ELENA SCOLARI | Una nuova vetrina teatrale si apre ed è sempre una festa. È la regione più piccola d’Italia a inaugurare la prima Vetrina delle compagnie teatrali e di danza della Valle d’Aosta, appena svoltasi proprio nella città di Aosta dal 28 al 30 aprile scorsi e realizzata in collaborazione con Città d’Aosta, Fondazione Piemonte dal vivo, Agis, BCC Valdostana.
Un incontro guidato da Graziano Melano (membro della Commissione teatrale della Valle d’Aosta ed ex direttore artistico della Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani di Torino) e da Alessia Favre (dirigente Struttura Attività Culturali Valle d’Aosta) ha aperto la tre giornate con le testimonianze di alcuni nuclei artistici e dando le coordinate dei “segni particolari” del teatro delle cosiddette ‘Terre alte’. Nella fattispecie della Valle d’Aosta, oltre al ragionare sul senso del fare cultura nei territori e nelle comunità di montagna – aspetto comune ad altre zone italiane – c’è la vicinanza con la Francia, che significa sia una comunicazione facilitata rispetto alla distribuzione sia l’abitudine alla lingua francese e quindi al doppio allestimento delle produzioni.
Questo nuovo sentiero valdostano parte da una scatola: una stanza cubo dentro la quale 24 spettatori per volta (8 su 3 lati del cubo) spiano attraverso una piccola finestrella trasparente e ascoltano la voce della Fedra inscatolata tramite la cornetta di un vecchio telefono, appesa alla parete esterna con un gancio. Che nostalgia.
Alexine Dayné di framedivision è Fedra la luminosa, anche se di luminoso ha ben poco, in realtà, e confida i suoi pensieri spezzati, in tante voci, numerate, alla sua cornetta, collegata con le nostre. Cogliamo la donna imprigionata nella stanza mentre dorme, coricata su un fianco le vediamo una cicatrice sulla schiena fatta di nastro isolante nero, un po’ rammendo frankensteiniano, poi si desta e ha inizio il suo monologo frammentato.
Il testo – di Dayné, come regia e drammaturgia – è un florilegio di suggestioni per immagini, spesso di ispirazione poetica, che sostanzialmente girano intorno alla sofferenza. Si rivolge a tutti quelli che stanno fuori e costringono lei, sembrerebbe, a stare dentro, perché il suo dolore le impedisce di lasciare quella camera, in cui una parete è ricoperta di copie della stessa foto di lei bambina, uno spazio dove c’è un vecchio giradischi che suona musica anni ’80 e pochi altri oggetti, uno specchio e una macchina fotografica, entrambi strumenti che ancora riproducono il sè, lo moltiplicano creando una via ossessiva dalla quale diventa sempre più difficile affrancarsi.
Dayné usa quasi sempre un tono di voce acuto e in falsetto, alla lunga irritante, è proprio necessario farlo per rendere flebile il personaggio? Lo spettatore può anche appendere il telefono e interrompere l’ascolto ma è una libertà a metà, come a metà resta il rapporto tra un personaggio che vuole dire il suo problema e non si cura che tu lo voglia sentire, infatti Fedra alla fine trova da sola la strada per uscire, indipendentemente da quello che può essersi creato con il pubblico.
Strettissima e dinamica è invece la relazione con il pubblico in Quintetto della compagnia Les 3 plumes: Marco Augusto Chenevier è lo spiritosissimo chef che cerca di cucinare uno spettacolo di danza dedicato a Rita Levi Montalcini, nel quale c’erano altri quattro interpreti (ecco perché Quintetto) che per ragioni varie non sono però arrivati in teatro e quindi bisogna trovare tecnici e attori tra le persone in platea.
