GIORGIA VALERI / PAC LAB* | 7 settembre 2020. Maria Kalesnikova viene rapita a Minsk, in strada, da uomini incappucciati dei servizi segreti bielorussi con l’accusa di tentato colpo di stato. 16 settembre 2022. Masha Amini viene uccisa dalla Polizia morale iraniana per aver indossato l’hijab in modo sbagliato. Colpevoli senza colpa, giudicate senza appello. Nell’intersezione longitudinale e temporale tra i due eventi, leggermente dislocata a sinistra, si trova la Grecia, che nell’assetto geopolitico rappresenta la linea di confine tra occidente e medioriente.
Se esistesse una macchina in grado di affrontare quei 3530 chilometri di strade sterrate, foreste e pianure militarizzate, sarebbe una Smart Fortwo con impianto stereo integrato, un bagaglio contenente una tuta da Bugs Bunny, tubi led versatili, una tastiera e, al volante, non una donna ma un’identità stratificata: I’m not a man, I’m not a woman, it’s complicated, I’m Kassandra. Kassandra – nella K si condensa il passaggio dall’età ellenistica al nuovo millennio – emerge dall’abitacolo, tacchi bianchi vertiginosi, un microscopico top a X nero e una gonna nera, corta quanto basta.
È ad Atene, a Roma, Budapest, Minsk o Teheran: la nebbia densa dentro cui è immersa sfoca gli spazi fisici, diventa segno di un luogo altro, di una periferia anonima e al contempo universale. Quella che la performer Roberta Lidia De Stefano e la regista Maria Vittoria Bellingeri evocano è una figura mitica, che racchiude e racconta, prima con il corpo poi con la voce, un passato e un futuro che giocano nel presente una partita già vinta. E per questo libera da ogni vincolo. Quindi Kassandra chiede sigarette al pubblico, si diverte a ricordare il passato incestuoso con il fratello Ettore, la passione corrosiva per Agamennone, i kink del prossimo cliente, canta. Non c’è colpa né vergogna nelle sue parole. I movimenti e la gestualità ricordano talvolta una drag queen, altre una sex worker, altre ancora figure indeterminate. Ogni singolo gesto diventa magnetico, cattura l’attenzione e la trasporta nel flusso della narrazione, la spinge fino a giustificare un improvviso rave che trasforma il Teatro Fontana nel Berghain. E Kassandra lo fa live, dal tettuccio della Smart, sotto l’effetto di luci strobo che frammentano l’immagine e il suono.

Ph. Serena Serrani

La dinamica del corpo è così intensa da svuotare di senso le parole, che si fanno eco di una nenia, del canto di un coro greco di cui si sceglie di ignorare il significato. Persino quando indossa il costume da Bugs Bunny, rivendicandolo come idolo infantile, al pubblico scappa una risata ma è bonaria, permissiva. Le viene concesso tutto. Per la prima volta.
Bellingeri e De Stefano hanno operato sul testo del drammaturgo franco-uruguayano Sergio Blanco un lavoro minuzioso di stratificazione letteraria, performativa, storico-sociale che emerge in tutta la sua espressione nella performance di De Stefano, seppur non nel contesto deputato al primo debutto dello spettacolo: nel maggio 2022, infatti, Kassandra è stato messo in scena all’Arena del Sole di Bologna con la produzione di ERT, ma nasce in realtà un anno prima come produzione indipendente da replicare soltanto per due sere al Campania Teatro Festival.
Ed è chiaro perché fosse stato pensato come produzione indipendente: Kassandra, per sua natura, non è credibile. È scomoda, oltraggiosa, sboccata ma reclama il diritto a esistere, così com’è. Non chiede applausi, non le interessano. Vuole esserci, nel senso heideggeriano del termine: un essere che per sua struttura è con gli altri. E persino esprimendosi in un inglese esperanto colorato da un accento dell’est-Europa, tutti capiscono cosa voglia dire, la sua voglia di raccontare. Soprattutto, il suo farsi testimonianza corporea di tutte le donne, attiviste e rivoluzionarie che hanno fatto la storia, ma a cui la storia ha negato il diritto d’esistenza. Abbiamo intervistato Roberta Lidia De Stefano per approfondire le dinamiche di costruzione dello spettacolo e del personaggio.

Kassandra, che nasce dal mito e quindi può essere considerato un “personaggio contenitore”, in questi 4 anni si è arricchita, o forse appesantita, di presente, della scena politica, della scena sociale? Come è cambiata?

