LAURA NOVELLI | Un palazzo aristocratico ormai in rovina dominato da una lunga scalinata centrale che funge da spazio praticabile e, al contempo, da rimando architettonico fortemente allusivo. È in questa scatola/mondo dai colori vividi e cangianti che si svolgono le complesse vicende raccontate in Guerra e pace, seconda incursione registica di Luca De Fusco nell’immensa eredità letteraria di Lev Tolstoj dopo il precedente e fortunato allestimento di Anna Karenina con Galatea Ranzi protagonista (2023).
E se il titolo è di quelli che risuonano con familiare nitidezza nel tessuto culturale di tutti noi, tanto più l’ossimoro che lo compone non può che apparirci oggi un tema tragicamente universale. Urgente sempre e da sempre. «Detesto la parola “attuale” collegata al teatro – spiega il regista – Il teatro non è una trasmissione televisiva o un sito. Il grande teatro e la grande letteratura non sono attuali, sono eterni. In questa messa in scena teatrale di Guerra e pace non si troveranno, quindi, immagini della guerra in Ucraina o in Medio Oriente […]. Ovviamente, però, non è un caso se mettiamo in scena uno dei maggiori titoli sulla guerra di tutti i tempi nel momento in cui ben due conflitti devastano la nostra vita. Il problema è che non c’è bisogno di attualizzare il classico di Tolstoj. La convivenza tra guerra e pace, amore e morte, tiranni e popolo, parla già alla nostra coscienza contemporanea».

Motivo per cui, lo spettacolo, in programma al Teatro Argentina di Roma nelle settimane scorse, non percorre la strada dell’attualizzazione formale e contenutistica del celebre romanzo (come succedeva, ad esempio, nella performance War and peace che il collettivo anglo-tedesco Gob Squad presentò a Torino nel 2017) quanto, semmai, quella dell’analogia: nell’intento di restituire tutta la potenza e l’universalità del materiale di partenza, esso non solo ci propone un necessario slittamento di codici, segni, forme espressive dalla grande letteratura “epica” dell’autore russo al teatro, ma anche – e soprattutto – una grammatica visiva e interpretativa ben riconoscibile. Il tempo dilatato della materia originaria si restringe, la trama di relazioni tessuta dai numerosi personaggi si avviluppa velocemente ma in modo chiaro, il tema cruciale della guerra – e della sua contrapposizione alla pace – è introdotto subito, le lunghe digressioni filosofiche, morali, metafisiche disseminate nei cunicoli della vicenda diventano materia di una narrazione super partes che tiene insieme i gangli centrali della colossale prosa tolstojana consegnandoli ad un’efficace essenzialità.
Potremmo dire che, coadiuvato nella stesura dell’adattamento da Gianni Garrera (drammaturgo, filologo musicale, traduttore e grande studioso di Kierkegaard), De Fusco metta a segno qui una sorta di condensazione dell’opera. Condensazione che riguarda, innanzitutto, i fatti e i nodi drammatici, fluidamente legati gli uni agli altri senza cesure, ma, piuttosto, avvicinati e raccolti in tempi dal respiro breve, in un ritmo incalzante di entrate e uscite, di cambiamenti di prospettiva da un personaggio all’altro, da una vicenda all’altra. La trama c’è tutta, sebbene se ne perda giocoforza la generosa ariosità a vantaggio di un’agile costruzione per quadri, in cui restano tuttavia vivi il significato e la forza del romanzo.

Un simile processo di condensazione investe poi anche l’avvolgente impianto scenico firmato, come i bellissimi costumi, da Marta Crisolini Malatesta: il palazzo che ci accoglie all’inizio del lavoro resta lo stesso per l’intera durata della pièce; cambiano le luci, le atmosfere, gli scorci, i particolari, visto che i fasti salottieri di un tempo precipitano in muri scrostati; le stanze disadorne, prima luminose, diventano via via buie e ingrigite. E, soprattutto, cambia la funzione della sontuosa, icastica, scalinata centrale, simbolo di ascesa e caduta, vitalità e declino (tale da ricordarci quella disegnata da Margherita Palli per la regia ronconiana de Il lutto si addice ad Elettra di Eugenie O’Neill, allestita nel 1997 proprio all’Argentina) che, grazie all’intenso disegno luci di Gigi Saccomandi, si fa qui casa, camera di sospiri amorosi, salone da ballo, campo di battaglia, teatro di massacri e di morte, tomba.
