MATTEO BRIGHENTI e ELENA SCOLARI | ES: Sporcarsi le mani. Kepler-452 lo fa da sempre, la cifra del gruppo bolognese è entrare dentro la materia che vuole raccontare, conoscerla per capirla meglio, toccarla per riportarla, a modo loro, nell’ambiente che conoscono: il teatro.
Lo hanno fatto con chi abitava l’area che è poi diventata un negozio Eataly per Il giardino dei ciliegi – che li ha portati all’attenzione nazionale –, per Gli altri hanno parlato con un hater del web, così come per Album hanno lavorato con chi cura i malati di Alzheimer, e nel 2023 hanno passato due mesi con gli operai della fabbrica occupata GKN per costruire Il capitale. Ma non solo: i Kepler inseriscono nel cast alcune delle persone che hanno incontrato durante le loro indagini; nel primo e nell’ultimo degli spettacoli citati, in scena ci sono anche non attori che incarnano la loro storia, i veri protagonisti.
Per il loro ultimo lavoro, A place of safety – Viaggio nel Mediterraneo centrale, Enrico Baraldi e Nicola Borghesi hanno prima passato un periodo a Lampedusa e poi si sono imbarcati da Messina per cinque settimane a bordo della Sea-Watch 5, nave della ONG tedesca che soccorre i migranti in mare. Un bel coraggio, non credi?
MB: Sì, hai ragione: coraggio è la parola giusta. Coraggio nel dire sempre da che parte stanno. E non solo dichiararla, quella parte, ma farla vivere dentro di loro – il coraggio, etimologicamente, rimanda al cuore, il cuore che batte dentro le scelte – e poi dentro il loro teatro. Al dire, quindi, Kepler-452 fa seguire l’azione di intervenire: intervenire nella realtà. E provare a cambiarla. O almeno provare a innescare un cambiamento, non restare “con le mani in mano”, per ricollegarmi alla tua espressione figurata. Per non essere complici, in definitiva, del sistema capitalistico, che tutto vede, guida e distorce, che si parli di economia, web, salute e ora di migrazione.

Baraldi e Borghesi fanno politica, non hanno paura di farla e lo rivendicano, arrivo a dire, proprio portando in scena i protagonisti reali delle storie che raccontano. Politica, quindi, intesa come attenzione, ascolto e cura del racconto delle vite delle persone, lì dove il conflitto sistemico è più forte ed evidente. Ovvero, ai margini, ai confini, dove molti compiono le più atroci nefandezze – e mi torna in mente Creonte con Antigone, di cui abbiamo parlato per la Trilogia dell’Assedio del Teatro dei Venti.
È una premessa doverosa, quella che facciamo, non tanto per “mettere le mani avanti”, quanto per dirci a vicenda che abbiamo ben presente da dove viene A place of safety, quali ragioni, quali prospettive guidano lo sguardo di Baraldi e Borghesi. Riconosciamo la partenza. Adesso il punto è interrogarci su dove siano arrivati, e soprattutto come, perché siamo d’accordo che la questione al centro dello spettacolo è di “capitale” importanza.
ES: La scena è l’Arena del Sole di Bologna, dove lo spettacolo ha debuttato in prima assoluta. Il grande palco è occupato dalla fiancata bianca della nave (scene di Alberto Favretto), moduli di metallo a formare un metaforico capodoglio bianco: Achab insegue Moby Dick per trovare il senso dell’esistenza e chi sale sulle navi delle ONG lo fa per salvare vite altrui e dare così senso alla propria.
Anche questa volta Nicola Borghesi affianca in scena cinque non attori, per Sea-Watch lavorano Miguel Duarte, un fisico portoghese ora capo per le missioni di soccorso, Giorgia Linardi, giurista e portavoce della ONG tedesca, e José Ricardo Peña, elettricista statunitense; per Emergency, invece, Floriana Pati, un’infermiera che ha lasciato il lavoro in ospedale, Flavio Catalano, ex marinaio militare. Ognuno porta sé stesso sul palco, con le proprie testimonianze e con il proprio ruolo a bordo.
E qual è il ruolo di Borghesi? Sulla nave era soprattutto osservare e prendere appunti. Infatti, dal momento in cui salpa, non molla il suo taccuino e ascolta i monologhi dei cinque compagni d’equipaggio. Lascia loro la scena, molto più che in passato, perché diano la temperatura dello spettacolo.