In realtà sì e no. Il personaggio è nato in un momento post-pandemico, durante il quale si stavano conducendo riflessioni sugli stigmi sociali, in particolare su quelli più gravosi in assoluto: l’identità, la razza, la povertà, l’emarginazione. Questo ha giustificato episodi che hanno minato i diritti, soprattutto delle donne, ma è qualcosa che ha riguardato intersezionalmente tutto.
In quel periodo Maria Kolesnikova, che era l’oppositrice del regime bielorusso di Lukašėnka e che aveva fondato un partito politico costituito da tre front women, dopo uno speech in pubblico è stata portata via con un furgone ed è stata arrestata. Tutt’oggi si trova in carcere. Questo solo per essersi opposta al regime totalitario bielorusso. Con la regista Maria Vittoria Bellingeri, abbiamo quindi pensato che l’immagine di Kolesnikova fosse una figura universale, che rappresentasse molte donne dell’est. Poi ci siamo poste come riferimento anche le Femen, le Pussy riot – che comprendono attiviste, attivisti, persone trans – cioè tutte le attiviste che utilizzano il corpo in maniera performativa, non come una protesta formale da salotto ma come protesta fisica, reale.
Rispetto alla dittatura di Alice Weidel, ad esempio, c’è stata un’attivista del gruppo femen che si è truccata da Hitler, si è scoperta il seno, ha disegnato una svastica ed è stata prontamente portata via. C’è stata anche l’uccisione di Masha Amini, la donna iraniana che è stata picchiata a morte per non aver portato bene il velo e che ha dato vita alla rivolta delle donne iraniane “donna, vita, libertà”, ma anche alla negazione dello studio alle donne, alle bambine afghane. Insomma questi sono i modelli di performance, di street art, politica e poetica per Kassandra. Sono stati grandi fonti di ispirazione per la creazione di questo personaggio dal punto di vista del suo essere testimonianza.

Kassandra non può servirsi della voce perché non viene creduta, quindi il corpo è il suo strumento principale, come per le performer. C’è quindi un riferimento specifico per questo particolare trucco e costume scenico?

Sicuramente nel nostro immaginario si sono combinate tante cose. È vero che è un personaggio molto queer, perché lo dichiara anche il dramaturg Sergio Blanco nella scrittura. L’ha descritta come la figura di una donna in transito ma può essere una donna biologica o anche un uomo biologico, non è questo il punto. Lo dice: I’m not a man, I’m not a woman, it’s complicated, I’m Kassandra. È unica, una specie di punta di convergenza di un triangolo, la cui fisicità, un po’ ambigua e imponente, può suggerire il costume e l’aspetto di una drag queen.
Come riferimento interiore invece, abbiamo preso spunto dal documentario Soft White Underbelly, in cui un fotografo famosissimo in America andava a incontrare alcune prostitute con la sua automobile e le pagava. Loro pensavano di dover fare delle prestazioni sessuali mentre lui voleva soltanto fotografarle e parlarci. Queste donne raccontano la loro storia, la loro vita. Per il lavoro sul corpo mi sono ispirata a quella fisicità, a quel tipo di corpo poetico, iper femme o molto ambiguo, che non lascia capire veramente se sei una donna o un uomo, cosa sei: una figura completamente ibrida e con il suo diritto all’esistenza semplicemente in quella forma lì. Il trucco invece è ispirato al teatro kabuki, a livello della maschera, che chiaramente ha delle affinità anche con le maschere greche.
C’è tanta contaminazione, stiamo parlando anche di luoghi che in qualche modo sono confinanti. Sapevamo poi che Kassandra avrebbe cantato, come un flusso in piena, quindi abbiamo pensato di citare Klaus Nomi, un contraltista tedesco famosissimo morto di AIDS che si truccava più o meno in questo modo. Nella sua ultima apparizione fece The Cold Song di Purcell e cantava “Let me freeze, Let me freeze to death”. Erano gli anni Ottanta, l’AIDS non era un fenomeno di cui si poteva parlare, era uno stigma sociale e lui dichiarava che stava morendo di AIDS.

Ph. Serena Serrani

E lo spettacolo? Com’è cambiato negli anni e da città in città?

Lo spettacolo è sicuramente cresciuto, innanzitutto perché sono cresciuta io. Dal punto di vista fisico e canoro ho più dimestichezza, mi sento sempre più incollata a quello che faccio. Sono passati due anni prima che riprendessimo questo lavoro per il Festival Opening, prodotto da Emilia Romagna Teatro, ma per me è stato come se non fosse passato neanche un giorno. È stato un innamoramento per me, questo lavoro, questo testo, questa possibilità di entrarci veramente con tutte le scarpe.
Purtroppo ancora non l’abbiamo portato tanto al Sud, però adesso andremo a Roma, al Teatro Quarticciolo. Anche in situazioni di pubblico non esperto è sempre stato capito.  In alcune sere entra meglio la commedia, in altre la tragedia, in alcune sere c’è più equilibrio. Ho imparato a sentire il pubblico e a portarlo dove deve andare, e al tempo stesso anche io mi lascio trasportare da quello che mi trasmette.