Lo spettacolo è un pretesto, sia quello raccontato nella finzione sia quello che viene effettivamente messo in scena. Il primo, dedicato alla scienziata italiana Premio Nobel per la fisica con i capelli turchini, è un’idea balzana e piuttosto assurda che ben si presta allo scopo di creare da subito un piano surreale, il secondo è un lavoro che si basa sul ribaltamento dell’attenzione del pubblico dall’attore a come l’attore interagisce con i malcapitati scelti in sala per fare i tecnici luci, i fonici, i performer. Chenevier è bravissimo, è veloce, è ironico, spietato il giusto con l’inadeguatezza dei coinvolti sul palco, paziente ma risoluto. Si ride moltissimo, la verve non si esaurisce. Certo, c’è una quota di imprevedibilità dell’andamento generale data dalla “resa comica” dei casuali scritturati sera per sera, il che influisce anche sulla durata, forse un po’ generosa (si arriva a quasi due ore). Quanto è complicato capire e memorizzare cosa sono una pioggia o un corridoio, parlando di fari?
Quintetto si regge sulla capacità di Chenevier, sulla sua abilità nell’inserire, buttati là senza che mai siano un piagnisteo, i problemi economici ed esistenziali che incontra chi vuole vivere di teatro. O di danza. Ecco, la danza rimane alla fine solo sullo sfondo, accennata. E, finalmente, senza mai prendersi troppo sul serio.
Anche Replicante Teatro offre una parodia, elegante ed esteticamente curata, di Cappuccetto rosso. Si attraversano le versioni di Perrault e dei Fratelli Grimm, la prima senza alcun lieto fine, la seconda con l’introduzione del cacciatore che sarà il salvatore di nonna e nipotina, a discapito del lupo. Tre attori in scena, Andrea Damarco, Alexine Dayné e Loredana Iannizzi discutono tra loro delle caratteristiche della fiaba, e decidono di inventarne una terza versione.
E qui sbagliano. I primi due racconti sono ben accompagnati da una scenografia attenta, semplice e raffinata, la vena di dileggio rimane leggera, i diversi punti di vista della mamma e del lupo sono chiari, la recitazione di Damarco particolarmente apprezzabile, nel terzo invece – concentrato sulla prospettiva di Cappuccetto – ci si ingarbuglia in una lunga sequenza psicanalitica in cui nella pancia del lupo la bambina si confronta con l’inconscio e le paure, appesantendo non solo lo stomaco del lupo.
Di un rapporto tra madre e figlia si parla anche in Aliens di Curious industries: Marta McIlduff, nata a Belfast da padre irlandese, e sua madre, Alessandra Celesia, italiana, partono insieme per un viaggio dall’Irlanda del nord alla Sicilia, con registratore e videocamera. È un viaggio che fanno attraverso i confini, i paesi, le lingue, le loro diverse generazioni. Toccano la geografia dei loro sentimenti, spostandosi lungo le tante strade che hanno imboccato. C’è dialettica vera, qui: le due donne dialogano, si dicono cose difficili, si scontrano, si spiegano e si confessano, si conoscono, imparano a capirsi.
In scena ci sono un tavolo (una regia dove il bravo tecnico audio/video muove filmati e suoni), una scrivania, un grande schermo, un paio di sedie. Nient’altro. Soprattutto c’è la sincera e profonda presenza di Marta e Alessandra che, con una trasparenza commovente, dicono quello che non sopportano l’una dell’altra, buttano fuori i fastidi, le rabbie, quello che è stato doloroso affrontare, proprio perché causato dalla persona più carnalmente vicina. Il testo è scritto da entrambe ed è un esempio raro di come in teatro si possa andare davvero a fondo dei grumi umani, delle relazioni, schiaffeggiando le paure e affidandosi a una energia emotiva che fa della schiettezza la sua forza.
Aliens è un racconto-documentario in cui i materiali registrati durante il viaggio si integrano con grande armonia alle voci e ai corpi delle due donne in scena, entrano nella narrazione discretamente, sempre potenziando o accompagnando, mai sovrastando.
McIlduff e Celesia cercano le proprie radici intrecciandole con quelle degli altri. Cosa significa essere nata in un paese, essersi innamorata di uno straniero ed essersi trasferita, aver fatto trasferire più volte i propri figli, dov’è casa? In quale lingua ci si innamora e in quale lingua si litiga? Quando si impara a definirsi distinguendosi da chi ti ha dato alla luce, come succede?
Aliens è uno spettacolo in cui ci si fanno tante domande e si viaggia, dentro e fuori, per trovare le risposte. Ci sono inquietudini, sensi di colpa, insoddisfazioni, errori, egoismi, convinzioni erronee, rimorsi, grandi risate, paure, chilometri, serate di pioggia e cameriere molto acute. C’è, insomma, un sacco di vita, in questo lavoro.
