CHIARA AMATO / PAC LAB* | In Italia la disparità di genere in ambito retributivo si manifesta come un problema importante: gli stipendi percepiti dalle donne sono del 20% inferiori ai loro pari di sesso maschile. Questo, legato alla minore occupazione femminile e alla maggiore frequenza di contratti precari per le donne, crea un gap ancora oggi difficile da colmare e lascia varchi aperti alle violenze economiche. La violenza economica, infatti, è la terza causa di abuso più diffusa, dopo quella fisica e psicologica, e tuttavia ancora sottovalutata. La questione si complica ulteriormente in caso di separazioni/divorzi dai partner dal quale si dipendeva economicamente, per il banale concetto di “guadagno abbastanza per entrambi”.
Con questa premessa (e non solo) e chiave di lettura, Gaia Saitta ci presenta Olga, la protagonista di Les jours de mon abandon / I giorni dell’abbandono, spettacolo che ha debuttato in prima nazionale al Teatro Studio Melato di Milano. Il testo si ispira al romanzo I giorni dell’abbandono di Elena Ferrante, pubblicato nel 2002, e la regista ha sentito l’urgenza di raccontare una storia comune a tantissime donne. La trama è quasi un cliché: siamo negli anni ’90 e una giovane coppia di fidanzati si sposa; lei segue il marito nel nord Italia per il suo lavoro e per realizzare il suo destino di moglie e madre, finché non viene lasciata per un’amante più giovane. Ha permesso che il nido familiare le rubasse le ambizioni da scrittrice per poi trovarsi senza lavoro e senza la famiglia felice.

ph. Masiar Pasquali

Da qui inizia un vortice di disperazione e ossessione per la perdita dell’amato che però Olga trasforma in disfacimento di tutto il suo mondo: non ha più cura per sé stessa, a malapena porta avanti la casa e i figli, fino a diventare volgare nel linguaggio e brutale nell’animo. 
Il romanzo è molto duro, nelle parole come nei fatti che racconta, non lasciando respiro al lettore, fino alla catarsi finale e… vive l’amour. A differenza del libro – ed è la prima libertà che la messa in scena si prende – Olga si trasferisce a Bruxelles (non a Torino) per il marito Mario, e il testo oscilla tra dialoghi in italiano e francese. La scelta non è casuale, visto che la regista è nata in Italia ma vive e lavora a Bruxelles: dal 2013 al 2020 è stata artista associata a Les Halles de Schaerbeek e attualmente lo è al Théâtre National Wallonie-Bruxelles, che coproduce lo spettacolo con il Piccolo.
Lo spazio circolare del teatro è completamente occupato dalla scenografia (di Paola Villani): siamo a casa di Olga, una casa senza muri divisori ma con strutture d’acciaio che separano gli spazi e con cavi elettrici a vista.
Partendo dal fondo abbiamo la camera dei bambini e il bagno – composto da una vasca e un lavabo – mentre sulla destra c’è la camera da letto di Olga e il salotto con un divano e il telefono. Al centro è posta una porta stesa al suolo, in pendenza, come se fosse stata buttata a terra, e quattro televisori ammassati l’uno sull’altro, che trasmettono per tutta la durata dello spettacolo trasmissioni nazional-popolari e partite di calcio. Siamo in una casa della media borghesia italiana dell’epoca: la televisione non si spegne mai ed è parte integrante del quotidiano. Infine, in prossimità dell’entrata abbiamo la cucina con un tavolo e il frigo.