C’è un minimo margine di improvvisazione, rispetto al testo o alle parti musicali?

Il testo è scritto da Sergio Blanco, pubblicato da QPress. Lui ci ha dato la grande disponibilità di poterlo aprire, di poterci lavorare. Di tutte le messinscene di Kassandra, forse la nostra è quella che mette insieme più elementi, quella più performativa. Quindi con Maria Vittoria Benigeri, che ha curato anche le scene, abbiamo deciso di far andare in giro Kassandra con una macchina, perché il progetto era nato veramente per essere fatto all’aperto. Poi il lavoro è stato introdotto in un circuito più ampio ma abbiamo deciso comunque di conservare la sua natura un po’ punk. Neppure la musica c’era nel testo di Blanco. Mi sono permessa di scrivere le canzoni, ispirandomi chiaramente al testo. Le musiche, i rave, sono tutte cose che ho voluto mettere io: Kassandra canta perché io stessa sono anche una cantante e per me è un mezzo espressivo importante.
E non è bellissimo il paradosso per cui canta una donna a cui si castra la voce? Proprio avere quel tipo di mezzo espressivo e di vocalità ha creato un gran bel conflitto. E quindi sì, c’è un margine di improvvisazione ma c’è perché nella padronanza di questo flusso, mi permetto di entrare in una relazione sempre diversa con il pubblico. Io sono proprio lì e non li mollo mezzo secondo e loro non mi mollano mezzo secondo. Sta nel ritmo, nel tempo.

Come mettete quella Smart sul palco?

Ci sono teatri in cui la macchina entra così com’è ma sono pochissimi. Quindi il comparto tecnico di ERT, capitanato da Gioacchino Gramolini con il direttore di scena, ha progettato una Smart, l’hanno tagliata e segata in tre parti. Un grande furgone porta la scenografia, principalmente questa macchina divisa in tre pezzi (senza motore) che viene trasportata all’interno del teatro, montata e assemblata. Funziona il quadro elettrico, dove è presente un apparato interno di audio, macchina del fumo, casse, spie, led, stretch.

Ph. Serena Serrani

C’è quindi la volontà di mantenere sempre il progetto originale.

Noi teniamo molto a questo, deve essere così. Tante volte ci siamo chieste se adattarlo, ma la macchina è tanto per Kassandra: è il carro di Apollo, è la cosa che la salva dalla notte, è la macchina della prostituta ma anche il luogo dove vive, è il luogo con cui si sposta.
È una clandestina, quindi corre in luoghi indefiniti, è il suo mezzo di trasporto ma all’occorrenza è il camerino dell’attrice, la camera da letto di Agamennone, anche la sua tomba. Quindi la macchina fa parte della drammaturgia, così come anche il Bugs Bunny e la parte in greco, fortemente voluta dalla regista, che è una critica di un certo teatro contemporaneo.

Ci sono anche altri riferimenti letterari, come la Cassandra di Christa Wolf?

Sicuramente Sergio Blanco ce l’aveva in mente. C’è una grande descrizione del mito e di derivazioni del mito. Però, come si lamenta Kassandra stessa, non c’è una vera scrittura classica del personaggio, solo intermezzi in altre opere. Anche in questo caso c’è un discorso intersezionale, artistico.
Kassandra è una sorta di medium tra il passato e il futuro. Me la immagino un po’ crocifissa, come nell’immagine finale di Milva che canta Kurt Weill: è attirata dal passato, ne ha nostalgia perché lo conosce. E nella memoria del passato è contenuta anche la premonizione del futuro: c’è una continua tensione verso l’eterno ritorno delle cose, per questo Kassandra è sempre viva. È una figura che esisterà sempre, nonostante tutto.
Poi è una donna, cioè una creatura fuori luogo, potrebbe la pazza del villaggio, la barbona sotto casa, che però ha quella scintilla nell’occhio di chi ha vissuto una vita sbalorditiva, che si ha voglia di conoscere. Kassandra in questo modo invita a non giudicare, a pensare veramente che nel presente non borghese, non capitalistico, l’umanità sia qualcosa di più complesso, di più stratificato, che non necessariamente deve connettere soltanto gli spazi ma anche il tempo.
Nel buio di oggi, Kassandra dovrebbe girare il mondo. E farà difficoltà a farlo, perché non dimentichiamoci che questo spettacolo stesso è una Cassandra.

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.