasione per criticare e svalutare le figlie. Persino “da morta”, non rinuncia a prendersi la scena, controllando le esequie e contando presenti e assenti.

Su queste coordinate scenografiche e drammaturgiche si sviluppa lo spettacolo nel corso del quale i personaggi, in una sorta di redde rationem, svelano parti inaspettate e sorprendenti. E così Madre, in quel supplemento di vita che si prende, sembra riconoscere in extremis di essere essa stessa vittima di uno schema patriarcale di cui ha incarnato l’altra faccia. Finalmente, può abbandonarsi alla spensieratezza e alla leggerezza nella scena potente del ballo quasi edipico con Figlio che, a sua volta, mostra un nuovo volto, vitale e poetico.

Andrea Lapi e Flavia Monfrini – ph. Dino Stornello

Presentato come uno spettacolo sulla famiglia tradizionale, con una specificità sul contesto culturale siciliano, COSI. DUCI., in realtà, prende un respiro più ampio e mette lo spettatore di fronte a una dimensione più universale della famiglia e della vita stessa con i suoi aspetti tragici, o meglio tragicomici. Anche i personaggi, che inizialmente sembrano rientrare in prevedibili stereotipi, grazie anche alla bravura degli attori, nello sviluppo drammaturgico si evolvono, svincolandosi da ogni cliché.
Per  approfondire alcuni aspetti di COSI. DUCI. e per saperne di più sulla Compagnia, mi metto in contatto con Andrea Lapi. Nasce così questa intervista.

Andrea Lapi, ci presenti brevemente la Compagnia Lucipicuraru?

Lucipicuraru (‘lucciola’ in dialetto siciliano) è nata nel 2016 a Catania presso il Teatro Machiavelli, all’interno del progetto SPAZIOstudio, come laboratorio di ricerca teatrale e di sperimentazione drammaturgica su tematiche legate alla contemporaneità. Nel 2018 ha debuttato al Teatro Machiavelli con lo spettacolo CUNFINI-Sicilia e Grande Guerra (con la mia regia e la drammaturgia di Flavia Monfrini), all’interno di un progetto del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Catania. Nel 2019, sempre al Teatro Machiavelli, abbiamo portato in scena HABITUS (ancora con la mia regia), un progetto antropologico sulle convenzioni sociali. Nel giugno 2022 abbiamo costituito l’Associazione Culturale EROSIONI (presieduta da Paola Gusmano), che svolge attività in ambito teatrale e pedagogico. Nel 2022 è finalista alla XVI edizione del Premio Dante Cappelletti con COSI. DUCI. Nel 2023 partecipa alla quarta edizione di Fai il tuo teatro!, nell’ambito del festival Urbino Teatro Urbano.

Qual è la genesi di COSI. DUCI. e il processo che l’ha portato nella forma in cui l’abbiamo visto?

COSI. DUCI. ha avuto una gestazione lunga: come tutti i progetti ha avuto bisogno organico di digestione per maturare e mutare. L’idea è nata poco prima della pandemia, all’interno di un laboratorio di scrittura. Dal racconto delle esperienze personali emergeva che ogni trauma, vittoria o delusione, aveva una profonda radice nel tessuto familiare: su questo si era pensato di sviluppare uno spettacolo. Poi, la pandemia ha dilatato tutto.
Durante il lockdown abbiamo continuato a tenere vivo il progetto, raccogliendo materiale, racconti, testimonianze e visioni. Quando la situazione è migliorata, io e Flavia abbiamo cominciato a imbastire un primo frammento di drammaturgia che nel 2022 è stato selezionato per le semifinali della XVI edizione del premio Dante Cappelletti. Siamo andati in finale a Roma insieme ad altre sei compagnie. Il nostro era l’unico testo in vernacolo. Questa esperienza ci ha dato la spinta a completare la drammaturgia.
Nel 2024 COSI. DUCI. ha debuttato nella sua forma completa a Viagrande Studios con una coproduzione Erosioni, Sciara Progetti Teatro e Viagrande Studios. Ed eccoci qua!

La veglia funebre in un contesto familiare è un tòpos che, per il suo forte carico emozionale e per le dinamiche che può innescare, è stato spesso usato come motore drammaturgico. Come è nata l’idea di utilizzarlo in COSI.DUCI.?

Volevamo affrontare il tema della famiglia e, in particolare, alcuni temi a essa connessi, come le difficoltà dei figli di affrancarsi e trovare un posto nel mondo, le derive di un amore eccessivo, di un sentimento che finisce per contraddire sé stesso, fino a diventare controllo e arma di ricatto. Il momento del funerale ci è sembrato il non-luogo ideale per affrontare il crocevia di emozioni tra le figure coinvolte. Paradossalmente, la morte chiude una porta, ma riesce a sbloccare una parte di comunicazione lungamente sommersa.

Nel momento di ritualizzare la morte di Madre, il viluppo emozionale suscitato dall’evento, crea una sorta di cortocircuito che fa inceppare la cerimonia della veglia. «Chiffà u facemu stu funerali?» ripete più volte Figlia 2. Qual è il senso drammaturgico di questo ristagno?