ph. Masiar Pasquali

Tutto è caotico e sa di deteriorato, di tristezza, come sopravvissuto a un bombardamento. Anche la pavimentazione è precaria e sdrucciolevole, e già nell’arredo abbiamo parte delle luci di scena (idea di Amélie Géhin) che sono quelle dell’abitazione stessa – varie abat-jour, un neon, una luce blu – che vengono supportate, all’inizio, da una forte illuminazione circolare dall’alto. Gli abiti (Frédérick Denis) connotano una famiglia media nella sua piena “normalità”: la bimba con un abito a fantasia colorata, il figlio maggiore con un completo da calcio e la madre in gonna longuette, blusa e decolleté con tacco.
In questa casa non ci sono i due uomini co-protagonisti del romanzo ma solo Olga con i suoi figli (Jayson Batut, Mathilde Karam) e il cane (Vitesse). Il personaggio del marito e del vicino di casa sono in absentia: il marito interverrà in scena solo tramite telefonate, mentre Carrano sarà interpretato da uno spettatore, guidato dalla protagonista, in un breve dialogo.
Mentre il pubblico entra in sala, la padrona di casa fa accomodare alcune spettatrici sulla scena e con loro avrà brevissime interazioni durante la performance, come se fossero sue aiutanti. Il cane, altro personaggio cardine del romanzo, qui si aggira per la platea.
Lo spettacolo viene introdotto dall’attrice e regista con una vera e propria spiegazione dell’operazione artistica alla quale assisteremo e un riassunto della trama del romanzo. Ci fornisce molte indicazioni, per facilitare la simbiosi con gli stati d’animo e le vicende della protagonista.
Della trama viene selezionata una porzione limitata di eventi: il possibile ritorno del marito, che chiama i propri figli per una cena nella sua vecchia casa, e la giornata negli abissi dell’inferno che Olga vive prima di risollevarsi.

ph. Masiar Pasquali

Il primo episodio mette un’ondata di ottimismo nella casa, si tirano tutti a lucido, preparano la tavola ma è un’attesa impietosa e silenziosa, finché tutti capiscono che non ci sarà nessuna cena in famiglia. Un’immagine molto suggestiva è quella in cui l’attrice sale su una scala altissima sul lato destro della casa e fuma una sigaretta: si isola dai suoi affetti perché la stanno distruggendo, le rodono l’anima e le rubano il tempo. E infatti le parole che popolano il suo sfogo, dopo la telefonata noncurante di Mario che avverte che non tornerà a casa, suonano così: «Lui si è preso tutto il mio tempo, tutto il tempo della mia vita (…) Lui me lo deve quel tempo». La dedizione totale a quella vita familiare ora è rimpiazzata da un pensiero unico: la vita sessuale di suo marito con la sua amante.
Gli artisti si muovono nello spazio in maniera convulsa e frenetica per motivi diversi: Olga si aggira frammentando ogni singola azione in infinite distrazioni e cambi di direzione, sommersa dai suoi pensieri ossessivi; i bambini, invece, giocano, saltano da una parte all’altra e soprattutto fanno rumore. I suoni sono uno degli elementi più interessanti dell’operazione registica di Pawel Wnuczynski e Ezequiel Menalled: traducono sul palco l’interiorità del mondo di Olga.
Lo spazio sonoro si aggiunge a quello fisico nel creare una forte connessione con il corpo di Olga. «Un rubinetto che gocciola, granelli di zucchero che rimbalzano, le lame del vecchio ventilatore guasto: tutto fa risuonare l’abbandono, scandisce il ritmo del pensiero, della disperazione, e, alla fine, della visione e comprensione», spiega la regista nel dialogo con Claudio Longhi sul programma di sala. Questo accentua uno stato di apnea del pubblico, l’aria è tesa e densa, la violenza è il modo più utilizzato da Olga e dai suoi figli per amarsi e i rumori sono assordanti, cadenzati e irritanti. Allo stesso modo, le luci seguono i tilt mentali e i collassi emotivi della protagonista: ora si affievoliscono, ora hanno cali di tensione momentanei.
Soprattutto nella seconda parte, quando Olga deve affrontare una pessima giornata – il figlio malato, il cane che sta agonizzando e la porta di casa che non si apre – la scelta di accentuare la presenza dei suoni sembra riflettere quel martellante senso di inadeguatezza e di sconfitta che la casalinga sente ogni giorno rispetto alla nuova fiamma del marito. Più giovane, senza responsabilità genitoriali e vincoli matrimoniali, Giulia, il nuovo amore, non ha niente da temere dal vecchio.

