MARIA FRANCESCA SACCO / PAC LAB* | Cosa succede quando si scivola nel male, senza tuttavia averlo mai scelto? Cosa resta quando la vita si riduce a mera sopravvivenza?
«Tutto quello che ho imparato dalla vita è sopravvivere», è la frase conclusiva e incisiva dello spettacolo L’assaggiatrice di Hitler, con la regia di Sandro Mabellini. Un’affermazione che ogni essere umano potrebbe sentire sua, in alcuni momenti della vita, e che conferisce allo spettacolo un valore universale. Ambientato tra le atrocità della Seconda Guerra Mondiale, esso esplora la solitudine, la paura, ma non dimentica la speranza, incarnata da un’incomprensibile e ostinata voglia di sopravvivere.

L’assaggiatrice di Hitler è tratto dal romanzo di Rosella Postorino (Premio Campiello 2018) e alla sceneggiatura ha contribuito la stessa autrice, insieme a Gianfranco Pedullà, mettendo in evidenza il confronto tra esistenza e annientamento, vita e morte, con l’elemento del cibo come filo conduttore. Esso è, infatti, la variabile cruciale che determina il destino delle protagoniste: un gruppo di donne pagate per assaggiare i piatti destinati al Führer, garantendo che non contengano veleno. Non hanno scelta: ogni boccone che ingoiano è una pesante zavorra che affonda nei loro stomaci, come un promemoria di un destino ineluttabile. L’atto di nutrirsi, invece di dare loro vita, le prosciuga, schiacciandole sotto il peso della consapevolezza di un rischio che non sanno mai se avrà esito fatale.
In questo scenario di costante tensione e claustrofobia, i personaggi prendono vita grazie alle impeccabili interpretazioni di Silvia Gallerano e Alessia Giangiuliani. Le due attrici, con un abile alternarsi di battute, conferiscono al racconto un ritmo variegato, rendendo palpabili le emozioni che attraversano la narrazione: dal terrore alla speranza, dalla paura all’amore. La scelta registica è avere due interpreti che creano un cast corale attraverso dialoghi intensi e rimbalzanti: tutte le battute, prima di tutto quelle della protagonista, passano dall’una all’altra senza sosta, lasciando allo spettatore immaginare dove inizi e finisca un dialogo o un monologo. Questa soluzione sembra funzionare grazie alla bravura delle attrici in grado di sostenerne il ritmo senza sbavature e anche da un impianto scenografico minimale, che concentra l’attenzione sulle donne in scena. Qui si vedono solo due sedie, mentre tutto il resto, la tavola apparecchiata ad esempio, è suggerito da immagini proiettate su una sorta di cortina trasparente. Questa, come un velo, separa due luoghi di azione dove agiscono le attrici e prendono vita i personaggi, dando dinamicità a una pièce prettamente narrativa. La recitazione frammentata e alternata, unita alla scenografia fatta di due spazi distinti, suggerisce un effetto di distacco che rende al pubblico quello scollamento interiore che accompagna Rosa Sauer, protagonista della pièce e del romanzo. Lei diventa assaggiatrice per il regime nazista, accettando un ruolo che si trasforma in un macabro paradosso: Rosa è spettatrice e vittima allo stesso tempo, in bilico tra la lealtà al suo paese e il timore di essere complice di un male più grande.
Lo spettacolo si apre in un’atmosfera cupa dove aleggia la figura enigmatica di una donna, Marlene Fuochi, vestita di nero che, senza parole, suona la fisarmonica. La sua presenza è straniante per tutto il durare della perfomance, durante la quale occupa talvolta la scena principale e talvolta resta sullo sfondo, dietro la cortina della scenografia dove vi sono una serie di finestre che lasciano intravedere la sua ombra che vaga. Non sembra essere sempre presente sullo sfondo, talvolta la si perde di vista immaginando tuttavia che sia sempre là. Ciò fa pesare ancora di più la sua presenza, come la morte che incombe e osserva da vicino il destino dei personaggi imbracciando quella fisarmonica che con il suo respiro diventa a sua volta simbolo di una vita sospesa tra azione e morte.

Nel costante contrapporsi di sentimenti, il desiderio percorre tutta la narrazione. Le pietanze, con il loro aspetto invitante e sensuale, diventano metafora di una passione viscerale, così come le vesti rosse indossate dalle attrici. Anche il linguaggio utilizzato fa spesso riferimento al cibo e all’oralità come una pulsione potente, una seduzione incessante. Un esempio emblematico è il gesto d’amore che Rosa condivide con il marito Gregor, quando si lascia introdurre due dita in bocca, con la fiducia che non sarebbero state morsicate.
Ancora più complessa è la relazione che la protagonista intreccia con Albert Ziegler, un generale delle SS, dal quale è attratta nonostante rappresenti il male assoluto. Immersa nella solitudine e nello strazio della notizia della scomparsa del marito Gregor, partito per il fronte e dato per disperso, Rosa si lega a Ziegler come se questi momenti di passione fossero gli unici che le permettessero di dare un senso alla sua esistenza ormai vuota, facendole credere di ribellarsi, almeno in parte, ‘all’oggettificazione’ cui sono sottoposte lei e le sue compagne, rendendo così più sopportabile questo loro «sopravvivere». la relazione soffre però di con un senso di colpa che deriva dal rapporto di Rosa con il padre defunto, che non avrebbe mai accettato di aderire al regime. Rosa, invece, si dice: «Non c’era alternativa, questo è il nostro alibi».
Nella performance, la complessa psicologia di Rosa Sauer è riproposta fedelmente al romanzo, il cui impianto narrativo si presta alla scena, riuscendo a rendere il carico di orrore e verità che la storia contiene. È importante ricordare infatti che Rosa Sauer, nella realtà, si chiamava Margot Wolk e la sua vicenda è attesa anche nelle sale cinematografiche, in un film con la regia di Silvio Soldini.
Il finale lascia spazio a una riflessione: due piccole candele accese tra le mani delle attrici mentre la figura vestita di nero danza freneticamente, sola in scena. La luce fredda contrasta con quella calda delle candele mentre la danza sembra risucchiare tutto ciò che resta, le vite e le speranze. Una conclusione circolare che invita il pubblico a riflettere sulla morte sottolineandone la dimensione sistematica e spietata durante il periodo del regime nazista, dove non era solo una minaccia ma una pratica pianificata e imposta con crudeltà: anche chi riusciva a sfuggirle, non poteva fare altro che viverne l’ombra per sempre.
L’ASSAGGIATRICE DI HITLER
tratto da Le assaggiatrici di Rosella Postorino
con Silvia Gallerano e Alessia Giangiuliani
drammaturgia Gianfranco Pedullà e Rosella Postorino
regia Sandro Mabellini
fisarmonica e voce Marlene Fuochi
musiche originali Francesco Giorgi
scenografia Giovanna Mastantuoni
costumi Veronica Di Pietrantonio
produzione Teatro popolare d’Art
* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.
Teatro Carcano, Milano | 20 Febbraio 2025