Chiude la nostra presenza ad Aosta la nuova produzione di Palinodie, Come noi: la storia di Gloria, una donna maltrattata dal marito. Lo spettacolo è costruito intorno alla sua figura, unica protagonista, in una scena riempita di scatoloni che riportano un orario e di vestiti che vengono continuamente messi nei cartoni o spostati da un cartone all’altro. L’attrice, Silvia Pietta, brava, convincente e decisa, ha un gran daffare a spostare scatole, a ripiegare abiti, a cambiare di posizione tanti microfoni ad asta che raccolgono a sua cronaca, quasi non potesse trovare una sosta in cui dedicare tempo e spazio a se stessa. Gli orari sui cartoni forse alludono ad appuntamenti che scandiscono una vita mai indipendente?
La scrittura di Verdiana Vono è vivace, scorrevole, si lascia indossare con disinvoltura dall’interprete, la regia di Stefania Tagliaferri introduce molti segni, alcuni un po’ scolastici e non tutti indispensabili ma c’è senz’altro una crescita nella sicurezza formale di Palinodie. Come noi mette però lo spettatore davanti a una posizione unica, indiscutibile, quella della donna protagonista, con la quale è d’obbligo solidarizzare. E ci mancherebbe. Ma non c’è dialettica. Il personaggio è dritto, dall’inizio alla fine, gli manca un’evoluzione drammaturgica più articolata e meno risolta che insinui un germe di riflessione più approfondita. È proprio attraverso la dialettica, invece, che si entra in rapporto con il mondo, trasformandolo.
Se di questo argomento si vuole parlare attraverso l’arte – e segnatamente attraverso il teatro – c’è bisogno di indagare la parte oscura, c’è bisogno di interrogare la società sulla condizione maschile, sulla loro tragica difficoltà a relazionarsi con le donne. I motivi di un fenomeno esistono, è su questi che dobbiamo investigare. È chiaro che l’intento di Palinodie è quello di spingere le donne a parlare, a unirsi per essere più forti (vittima, figlia, avvocata), il lavoro vuole sottolineare il sacrosanto sostegno che le donne maltrattate devono avere, benissimo, ma se si vuole provare a mettere un seme nuovo che aiuti tutti a uscire da questo pantano è indispensabile entrare nella stanza dei maschi.
Ricordiamo che la compagnia Palinodie è ideatrice del progetto MAB (Maison des Artistes Bard), un nuovo centro di residenza dedicato alla creazione degli spettacoli e destinato a diventare casa per chi si occupa delle arti, situato nella bellissima cornice del Forte di Bard.
Complessivamente, questa prima edizione della vetrina Valdostana ha presentato spettacoli compiuti, interessanti, sintomo di una realtà teatrale giovane e fertile: si respira aria buona, in Valle d’Aosta.
FEDRA LA LUMINOSA
concept Alexine Dayné e Andrea Damarco
testo, drammaturgia e regia Alexine Dayné
con Alexine Dayné
compagnia framedivision
QUINTETTO
coreografia e drammaturgia e danza Marco Augusto Chenevier
Compagnia Les 3 plumes
CAPPUCCETTO ROSSO
concept Andrea Damarco e Lilliana Nelva Stellio
testo, drammaturgia e regia Andrea Damarco
con Andrea Damarco, Alexine Dayné, Loredana Iannizzi
Compagnia Replicante Teatro
ALIENS
di e con Alessandra Celesia e Marta McIlduff
compagnia Curious industries
COME NOI
di Verdiana Vono
regia Stefania Tagliaferri
con Silvia Pietta
produzione Palinodie
VETRINA DELLE COMPAGNIE TEATRALI E DI DANZA DELLA VALLE D’AOSTA
Regione autonoma Valle d’Aosta; Assessorato Beni e attività culturali, Sistema educativo e Politiche per le relazioni intergenerazionali; Dipartimento Soprintendenza per i beni e le attività culturali; Struttura attività culturali
in collaborazione con Città d’Aosta, Fondazione Piemonte dal vivo, Agis, BCC Valdostana
Aosta, 28-30 aprile 2025