ELENA SCOLARI | Se vi dico di pensare a uno chalet, probabilmente vi verrà in mente il plastico di Cogne negli studi di Porta a porta, se avete l’età per ricordarvene. La scenografia  di Duri Bischoff per Il vertice di Christoph Marthaler ricorda un modellino: il grande palco del Teatro Strehler è occupato da uno chalet in legno, scala 1:1, molto semplificato, con mobili solo sui lati e al cui centro spunta un cocuzzolo. Una roccia di montagna.
Sulla parete di fondo c’è un calapranzi, che invece dei pranzi cala i personaggi, gli attori escono da lì, al suono di una campanella. Sono in sei, nello chalet rifugio, tre donne e tre uomini, di paesi diversi, non sappiamo dove si trovano ma potrebbe essere la Svizzera o l’Austria. Sono vestiti da montagna, con qualche accessorio folkloristico d’un tempo. Cosa devono fare qui? Ecco, qui già c’è un punto interessante: non si capisce. Parrebbe che debbano accordarsi su qualcosa, forse organizzare un incontro al vertice, inteso come summit, forse sono stati portati qui senza che fossero a conoscenza dello scopo, non è chiaro nemmeno se si conoscano, molte cose non sono chiare, e non lo saranno nemmeno alla fine.

Il regista svizzero firma la sua prima regia per il Piccolo, che ha presentato lo spettacolo in prima assoluta. Marthaler gioca con il nonsense e con dialoghi paradossali, un po’ come in Aucune idée del 2022, dove però i personaggi erano due e la dinamica dell’inspiegabile molto più stringente.
I suoi sei personaggi parlano lingue diverse, italiano, francese, tedesco, inglese e un quinto idioma che non abbiamo riconosciuto, forse scandinavo. E quindi non si capiscono, almeno apparentemente. Nel dubbio, cantano. Dai Beatles a Mozart, a canti di montagna.
Nella lunghissima sequenza iniziale recitano una sorta di partitura composta solo di Sì, no, nein, mais, ma, but, oui; ognuno ha il proprio copione in un faldone grigio e legge la propria parte come in un coro. Le scene si alternano tra cambi d’abito e situazioni ambigue, in una dilatazione di tempo micidiale i sei personaggi in cerca di un’occupazione si spogliano trasformando il rifugio in una sauna (dal cocuzzolo escono i vapori), poi si mettono vestiti da sera come per un galà e posano per le photo opportunity con sottofondo di clic fotografici.
Una voce fuori campo li avverte che le strade sono bloccate, sono tutti invitati a restare dove sono. Del resto non potrebbero fare altro. Ingannano il tempo, per due ore, aprendo finestrelle da cui esce musica (anche Prisencolinensinainciusol di Celentano), mettendosi a tavola senza mangiare nulla, leggendo discorsi senza voce.

ph. Matthias Horn

L’autore e regista lascia intendere – soprattutto tramite il personaggio della donna più matura che diffonde il suo malessere e la sua incapacità di comprensione (e come darle torto?) a mezzo di un microfono collegato a un megafono collocato sul tetto – che si voglia comunicare la condizione involutiva della società di oggi, dove la politica non porterebbe a nulla, dove i “vertici” si parlano ma non si capiscono, dove si improvvisa senza una meta, dove si è bloccati e si fanno cose insensate, però a suon di musica.
Verso la fine viene trovato un “registro della vetta”, un album dove, dai primi del ‘900, gli ospiti hanno scritto i loro pensieri, un collage di frammenti di Louise Bourgeois, Patrizia Cavalli, Aldo Nove, Pier Paolo Pasolini, Werner Schwab, William Shakespeare, Dylan Thomas, Giuseppe Ungaretti e Patrizia Valduga e altri. I sei interpreti (che citiamo per l’impegno profuso: Liliana Benini, Charlotte Clamens, Raphael Clamer, Federica Fracassi, Lukas Metzenbauer, Graham F. Valentine) li leggono ognuno nella propria lingua, creando un puzzle filosofico/esistenziale dove i pensieri si affastellano senza ordine lasciando tutti confusi. In scena e in platea.
La drammaturgia di Malte Ubenauf è astratta, non dà appigli di lettura e rimane sospesa in altitudine, dove manca l’ossigeno. Sarà per questo che un elicottero cala da un lucernario un pacco di bombole (non bambole) gonfiabili in cui tutti insufflano alacremente il proprio alito di vita?
C’è anche dell’umorismo (seppur svizzero), l’uso del corpo è indubbiamente finalizzato a momenti ilari che probabilmente dovrebbero stemperare un’idea negativa di fondo e cioè un vuoto e uno smarrimento globali in cui le azioni sono regolate da ciò che arriva nel calapranzi, da un’entità esterna: kit di benvenuto con cracker e bevande, tute incellophanate, coperte.
La voce off torna e avverte che le vie di comunicazione sono inagibili e lo saranno per i prossimi 15-18 anni. Il sestetto non sembra troppo colpito della notizia e mentre speriamo che si giunga, finalmente, a un finale chiarificatore arriva invece una chiusura secca e inintelligibile: la scalata verso la cima non ha raggiunto la soluzione. Se dovessimo piantare una bandierina in vetta, campeggerebbe un grande punto di domanda.

 

IL VERTICE

di Christoph Marthaler
con Liliana Benini, Charlotte Clamens, Raphael Clamer, Federica Fracassi, Lukas Metzenbauer, Graham F. Valentine
drammaturgia Malte Ubenauf
scena Duri Bischoff
costumi Sara Kittelmann
trucco e acconciature Pia Norberg
luci Laurent Junod
suono Charlotte Constant 
collaborazione alla drammaturgia Éric Vautrin
assistente alla regia Giulia Rumasuglia
maestri accompagnatori Bendix Dethleffsen, Dominique Tille
assistente volontario alla regia Louis Rebetez 
coordinatori di produzione Marion Caillaud, Tristan Pannatier
accessori e costruzione della scenografia Théâtre Vidy-Lausanne
produzione Théâtre Vidy-Lausanne, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, MC93 – Maison de la culture de Seine-Saint-Denis

Piccolo Teatro Strehler, Milano| 10 maggio 2025