RENZO FRANCABANDERA e MATTEO BRIGHENTI | MB: Due grandi cornici ritagliano lo spazio del Teatro Fabbricone di Prato. È rosso acceso, come alcune sale dei Nuovi Uffizi di Firenze. Qui però siamo a Palazzo Abatellis, a Palermo.
Dentro le cornici, a rifare i due santi anonimi del maestro seicentesco Pietro Novelli, Enzo Vetrano e Stefano Randisi. L’uno, a sinistra, su uno scarno inginocchiatoio; l’altro, a destra, su una sedia imbottita, con alle spalle una libreria. Di fronte, a completare la fascinosa scena di Mela Dell’Erba (suoi anche i costumi) una panchina nera, vuota.
Intanto che prendiamo posto anche noi, una voce registrata annuncia che l’esposizione sta per chiudere e i visitatori sono invitati a uscire. Per un po’ si sentono i rumori del museo, tra una notifica al cellulare e un selfie ricordo.
Quando finalmente si fa silenzio, nella solitudine di un sospiro quasi di sollievo, Vetrano si ridesta. Esce dal quadro, rientra nella vita. Dà inizio così alla sera di Ognissanti di Sabrina Petyx, sera dei miracoli, avrebbe cantato Lucio Dalla. Un dramma giocato da due interpreti dal garbo sconfinato, che chiamano alla rivoluzione, prima di tutto della rappresentazione di sé. Perché è il chiodo che regge il quadro, mentre la cornice è solo una gabbia dorata. Buona per chi crede che vivere sia continuare a mentirsi.

Ognissanti. Foto di Luca Del Pia

RF: È un’atmosfera in stile ‘A livella di Totò, sotto certi punti di vista: i musei sono come i camposanti di notte. Misteriosi e inaccessibili, contengono tanta parte della vita umana eppure di notte, chiuso il turno di apertura, ci sono silenzio e buio totale ad avvolgere tutto. Il pretesto drammaturgico a cui si appella Petyx parrebbe effettivamente surreale: un pittore che ha dipinto due santi anonimi. In realtà, come hai detto, la vicenda è vera: i due dipinti in questione sono conservati presso la Galleria Regionale di Palazzo Abatellis a Palermo, raffigurano una coppia di Santi Martiri (n. Inv. 165-166); sono due quadri di formato pressoché identico, olio su tela, e suggeriscono una comune e condivisa natalità ideativa e creativa. Alcuni studi ne ascrivono l’ispirazione alla rivoluzione formale, seguita all’arrivo in Italia di Anton Van Dick. Ma qui apriremmo un discorso che non ha a che fare con lo spettacolo, perché si tratta di un pretesto creativo e nulla più.

Due quadri intitolati a due santi anonimi, un po’ come il poveraccio che nella poesia del maestro de Curtis si ritrova con la sua tomba vicino a quella del ricco. Da questa prossimità nasceva il conflitto, nella poesia in dialetto napoletano, con il ricco che intimava al povero di farsi in là, e il povero che, con i suoi pochi strumenti culturali, lo faceva riflettere su questioni filosofico-esistenziali robuste, come la transitorietà della gloria cumulata durante la vita umana e il fatto che la morte non distingua il censo.
Parimenti, di natura esistenziale è il dialogo fra i due “santi” dipinti e che diventano tableaux vivants, e diventerà poi dialogo fra i due modelli che il pittore assoldò per posare e che, in quanto poveri cristi che si vedono ritratti e portati all’eternità, riflettono sulla vita e sull’arte, sull’immortalità e sulla provvisorietà.
Siamo tutti appesi a un chiodo, con il nostro ruolo sociale, mentre dentro di noi si agita l’identità reale, ammesso che si riesca davvero a conoscerla.

Foto di Luca Del Pia

MB: La scena parla con sé stessa. Vetrano agisce fuori dal quadro, Randisi, invece, ci resta perlopiù dentro (a parte una breve parentesi alla fine). Questa loro diversa scelta di campo si rispecchia esattamente nella contrapposizione dei valori. Nel rimpallarsi la colpa dell’essere dove sono, l’uno esprime la libertà di essere chi vuole – di essere sé stesso –, mentre l’altro vuole restare inchiodato alla sua storia, che poi, in verità, non è nemmeno la sua.
Sono santi nonostante loro stessi, santi a loro insaputa, non hanno neppure un nome. Hanno in comune, però, la cornice, il pittore, e la morte che li ha portati fino a qui. Entrambi inquisitori, “beniamini del dogma” e per questo assassinati. Hanno ridotto la vita in cenere eppure sono stati santificati – misteri della fede, o meglio della Chiesa. Hanno esercitato il male con banalità, ma adesso il santo di Enzo Vetrano ha deciso di dire basta.

RF: La scena di Mela Dell’Erba che accoglie, come raccontavi, gli spettatori, pur piccola nello spazio agito, ha grandissima potenza evocativa e capacità eye-catching. Fa tutt’uno con gli splendidi costumi e con l’impianto dei quadri che, pur senza citare esplicitamente questa o quell’opera, rimanda genericamente con grande sapienza a una summa della storia della pittura, che va dal Rinascimento fino a Bacon, dall’Innocenzo X di Velasquez a quello di Francis Bacon (qui con paramenti neri, per stare nelle cromie dell’opera di Novelli).
Alle spalle del santo filosofo di Randisi, libri e librerie gli conferiscono l’attributo sapienziale, mentre l’altro, quello di Vetrano, è un santo penitente, un cardinale Borromeo inginocchiato, con le mani giunte che ricordano quelle di Albrecht Dürer. Qui, oltre all’inginocchiatoio, non ci sono elementi di connotazione, se non il buio fondale del quadro, dal quale appunto il personaggio e la persona uscirà.
Hai voglia a dire, ma se nasci in una terra, volere o volare, gli influssi comunque restano presenti. E qui, secondo me c’è anche tantissimo di Pirandello nel suo tema identitario, alcune cose di Scaldati, come il dialogo assurdo dell’avvio.
Di fatto, tornando alla similitudine con ‘A livella, ma anche a quella fra il museo e il camposanto, rifletto ora sul fatto che i due interpreti di questo lavoro avevano portato in scena alcuni anni fa proprio un testo di Scaldati, intitolato Totò e Vicé, in cui i due personaggi vagavano nottetempo in un camposanto come anime in pena. Ed erano, infatti, anime in pena.

