RENZO FRANCABANDERA | A chiudere l’edizione 2025 di Danza in Rete OFF – sezione del festival vicentino diretta da Alessandro Bevilacqua che da anni si distingue per l’attenzione alla giovane coreografia e alle forme ibride della scena contemporanea – raccontiamo un duo di artisti di assoluto interesse e che hanno in comune un’idea di spazio coreografico crossmediale, ovvero Michele Ifigenia Colturi e Simone Zambelli.
Colturi sviluppa da alcuni anni (lo avevamo intervistato a Anghiari qualche anno fa) un linguaggio coreografico che prende le mosse da una tensione irrisolta tra le forme originarie, archetipiche, del teatro e la loro sopravvivenza nel presente. In Citerone e Cuma, coreografie presentate insieme qui a Vicenza, ma anche in altre piazze italiane, non si assiste a una semplice trasposizione contemporanea di figure mitiche, ma a una loro dissezione strutturale: ciò che resta del mito, nella sua visione, è meno la narrazione che lo sostiene, e più l’oscillazione tra corpo, tempo e rito, che la danza cerca di riprodurre come disturbo, come perdita o come eco.
Le Baccanti di Euripide è, per sua natura, un testo instabile: Dioniso entra in scena travestito, scardina l’ordine, stravolge i ruoli. In Citerone, ospitato nello spazio del palco del Comunale di Vicenza, Colturi isola la componente corale e la riduce drasticamente: due danzatrici diventano il sintomo di un’assenza, non più veicolo della voce collettiva, ma corpo risonante di un trauma. L’adozione di abiti contemporanei non è mai dichiaratamente provocatoria, ma costruisce un attrito iconografico che, tuttavia, non violenta l’icona statuaria di partenza: le scarpe da trekking e i pantaloni in pelle granata spezzano l’immaginario atteso.
Se da un lato generano l’urto simbolico con il riferimento classico, dall’altro lato continuano a rievocarlo, richiamando pause da statuaria classica, tanto che quasi si ha l’impressione che l’estasi nell’occhio del coreografo si completi più nelle posizioni statiche che in quelle dinamiche di raccordo fra la posa bloccata precedente e quella che seguirà. L’intenzione sembra quella di mostrare un coro in via d’estinzione, svuotato della sua funzione cerimoniale, trattenuto in un moto reiterativo.
La scena finale, con le due donne sedute a mangiare un panino, produce un effetto straniante che si colloca a metà tra il disincanto e la pausa dei muratori sui grattacieli di New York o la solitudine pittorica hopperiana: un’azione che porta il compimento del rito in una dimensione muta e solitaria, quella del nostro tempo, del panino comprato al super e mangiato in solitudine, anche quando si è in compagnia. Mancavano giusto i cellulari e il relativo scroll. Quanta distanza da quella sincronia classica fatta di furori dionisiaci.
Se Citerone si gioca sul piano della molteplicità che si riduce, Cuma affronta il tema opposto: l’unicità del corpo profetico, posseduto, attraversato da una voce non sua.
Qui il lavoro si fa più preciso e drammaturgicamente compatto. La figura della Sibilla Cumana è trattata come soglia incarnata tra umano e divino, dove la danza diventa non tanto espressione, quanto contrazione, deformazione, attraversamento. Il corpo si muove in uno stato di tensione permanente, come se fosse sottoposto a una forza che lo eccede. Non c’è racconto, né simbolo chiaro: il gesto anche in questo caso è spesso interrotto e bloccato in pose statuarie, spigoloso, trasfigurato da un’illuminazione che accompagna e trasforma, più che illustrare. La luce lavora per stratificazioni visive che traducono la metamorfosi della Sibilla, da figura ieratica a presenza inquietante. La voce profetica, mai esplicitata, diventa qui gesto non verbale, espressione di un sapere che non può essere comunicato.