E su questo, a mio avviso, si scatena la prima riflessione: sebbene non professionisti, tutti e cinque hanno un preciso carattere drammaturgico, compiono azioni codificate secondo un linguaggio lontano dalla spontaneità, pur portando il loro vissuto e i loro pensieri. E così si crea uno strano cortocircuito, per cui le loro cronache, le descrizioni di protocolli e meccanismi sono ‘dette come una parte’, ma il risultato complessivo è poco teatrale, perché non c’è vera mediazione interpretativa. Un esito paradossale, non so se sono riuscita a spiegarmi…
MB: Sì, ti seguo. Voglio riprendere la questione delle mani, con cui hai aperto il nostro dialogo critico. Mi riferisco a Giorgia Linardi: a un certo punto, guardandosi le mani, e poi mostrandocele, si chiede e ci chiede cosa fare di questa storia. Il brano è anche nel trailer, segno che è considerato un momento nodale. Quasi le alza, per far vedere che ora sono bianche, pulite, combattive, ma presto diventeranno anche nere, sporche, arrese, in cerca di aiuto.
La domanda che lei si fa è la stessa che Kepler-452 si pone più volte: cosa fare delle vite che passano sulla Sea-Watch? Come raccontarle? La risposta, per così dire, è lo spettacolo stesso, cioè l’essere riusciti a realizzarlo, a portare una nave a teatro come Fitzcarraldo di Herzog fa attraverso la montagna. A mio avviso, invece, la risposta avrebbe dovuto essere nello spettacolo, e dunque nella dinamica di relazione tra gli elementi che ne compongono la grammatica: testo, interpreti, ambientazione, regia.
Mi sento, quindi, di poter affermare che hanno operato una trasposizione dei materiali raccolti senza un reale adattamento, senza una traduzione scenica propriamente detta. Ne risulta, così, un montaggio di interventi, di monologhi frontali al pubblico, tenuti insieme da una scena imponente, che però non ha altra funzione che quella di eco del contesto delle storie e di fondale per la proiezione dei video di Enrico Baraldi, e di dati, numeri, grafiche. E il pensiero non può non andare allo studio di un programma televisivo di approfondimento. Abbandonando gli strumenti del teatro, la narrazione conduce inevitabilmente alla cronaca.

ES: Ci si potrebbe chiedere se il fatto stesso di essere in un teatro renda teatro quello che avviene sul palco. Tecnicamente forse sì, ma artisticamente no. Voglio essere molto sincera: proprio perché A place of safety è chiaramente un atto politico, come dici, non sono certa che le categorie teatrali siano quelle giuste per analizzarlo. Ma, altrettanto, non sono certa che questo rappresenti un aspetto positivo. E cioè: noi critici stiamo dicendo che ci sono dei difetti, teatralmente parlando, ma forse i Kepler ne sono consapevoli e hanno scelto di non realizzare “uno spettacolo”. E se così fosse, questo non è un passo indietro dell’arte prima e del teatro poi? La dichiarazione che, ora, in questo momento, conti di più la cronaca che non la sua metaforizzazione? Quando invece avremmo bisogno di trasfigurare notizie che già conosciamo, per capirne il significato profondo.
Qui tutti si rivolgono quasi sempre direttamente al pubblico e raramente interagiscono tra loro, è come se porgessero ricordi ed episodi, spesso tragici, a sostegno di una posizione. E la posizione dello spettacolo è che non ci sono migranti in scena, perché era impossibile scegliere tra le tante storie dei salvati (alcune le accenna comunque Borghesi), ma soprattutto perché questa vorrebbe essere la storia dei sommersi.
MB: Non è la prima volta che Kepler-452 lavora su e con corpi assenti: in F. Perdere le cose, racconto di una biografia incontrata ai margini del tessuto urbano, non fu possibile portare in scena il protagonista. A place of safety vuole rappresentare il concetto di Ricerca e soccorso (SAR – Search and rescue) nel Mar Mediterraneo, anche se il titolo rimanda al “porto sicuro”, e dunque il luogo in cui il soccorso finisce. Ma qui, mi verrebbe da dire, la stessa nave, le stesse persone che la vivono, sono un luogo di rifugio, a maggior ragione in un’Italia, ma anche in un’Europa, che ha fatto della “lotta agli sbarchi” la sua bandiera.
Solo che in teatro è l’agire che testimonia il problema che ci si pone, non è semplicemente il porsi domande – il cosa ce ne facciamo? –, quelle vengono prima, sono il presupposto del lavoro, ma non possono essere anche il suo svolgimento. In teatro la forma documentaristica ha bisogno di uno scarto artistico, sono d’accordo con te, un varco attraverso cui possa salire anch’io sulla nave. Ma qui la scena è pura descrizione, come la stessa posizione di Borghesi con il taccuino in mano, a mimare, anche lui, la parte di sé stesso.
Allora, c’è la passerella, c’è il binocolo, c’è il salvagente, però non c’è il mare: è tutto dato, c’è poco o niente di realmente evocativo. La rappresentazione usa qualcosa per dire qualcos’altro. Il dato di fatto resta tale, e dopo un po’, sovraccarico di informazioni, non lo segui nemmeno più.

