ESTER  FORMATO | Scritto nel 1985 dal britannico Herbert George Wells, “La visita meravigliosa” è un romanzo visionario che nel 1970 colpì anche la sensibilità di Nino Rota, che ne trasse un’opera musicale.
Al centro della vicenda c’è una misteriosa creatura che letteralmente atterra in un piccolo paese – rappresentato coralmente da più personaggi – visitando un reverendo che, reduce dal dramma della guerra e preso dal timore, gli spara. Tuttavia, subito dopo riconosce la straordinarietà dell’essere e lo soccorre, dandogli ospitalità. Come nell’Annunciazione, il prete  accoglie umilmente la presenza di quest’uomo alato, ravvisando in lui una grazia salvifica, un dono e sin da subito si convince che sia effettivamente un angelo. Intorno alla sua casa si concentrano la vita del paese, turbato dal singolare arrivo e quindi pronto a manifestare fastidio e repulsione verso lo straniero, percepito come un corpo estraneo in un assetto sociale chiuso e impermeabile.

foto di scena Eniko Mosi

Da questa storia Davide Iodice e Fabio Pisano, supportati da Sardegna Teatro e in collaborazione con l’Istituto italiano di cultura di Tirana, traggono uno spettacolo – già vincitore di premi d’oltre Adriatico – con interpreti albanesi che recitano nella loro lingua, con sovratitoli in italiano, per questo il titolo “Vizita”, che significa appunto, “visita”.
Partendo dalla traduzione di Zija Vuka, Iodice, che cura regia e adattamento scenico, e Pisano (drammaturgia) hanno lavorato per restituire al contenuto del romanzo una forma teatrale nel rispetto della scansione narrativa originale, affinando la compagine drammaturgica e scenica.
La regia ci presenta una scena carica di oggetti e di simboli: all’apertura di spettacolo vediamo troneggiare un enorme crocefisso, punto focale di tutto l’assetto scenico. Panche di legno circoscrivono lo spazio d’azione, colori e fragranze ci orientano verso un ambiente liturgico atavico. Sarà forse per la scelta linguistica, particolare e rara, o per la compostezza austera della recitazione degli attori e il rigore dei costumi, che tutto ciò ci riporta a una solennità tragica, ma soltanto per il piano visivo perché l’adattamento è invece caratterizzato da dialoghi semplici e prosaici.
Inoltre nel paese, rappresentato per lo più da donne devote, si riconosce un organismo corale che funge sia da narratore sia da condensatore del punto di osservazione collettivo, esattamente come nello schema della tragedia classica. In più ciò serve a contraddistinguere specifiche individualità come il matto (Nikolin Ferketa) che vede e preannuncia ciò che di straordinario si sta verificando, il reverendo (Pjerin Vlashi), l’angelo (Fritz Selmani) e la serva Delia (Julinda Emir) che, diversamente dalle altre donne, crede nella soprannaturalità dell’uomo e finisce per innamorarsene. Questi ultimi sono dotati di una carica poetica che pervade il dramma, sebbene la compresenza frequente di più personaggi smorzi talvolta la loro preminenza.