Foto di Luca Del Pia

MB: Ognissanti è la festa del risveglio della coscienza quando questa riconosce che l’arte eterna dei vincitori si regge su un misero chiodo, che può cedere in qualsiasi momento. L’appello è rivolto al presente, a far prevalere la verità sulla notorietà, la libertà davanti al ritorno di nuove inquisizioni, di nuovi roghi delle idee non conformi. Non si parla qui di “cancel culture”, nell’invenzione di Petyx è il soggetto che si ribella all’opera stessa. Ma, certo, ci interroga su quanto il male consacrato ad arte sia l’eredità, la memoria più deteriore che la Storia ci può trasmettere.

RF: Devo dire di essere ancora un po’ suggestionato dal ragionamento precedente, e mi viene da riflettere su quanto la pratica critica aiuti a mettere a posto alcuni tasselli della visione, che magari vagano in uno spazio, passibili di essere usati per puzzle diversi, ma finché non c’è un ragionamento unificante restano nel mondo delle idee.
Nel caso di Ognissanti il ragionamento unificante secondo me riguarda proprio quello che ognuno di noi è realmente e la costrizione, il fingimento sociale. Al confronto, la maschera teatrale è una bazzecola rispetto a quella che indossiamo fuori dal teatro, e nulla più della maschera neutra, del santo anonimo, può portare a un ragionamento su questo.

MB: Ognissanti è quasi l’apologo filosofico di un duo di improbabili santi che ammazza il tempo della solitudine parlando nel chiuso di un museo, isolato dalle luci di Max Mugnai e amplificato dalle musiche originali di Gianluca Misiti. I nostri sono su questo palco, infatti, non per fare dei personaggi ma per vivere le parole che li attraversano. Un progredire di immagini e astrazioni a tratti anche impervio, che culmina nel rogo di un giullare, lo stesso Vetrano, da parte del santo inflessibile, granitico, di Randisi. Nella morte, che dovrebbe lasciarci soli, si ritrovano però in due. Figure, modelli che nel quadro rappresentano altri due, che non sanno chi siano. Una volta svelate, le cose non tornano a posto. Importa chi siamo, oltre a dove siamo. Non è così anche il teatro?

Foto di Luca Del Pia

RF: Vedi che arrivi anche tu allo stesso ragionamento… il tuo schema di pensieri era più, se mi passi il termine, logico-filosofico. Il mio, invece, discendeva come una sorta di precipitato derivante dalla storia e geografia stessa degli interpreti, oltre che della drammaturga. Ho sempre provato a teorizzare questo tema dell’ossessione, del punto nodale attorno al quale si snoda l’intera vicenda artistica di un attore, di un regista, di un drammaturgo. È come se si cambiasse sempre, per dire sempre la stessa cosa.
La drammaturgia ha una prima parte ironico-assurda, una sorta di largo sinfonico-filosofico centrale, per chiudere con un’uscita più esistenziale, affidata a un paio di monologhi di un potente Enzo Vetrano, chiamato, sono d’accordo con te, al risveglio delle coscienze e delle identità in ascolto.
Come nel film Stalker di Tarkovskij, l’arte serve a garantire l’accesso a un’altra dimensione con la quale, attraverso il filtro delle proprie ossessioni, si cerca di arrivare alla verità su quello che siamo.

Foto di Luca Del Pia

MB: La verità porta o no alla felicità? È notevole che l’ultima parola su cui si scontrano sia ‘peccato’. Non come colpa legata alla sfera del sacro, ma come espressione di disappunto, rammarico umano, molto umano. Peccato per le cose che potevano essere, e non sono state. Peccato aver sprecato la vita contro il muro di scelte che non sono le nostre. In attesa che qualcuno si accorga anche di noi, noi che abbiamo appeso al chiodo il desiderio di cambiare, per paura di sbagliare. Di diventare nessuno.

RF: Anche nel film di Tarkovskij qualcuno finiva per scoprire la Verità, amara. Qui il finale è bello, perché gioca proprio su quella parola di cui è intrisa la morale cristiana nella sua declinazione cattolica, l’opprimente senso del peccato, quello che appunto portava il santo in posizione genuflessa, prostrata. Che qui diventa ‘peccato!’ inteso come esclamazione.
Peccato! Peccato passare la vita ad andar dietro a cose altrui, influenzati dal giudizio esterno, senza dedicare attenzione a realizzare il sogno del nostro demone interiore. Peccato, appunto, vivere la vita recitando come a teatro, fingendosi qualcos’altro da quello che si è. Che quasi verrebbe da dire: Signore, non liberarci dai peccati, ma dai ‘peccato!’.

 

OGNISSANTI
di Sabrina Petyx

interpretazione e regia
Enzo Vetrano e Stefano Randisi
scene e costumi Mela Dell’Erba
luci Max Mugnai
musiche originali Gianluca Misiti
direttore di scena Loris Giancola
produzione Teatro Metastasio di Prato
in collaborazione con LE TRE CORDE società cooperativa
un ringraziamento a Raffaella D’Avella

Prima Assoluta

Teatro Fabbricone, Prato | 26, 27 febbraio 2025