Si ode in sottofondo una traccia sonora accelerata. Verrebbe quasi voglia di attivare il registratore e mandarlo a velocità ridotta per raccogliere l’indecifrabile messaggio. Chissà che poi non si resti delusi, scoprendo che si tratta, magari, di un menù da fast-food, come capitò a quello sprovveduto turista americano che volle farsi tatuare una frase profetica durante il suo viaggio in Asia, salvo scoprire poi che il tatuatore con i suoi ideogrammi non aveva impresso nella carne alcuna verità rivelata, ma semplicemente la scritta pollo alle mandorle. D’altronde, è tipico della nostra società affidarsi a rivelazioni low cost, a sbrigative risoluzioni del problema ottenute scrollando qualche social. Quindi, meglio non sapere quale sia il messaggio che vuole affidarci la sibilla nel 2025.
Nel finale della rappresentazione, la figura corporea, presente, evapora e viene sostituita dalla proiezione di una donna apparentemente asiatica, invecchiata e vestita, proiettata in piccolo a fondale, che dopo poco dissolve nel buio. Questo passaggio resta un po’ oscuro, ma bene che il messaggio resti “sibillino”.
Il lavoro coreografico di Colturi, per quanto mi riguarda, è interessante. Nel suo riferirsi al paradigma classico si struttura come un tentativo di dare forma a un’origine impossibile da ricostruire: né Citerone, né Cuma propongono una ricomposizione del mito, quanto, piuttosto, una sua implosione, raccolta di cocci, di figure che entrano in una specie di acceleratore nucleare contemporaneo.
Colturi sembra interessato a ciò che resta dopo che la forma è andata in frantumi. In questo senso si avvicina alla ricerca quasi mistica di Claudia Castellucci che non ai processi di attualizzazione più narrativi presenti nella scena italiana. Non c’è racconto, non c’è psicologia: ciò che conta è l’intensità del corpo, la sua esposizione a un sapere pre-linguistico, a un archetipico pre-verbale, un rimando al dionisiaco nicciano che ancora non trova lo scarto violento alla Nitsch, ma è uno spazio, questo, che volendo si legge in controluce.
Lavorare con il mito significa, in questo caso, interrogarne la possibilità di sopravvivenza, non già come repertorio, ma come forma di conoscenza. I riferimenti classici non sono evocati per costruire continuità, ma per segnare una distanza che il corpo tenta di colmare, senza garanzie di riuscita. Proprio in questa tensione si gioca la forza – e i limiti intrinseci e voluti – del lavoro di Colturi: una pratica coreografica che non vuole spiegare, ma esporre il corpo a una memoria incerta, che affiora per frammenti, smottamenti, gesti interrotti.
Restiamo negli spazi del Comunale di Vicenza per assistere, nel più intimo Ridotto a Lacrimosa di Simone Zambelli che era stato già presentato qui in una versione embrionale in occasione della NID Platform a ottobre scorso: la creazione si inserisce come esito emblematico di un percorso artistico in cui i confini tra danza e teatro vengono sistematicamente interrogati e oltrepassati.
Il lavoro, ispirato a vicende personali, è incardinato sulla similitudine fra la Morte del cigno di Fokine/Saint-Saëns e la fine dell’amore: nello spettacolo, tuttavia, si assume il paradigma del cigno morente non come allegoria dell’estinzione romantica, ma come dispositivo semiotico di decostruzione dell’immaginario amoroso, arrivando nel mezzo di una riflessione sulla ricerca personale dei segni dell’artista e posizionandosi dentro un fecondo e interessante spazio di physical theatre verso cui le più recenti esperienze del talentuoso performer ne stanno spostando l’orbita di gravitazione semiotica.
Zambelli, il cui background formativo intreccia coreutica accademica e studi universitari in discipline dello spettacolo, ha costruito negli anni una grammatica espressiva fondata sulla fusione di corpo, voce, testo e spazio performativo, come dimostrano anche le sue collaborazioni con Emma Dante (Misericordia e il suo clamoroso successo) e le precedenti con Balletto Civile, fino al duetto con Filippo Porro intitolato Ombelichi tenui, che avevamo commentato in occasione di una replica assai bella nello spazio pubblico rovigotto in occasione del festival Opera Prima, dove il delicato connubio di azione coreografica e drammaturgia fisica restava decifrabile in modo chiaro.