foto di scena Eniko Mosi

Inoltre, sono immersi nella scenografia curata da Divni Gushta, arricchita da riferimenti religiosi e da tinte chiaroscurali e che ricorda un certo rigore ortodosso in bilico fra eccessivo realismo e atmosfera a-storica. Sul piano musicale, invece, le composizioni di Lino Cannavacciuolo si caratterizzano per il suono del violino, elemento preponderante della storia, che ci riporta ad armonie dell’est Europa e che conferiscono qua e là allo spettacolo una natura visionaria con un vago rimando a una sorta di miracle play moderno.
Lo spettacolo si sviluppa in modo lineare, nella drammaturgia si riconosce facilmente una cifra didascalica che in molti momenti tende a fornire una narrazione semplicistica della storia, senza problematizzare gli aspetti più significativi. I quadri sono giustapposti per permettere che la storia segua il suo corso, e sono legati fra loro dalla figura dell’angelo, intorno al quale se ne muovono altre: dal medico che arriva in bicicletta e che è certo che le ali siano una malformazione, alle donne che, scettiche, non accettano di buon grado la sua permanenza, come altri compaesani per cui le ali malandate diventano oggetto di dileggio, fino allo stesso reverendo. L’angelo si palesa nella sua purezza, forza e fragilità, mistero e sospetto che si incarna nell’arte del violino il cui suono arreca effetti benefici a chi lo sa accogliere; il prete, ascoltandolo, riesce spiritualmente a elevarsi, mentre la giovane Delia riconosce in quell’uomo l’amore.
Ma ciò non basta a persuadere gli altri della bontà dello straniero che, dunque, finisce per essere ingabbiato in una prigione che ricorda palesemente le reti in filo spinato con cui l’Occidente sta circoscrivendo e murando le proprie frontiere. Che sia il confine con il Messico o il confine con l’Europa orientale, l’allusione ai giorni nostri è lampante, il rigetto dell’antica hospitalitas che tanto ha plasmato le antiche culture mediterranee è una chiara denuncia dello spettacolo.

foto di scena Eniko Mosi

Pur ritrovando simboli interessanti che ripuliscono l’opera dallo stantio contesto vittoriano, resta il fatto che, forse anche data l’intrinseca natura dell’opera, lo spettacolo risulta in alcuni momenti stucchevole, anche quando la storia avrebbe avuto bisogno di un affondo drammatico più vigoroso da permettere allo spettatore di penetrare nella profondità del conflitto sia all’interno della comunità che nel singolo personaggio, come quando il reverendo racconta di sé all’angelo, confessando quanto ai suoi occhi ogni celebrazione gli paia priva di senso e di fede e quindi solamente un modo per scalfire la ciclicità dell’esistenza del paese. Qui l’intensità della confessione viene smorzata dalla mimesi in micro-quadri che tendono a banalizzare la psicologia dell’uomo.
Pathos maggiore, invece, si manifesta in concomitanza con l’epilogo della vicenda, la cui drammaticità è rafforzata dalla presenza, sulla quinta di fondo, del filo spinato, mentre si assiste inermi a un incendio che divampa nella casa del prete.
È il fuoco che disvela tragicamente la realtà dei fatti, sostanziando, nella duplice sepoltura di chi è stato in grado di riconoscersi reciprocamente come dono, la miopia e la povertà umana di una comunità, incancrenita nella diffidenza e nella maldicenza collettiva.

Spogliata dai riferimenti del contesto originario, la materia del romanzo di Wells sembra vestire nel lavoro di Davide Iodice i panni di un’Europa stanca, atavica, sospesa nei suoi riti e nei suoi codici sociali e immemore della sua antica hospitalitas.

VIZITA

da La Visita Meravigliosa di H.G.Wells
testo Fabio Pisano
traduzione Zija Vuka
adattamento, spazio scenico e regia Davide Iodice
musiche originali Lino Cannavacciuolo
l
uci Loic Hamelin
costruzioni scenografiche e costumi Divni Gushta
assistente alla regia Jozef Shiroka
produzione Teatro Migjeni, Sardegna Teatro
e con il supporto dell’ Istituto Italiano di cultura di Tirana
distribuzione Danilo Soddu
con Vladimir Doda, Julinda Emiri, Nikolin Ferketa, Rita Gjeka Kacarosi, Raimonda Markja, Alexander Prenga, Fritz Selmani, Jozef Shiroka, Merita Smaja, Pjerin Vlashi
Spettacolo vincitore del Festival del Teatro Albanese “Moisiu” come miglior spettacolo, migliore musica, migliore scenografia e Spettacolo vincitore del Premio della stampa Oslobodenje al Festival di Sarajevo
media partner Albania Letteraria                                                     

foto di scena Eniko Mosi

Teatro Fontana, Milano | 27 febbraio 2025