Siamo, insomma, in un mondo che crolla. Un lampadario di cristallo dalla raffinata fattura è appoggiato a terra sul proscenio, di lato: nessuno lo ha tolto o rimesso al suo posto, quasi fosse un reperto archeologico testimone di tempi passati. Un simbolo e, insieme, un monito. Ma anche quello che semplicemente è: un oggetto scenico. L’area della rappresentazione sempre meglio si delinea, dunque, come un palcoscenico sul palcoscenico dove si racconta la decadenza privata e storica di una classe aristocratica inquieta, alla costante ricerca di amori, denaro, gloria, e persino votata all’idea “virile” che la guerra sia molto più interessante della pace.
Ciò che maggiormente domina, infatti, nelle relazioni tra i numerosi personaggi della pièce, in molti casi attraversati da una nostalgia che lascia presagire la disarmante modernità di Čechov, è una decisa dicotomia tra l’anima pacifista delle donne e quella bellicista degli uomini. Non è un caso che il lavoro si apra nel salotto nobile di Anna Pàvlovna Scherer (Annette), cui Pamela Villoresi regala una bella prova in equilibrio tra lirismo e razionalità. A lei il compito di difendere la pace, di legare la pace alla vita e all’amore, di guidare il plot dei fidanzamenti e dei matrimoni giovanili. Con lucida consapevolezza Annette/Villoresi è anche, però, la voce narrante principale dello spettacolo; una sorta di sguardo interno e, insieme, esterno, che orchestra i diversi passaggi narrativi, agendo al contempo come puro personaggio drammatico.

Intorno a questo nucleo di vitalismo materno, si organizzano poi le altre figure del romanzo, opera di proporzioni omeriche (sulla cui analisi restano fondamentali le pagine del saggio Tolstoj o Dostoevskij di George Steiner, Garzanti, 2021) che intreccia i destini di due famiglie, i Bolkonskij e i Rostov, sullo sfondo della campagna di Russia di Napoleone. Ecco il bonario e schivo Pëtr Kirillovič Bezuchov (Pierre) dell’ottimo Francesco Biscione, il più ingenuo e sentimentale dei personaggi maschili, figlio illegittimo del vecchio Bezuchov e della stessa Annette ed erede, suo malgrado, di un’ingente fortuna, che collezionerà delusioni e scelte sbagliate prima di trovare la felicità nell’epilogo. Di indole assai diversa ci appaiono poi sia l’appassionato Nikolaj Rostov interpretato da Giacinto Palmarini sia l’impavido e volubile Principe Andrej Bolkonskij di Raffaele Esposito. Per entrambi la guerra rappresenta la forza animatrice dell’esistenza, l’antidoto vitale alla monotonia, alla noia del quotidiano. Per entrambi, tanto più, il mito di Napoleone coincide con un ideale di eroismo, genio e coraggio che prescinde persino il naturale odio per i nemico e ci ricorda l’afflato pre-romantico di quel Foscolo giovanile ancora ignaro delle cocenti delusioni legate a Campoformio.