ES: Parliamo del pubblico, della reazione, prevedibile, di grande solidarietà e gratitudine per aver assistito a un lavoro difficile, lungo due ore abbondanti, in cui più che di migranti si parla di noi, di chi dovrebbe accogliere, in termini anche duri, ma che io non ho sentito come “problematici”. Ma non è – dico una cosa impopolare – facile essere solidali e dirsi colpevoli verso chi soffre e molto meno facile essere solidali con chi si sente pari?
MB: Gli applausi finali sono un fatto. L’Arena del Sole, piena di giovani, tutti in piedi ad applaudire, è un fatto. Bene, ma che cosa stavano applaudendo? Me lo sono chiesto, e me lo chiedo ancora: Borghesi aveva appena finito di dire dal palco che la responsabilità ultima dei morti in mare è nostra, anche se votiamo a sinistra, aggiungo io, perché il memorandum di accordo con la Libia l’ha firmato Marco Minniti, ex ministro dell’Interno del PD. Forse non l’hanno capito? No, più probabilmente A place of safety, da essere la nave, alla fine è diventato il teatro stesso dove lo spettacolo si è dato. Allora, azzardo che il pensiero comune possa essere stato, più o meno: noi che siamo qui non siamo come gli altri, di cui parla Borghesi. Noi non siamo colpevoli: lo spettacolo ha prodotto una catarsi delle nostre responsabilità, personali e collettive.
Io ho applaudito allo sforzo, all’impegno e al coraggio profusi, ma non ho provato una simile reazione di adesione totale e indiscriminata all’esito del lavoro in scena. Mi sono allontanato presto, un po’ alla chetichella, per non essere visto e, quindi, sentirmi sollevato dal continuare al mostrarmi plaudente. E sai perché? Perché, ho pensato, se non applaudo tutti penseranno che sono un razzista.
ES: O che sei di destra. Io sono in difficoltà a dire quale sia, per me, il precipitato di questo lavoro. Al di là delle informazioni, dei duri promemoria di sciagure, delle crudeli scelte cui “i salvatori” sono costretti – già benissimo ‘cantate’ ne L’abisso di Davide Enia – mi sembra che i punti più interessanti e su cui vale la pena pensare siano due: uno è il pensiero di Miguel che si è chiesto se tutto questo lavoro umanitario non sia fatto più per i salvatori che per i salvati, e l’altro è nell’ultimo monologo di Borghesi, in cui dice che queste persone sono “la futura umanità”. Questo è un punto cruciale. E, manco a dirlo, lo scriveva già Pasolini nel 1964 (sessanta anni fa) nella sua poesia Profezia (poi Alì dagli occhi azzurri): «Sbarcheranno a Crotone o a Palmi, a milioni, vestiti di stracci, asiatici, e di camicie americane».
Ma noi non lo abbiamo ancora capito.

MB: Per me, siamo di fronte a una sorta di “documentario mimato”. Il teatro solitamente è fatto per portare il dentro fuori, mentre Kepler-452 fa l’inverso, porta il fuori dentro. In questo caso, il fuori è rimasto sé stesso, non è andato oltre. Gli attori-mondo avrebbero dovuto aprire gli orizzonti, e invece li hanno chiusi. In fondo ai dati, alle sigle, ai comandi, alle storie, quello che mi è mancato, in definitiva, è il teatro. Tanto che in questo nostro scambio, forse per la prima volta, abbiamo parlato più di idee, concetti, intenzioni, quasi non guardando al palcoscenico, ai corpi in scena. Perché non ce n’erano, c’erano solo funzioni di una narrazione sempre “in battere” sullo stesso tasto, invece che “in levare”, arrivando dove la cronaca che passa incontra la poesia che rimane.
ES: Mettere in discussione i paradigmi morali, i modelli etici, costringere a interrogarsi. Questo è, a mio avviso, il compito di un teatro vibrante.
A PLACE OF SAFETY
Viaggio nel Mediterraneo centrale
ideazione Kepler-452
regia e drammaturgia Enrico Baraldi e Nicola Borghesi
con le parole di Flavio Catalano, Miguel Duarte, Giorgia Linardi, Floriana Pati, José Ricardo Peña
con Nicola Borghesi, Flavio Catalano, Miguel Duarte, Giorgia Linardi, Floriana Pati, José Ricardo Peña
assistente alla regia Roberta Gabriele
scene e costumi Alberto Favretto
disegno luci Maria Domènech
suono e musiche Massimo Carozzi
consulente per il movimento Marta Ciappina
progetto video Enrico Baraldi
consulente alla drammaturgia Dario Salvetti
direttrice di scena Alessia Camera
aiuto macchinista e attrezzista Aura Chiaravalle
capo elettricista Lorenzo Maugeri
tecnico audio Andrea Melega
tecnico video Salvatore Pupù Pulpito
sarta Elena Dal Pozzo
assistente alla regia volontario e video editor Alberto Camanni
scene costruite nel Laboratorio di Scenotecnica di ERT
video dello spettacolo Vladimir Bertozzi
foto di scena Luca Del Pia
si ringrazia Giovanni Zanotti per il fondamentale contributo alla drammaturgia
produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro Metastasio di Prato, CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, Théâtre des 13 vents CDN Montpellier (Francia)
in collaborazione con Sea-Watch e EMERGENCY
Il progetto gode del sostegno del bando Culture Moves Europe, finanziato dall’Unione Europea e dal Goethe-Institut
Teatro Arena del Sole, Bologna | 28 febbraio e 1 marzo 2025