In Lacrimosa, questa cifra si estremizza in una composizione scenica che si avvale di frammenti testuali (scritti dall’autore stesso), ma che è prima di tutto affidata alla carica iconica del corpo in scena: un corpo spoglio, bagnato, prostrato, che dismette la retorica della bellezza classica per attestarsi su una dimensione residuale, a tratti scabrosa, sempre anti-eroica.
Nel passaggio dentro lo spazio intimo di una casa dalle mura franate – da figura mitopoietica a materia vulnerabile – si consuma il nucleo simbolico dell’opera: la morte dell’amore come smascheramento della retorica della completezza. Il riferimento al romanzo L’animale morente di Philip Roth – “Tu sei intero, e poi ti apri in due” – non è citazione ornamentale, ma chiave ermeneutica di un lavoro che si fonda su una crossmedialità spinta e voluta, che ricorre al gesto danzato in alcuni opportuni momenti, ma senza sforzarli.
Zambelli sembra negare la logica della ricomposizione catartica per concentrarsi, invece, sul processo di disarticolazione, sulla condizione di torpore e sospensione che segue la frattura affettiva. Il corpo non rinasce: si ridefinisce attraverso la fatica del permanere. Chiunque abbia vissuto questa esperienza riesce a distillare i momenti che la psiche attraversa, come conferma a fine spettacolo una spettatrice che interviene durante l’incontro con l’artista, la dramaturg Cinzia Sità e la light e visual designer Alice Colla.
La scena è una soglia: non il luogo del ritorno o del volo, ma quello dell’inerzia e della sedimentazione. L’ambiente domestico evocato – e non rappresentato in modo mimetico – diventa matrice semiotica della perdita. Qui l’assenza non è vuoto, ma affaccendamento, azione ripetitiva e senza scopo, che reitera il dolore nel tentativo di esorcizzarlo. In questo senso Lacrimosa partecipa pienamente dello spirito curatoriale di Danza in Rete OFF, che cerca nella giovane creazione non semplici esercizi di stile, ma forme di pensiero incarnato, dispositivi che interrogano i codici e la memoria del corpo scenico.
Zambelli, in questa tappa, compie un passo ulteriore nella sua ricerca sulla performatività del trauma, sulla scena come spazio memoriale e affettivo. Il suo approccio si allontana dalla narrazione, per aderire a un’estetica del frammento e dell’interruzione, dove il gesto non illustra, ma trattiene, il testo non spiega, ma si accosta al corpo come materia coesistente. È in questa tensione fra coreografia e drammaturgia che Lacrimosa trova la sua forza: non nell’esibizione dell’emozione, ma nella costruzione di un tempo scenico che la interroga, fino a svuotarla.
CITERONE
coreografia Michele Ifigenia Colturi
suono Tarek Bouguerra
produzione AiepAriella Vidach
CUMA
coreografia Michele Ifigenia Colturi
suono Tarek Bouguerra
produzione Anghiari Dance Hub/Aiep Ariella Vidach
LACRIMOSA
di e con Simone Zambelli
frammenti scritti e sonori di Simone Zambelli
dramaturg e assistente coreografa e di scena Cinzia Sità
disegno luci e video mapping Alice Colla
musiche Cher, PJ Harvey and Nick Cave, Prince, Camille Saint-Saëns
un ringraziamento per il contributo musicale di Mario D’Acunto
un ringraziamento all’assistenza coreografica di Arabella Scalisi
produzione sostenuta da C&C Company e Sanpapié
in coproduzione con Danza in Rete Festival – Fondazione Teatro Comunale Città di Vicenza, Tersicorea T.off
con il sostegno del Centro di Residenza della Toscana (Fondazione Armunia Castiglioncello-CapoTrave/Kilowatt Sansepolcro), Periferie Artistiche centro di Residenza Multidisciplinare della Regione Lazio/Vera Stasi
spettacolo selezionato nella sezione Open Studios alla NID Platform 2024
Teatro Comunale di Vicenza | 9 maggio 2025