Il destino di Andrej (un Esposito energico e possente, anche se a tratti forse un po’ troppo enfatico) si impone come il più simbolico del romanzo: mentre il suo cuore passa di donna in donna, l’adesione cieca alla guerra lo vedrà attraversare esaltazione e dolore, eroismo e paura, finché la battaglia di Borodino gli sarà notoriamente fatale. In questa visione bellicista che anima le figure maschili di Tolstoj spetta, infine, al generale Kutùzov di Federico Vanni – quasi un alter ego della saggia Anna Pàvlovna – tradurre l’inerzia in strategia: scettico sull’efficacia di un attacco diretto, egli ordinerà alle truppe russe di attendere che i francesi entrino a Mosca e la incendino, per poi passare all’offensiva e costringerli a una disastrosa ritirata in pieno inverno. La Storia, come ben sappiamo, gli darà ragione.

Malgrado il tema della guerra innervi molte delle scene dello spettacolo (soprattutto nella seconda parte), è però la trama femminile della pace a spostare l’ago della bilancia verso i sentimenti e la speranza nel futuro. Le giovani donne del romanzo qui volteggiano in perenne attesa di un agognato coronamento amoroso, di un sogno, di uno spiraglio di novità. La fragile ed eterea Natàl’ja Il’ìnična Rostòva (Nataša) trova in Mersila Sokoli (già apprezzata protagonista del monologo Giovanna d’Arco della Spaziani che, sempre su regia di De Fusco, PAC ha recensito a ottobre scorso) un’ottima interprete, matura e lieve, affiancata dalle altrettanto incisive Eleonora De Luca, Sòf’ja Aleksàndrovna Rostòva (Sòn’ja), e Lucia Camalleri, Màr’ja Nikolàevna Bolkònskaja, l’anima forse più dolente dell’opera, vittima di un padre-padrone e di una spiritualità vissuta come cupa prigionia.
In queste giovani donne, tenute insieme dalla saggia maturità di Annette/Villoresi, risiede la forza più potente di Guerra e pace. Il loro desiderio di amore è un urlo delicato, ma assordante contro l’insensatezza della violenza e del male: moderne eroine tragiche dal cuore sempre in subbuglio, perché è lì – nel cuore – che si combatte la battaglia più importante di sempre, quella per la vita. E non è certamente un caso che questo lavoro – estremamente corale, coreografico, e scandito dal violino che nutre il tappeto musicale di Ran Bagno – dedichi alla sostanza femminile del romanzo un respiro del tutto particolare. Complici anche le grandi proiezioni video realizzate da Alessandro Papa che, già impiegate in precedenti produzioni del regista, ne enfatizzano alcuni passaggi salienti (si veda, ad esempio, il festoso momento del ballo), ingrandendo i corpi e i volti delle attrici e degli attori, e moltiplicando corpi e volti per moltiplicare l’idea che, in fondo, siamo tutti caduchi ed effimeri come ombre.
Poi arriva una luna blu stagliata nel cielo che sembra una luna di Chagall o di Magritte, e ci dimentichiamo per qualche minuto di Napoleone, Austerlitz e Borodino. E mentre le vicende si rincorrono, la città va in fiamme, Andrej perde la vita, i francesi si ritirano, i matrimoni si sfasciano e compongono, la trama del romanzo corre verso il suo dovuto epilogo e fa la sua straordinaria giravolta: l’amore tra Natasha e Pierre non può, infatti, che agganciarci fermamente alla pace. Al bisogno estremo che ne abbiamo. Ieri come oggi.
GUERRA E PACE
di Lev Tolstoj
adattamento Gianni Garrera e Luca De Fusco
regia Luca De Fusco
aiuto regia Lucia Rocco
con (in o.a.) Pamela Villoresi, Federico Vanni, Paolo Serra, Giacinto Palmarini, Alessandra Pacifico Griffini, Raffaele Esposito, Francesco Biscione, Eleonora De Luca, Mersila Sokoli, Lucia Cammalleri
scene e costumi Marta Crisolini Malatesta
assistente alle scene e ai costumi Francesca Tunno
assistente ai costumi Laura Giannisi
disegno luci Gigi Saccomandi
musiche Ran Bagno
creazioni video Alessandro Papa
coreografia Monica Codena
Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatro Biondo di Palermo, Teatro Stabile di Catania
Teatro Argentina | 16 febbraio 2025