COSI. DUCI. mantiene una circolarità tipica del teatro dell’assurdo. Le figure sono intrappolate in una situazione di stallo, senza uno sviluppo narrativo lineare. La scena, simbolica e reiterata, è apparentemente statica: per 55 minuti sosta attorno a un’immagine alla quale non si può sfuggire. L’assurdo e il non senso ci consentono di intrappolare l’atto e di farlo durare.

Nei personaggi c’è una sorta di tensione dinamica tra il rivelare e il nascondere: Figlia 1, che per prima prova a raccontare la madre, dice tanto di lei, forse troppo, finendo per non dire nulla; Figlia 2 legge una poesia a lei dedicata che nessuno ascolta; Figlio le scrive delle parole che alla fine non leggerà. Che relazione c’è tra il detto e il non detto in COSI. DUCI.?

Credo che la drammaturgia non debba spiegare, svelare, altrimenti non svolge la sua funzione di porta verso altri luoghi. Uno spettacolo teatrale deve sempre avere qualcosa di indefinito, di non detto. In COSI.DUCI. l’incomunicabilità, soprattutto emotiva e sentimentale, in un contesto familiare in cui i contorni dell’amore sono spesso confusi, appiccicosi, scivolosi, è uno dei temi principali. La comunicazione verbale non basta a descrivere l’universo di emozioni e contraddizioni che la abitano. L’essere umano cerca di essere visto, di essere compreso, ma non è facile essere visti o compresi dai propri cari.  In famiglia non è facile salvare sé stessi, senza affogare gli altri.

Maria Elena Iozza, Vincenzo Ricca, Oriana Martucci, Flavia Monfrini – ph. Dino Stornello

In COSI.DUCI. tutti i personaggi sono mutilati e tutti su quella menomazione trovano una strategia di sopravvivenza. Anche Madre, che sembra controllare e castrare la vita degli altri, ha vissuto la perdita di qualcosa. È questo qualcosa che prova a riprendersi in quel “supplemento di vita” che interrompe le esequie?

Madre, in questa dilatazione, trova il coraggio di esprimere il proprio attaccamento a tutto ciò che è stato. Trova il modo per durare. Ancora. In un’azione scenica che si reitera attorno all’atto del funerale, tutti i protagonisti tentano di consumare questo capitolo doloroso. Il tempo si dilata attorno a questo trapasso grazie al linguaggio teatrale.

Eppure durante lo spettacolo si ride molto! Ho pensato a quel proverbio siciliano «‘Un c’è mortu senza risati e ‘un c’è zita senza chianciuti». Immagino che la scelta del registro tragicomico sia stata naturale. È così?

Il tragicomico è la frequenza della vita. Viviamo barcamenandoci tra questi estremi. È molto importante per calcare i contrasti che convivono dentro ognuno di noi. Anche all’interno della medesima azione. Nello spettacolo sono presenti numerosi momenti esilaranti che ci permettono di ridere, respirare e alzare la soglia dell’empatia. Poi, in un attimo arriva la compassione. La tenerezza. La poesia. La comicità, però, è spesso cattiva. Le scene in cui si ride in COSI. DUCI. partono da racconti reali, avvenimenti con sfumature grottesche, ma estremamente dolorosi.

Per questo allestimento hai messo insieme una compagnia a metà strada tra Catania e Palermo, una scelta abbastanza insolita per due città antropologicamente diverse che tengono molto alla loro specificità. Come ci sei arrivato?

Avere nel cast due attrici palermitane non è stata una scelta pianificata. Abbiamo riflettuto molto soprattutto sul fatto di accostare i due dialetti, visto che COSI. DUCI. è stato concepito in catanese, il dialetto degli autori. Abbiamo concluso che questa soluzione, anzi, avrebbe arricchito il carattere assurdo e grottesco dello spettacolo.

L’uso esclusivo del dialetto siciliano per un verso sembra intrinseco alla drammaturgia di COSI. DUCI., ma porta con sé il rischio di una connotazione troppo ristretta o localistica. È stata una scelta fatta senza tentennamenti?

La scelta strutturale del dialetto è stata da subito voluta. Le figure presenti in scena dovevano avvicinarsi il più possibile a maschere archetipiche. Il siciliano porta con sé una forte carica poetica e dà accesso a una comunicazione più potente, dinamica e ricca di immagini, che permette di superare la questione della comprensibilità in altri contesti linguistici, grazie anche al carattere universale dei temi trattati. Il fatto che lo spettacolo, l’unico con un testo in vernacolo, sia arrivato finalista in un concorso nazionale, ha confermato la validità della scelta.

Quali sono i progetti per il futuro della Compagnia Lucipicuraru?

Lavoreremo ancora per dare un futuro a COSI. DUCI. Dopo questa messinscena ci auguriamo che possa darci altre soddisfazioni. Inoltre, io e Flavia stiamo scrivendo altri due lavori: un progetto su una poetessa lucana del rinascimento e una riscrittura in dialetto siciliano che trae spunto da una nota drammaturgia americana.

COSI. DUCI.
Compagnia Lucipicuraru, Catania
drammaturgia Andrea Lapi, Flavia Monfrini
regia Andrea Lapi
con Maria Elena Iozza, Oriana Martucci, Flavia Monfrini, Vincenzo Ricca

Spazio Franco – Cantieri Culturali alla Zisa, Palermo | 7 febbraio 2025