Foto di Anna Van Waeg

La regia resta molto fedele a Ferrante nel non dividere i personaggi in buoni e cattivi: anche i bambini sono cattivi, anche una madre può non sopportare più la visione dei suoi amati e scacciarli. Sorprendente la presenza scenica di Karam che, pur essendo una bambina, ha una profondità espressiva importante, e alterna i toni capricciosi e infantili a quelli da spalla complice e solidale alla madre. Riflette appieno quella saggezza ingenua che spesso i bambini hanno in piccole azioni.
Il ribaltamento che il personaggio di Olga attua nei confronti delle aspettative della madre e moglie tradita è espresso dall’interpretazione di Saitta in maniera perfetta: si impasta la bocca con parole forti, volgari e spietate, non la manda a dire a nessuno, non teme giudizi, perché purtroppo già se ne dà di terribili da sola. Cade continuamente in errori, dimenticanze, rabbie improvvise e stati depressivi, non celando né risparmiando nulla ai suoi figli: vivono il loro inferno a tre. La sua performance è ricca di pathos e si percepisce un legame molto forte con il testo, che però decide di cambiare nel suo finale.

Foto di Anna van Waeg

Mentre Ferrante ci fa vedere la luce in fondo al tunnel con un nuovo amore, la protagonista torna a parlare al suo pubblico come la donna e regista Gaia Saitta e gli chiede di smantellare fisicamente insieme a Olga il vortice di violenze che le donne subiscono: dalla violenza economica alle umiliazioni, dall’abbandono ai ruoli prestabiliti, dagli stereotipi alle solitudini delle madri. Il luogo cardine di questi dolori e sopraffazioni è il focolare domestico.
Così, parte del pubblico assiste allo smontaggio della scenografia che alcuni spettatori mettono in atto con alcuni operatori del Piccolo: la casa sparisce e la scena si riempie di oggetti da spiaggia. Il buio e il chiuso lasciano spazio a limonata fresca, musiche estive, occhiali da sole. I due figli entrano felici insieme alla loro madre ritrovata, che ha vinto una battaglia con i suoi sconforti, da sola, a testa alta, e senza subire pietismi dalla società.

LES JOURS DE MON ABANDON / I GIORNI DELL’ABBANDONO
ispirato a “I giorni dell’abbandono” di Elena Ferrante 

ideazione, adattamento, regia Gaia Saitta
collaborazione artistica Sarah Cuny, Mathieu Volpe, Jayson Batut
testo e drammaturgia Gaia Saitta, Mathieu Volpe
assistente alla regia Sarah Cuny
scene Paola Villani
costumi Frédérick Denis
suono Ezequiel Menalled
luci Amélie Géhin
con Jayson Batut, Flavie Dachy / Mathilde Karam, Gaia Saitta, Vitesse (il cane)
coordinamento tecnico Giuliana Rienzi
regia suono Pawel Wnuczynski
regia luci Corentin Christiaens
creazione e regia video Stefano Serra
assistente ai video Arthur Demaret
direzione di scena Thomas Linthoudt e Stefano Serra
meccanizzazione scene Chris Vanneste
coach bambini Lola Chuniaud
educatore cinofilo (addestramento condotto nel rispetto dell’animale) Casting Tails, Tim Van Brussel
stagiste Lou-Ann Bererd (scene), Tania Chirino (regia), Paul Canfori (regia)
costruzione scene e realizzazione costumi Ateliers du Théâtre National Wallonie-Bruxelles
uno spettacolo di Gaia Saitta / If Human
produzione Théâtre National Wallonie-Bruxelles coproduzione Kunstenfestivaldesarts, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, CSS Teatro stabile di innovazione del FVG, TNC-Teatre Nacional de Catalunya Barcellona, Théâtre de Namur, Le Manège Maubeuge, La Coop asbl, Shelter Prod con il sostegno di BAMP – Brussels Art Melting Pot asbl, Taxshelter.be, ING et du Taxshelter du gouvernement fédéral belge

Teatro Studio Melato, Milano | 1 marzo 2025

PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.