RENZO FRANCABANDERA | Sono seduto in un posto “corridoio” in platea al Teatro Verdi, come mi piace. Una maschera mi prega, poco prima dell’inizio, di portare verso l’interno la borsa con i materiali da disegno. Di lì a poco, calate le luci in sala, un vigile del fuoco, accompagnato da un cane da soccorso (vero), attraverseranno proprio il corridoio della platea, per accedere alla scena, illuminando la via con la luce sul caschetto. Davanti ai nostri occhi una scena catastrofica, un paesaggio bombardato, dove i due riusciranno a portare soccorso, a riportare letteralmente in vita una serie di giovani figure, sepolte dalle macerie.
Ma qui occorre già un primo distinguo: perchè effettivamente la sensazione è sì quella di un paesaggio bombardato, ma anche di un posticcio set televisivo, con un albero di melo dietro le macerie, a sinistra, mentre a destra, fra la telecamera, la struttura semplice ed elegante da archi-design interior, sembra quasi di trovarsi in un living contemporaneo dall’atmosfera straniante.

Ancora tempesta-Arcuri- ph Serena Pea

È lì che mentre i sopravvissuti escono dalle macerie, entra in scena “io” (così lo chiama – e ce n’è ragione come vedremo – Peter Handke nel copione di Ancora tempesta, in tedesco Immer noch Sturm, 2010) e si porta a sedere sulla struttura di legno, perfettamente inquadrato in primissimo piano dalla telecamera e proiettato a fondo scena. Ecco quindi una struttura scenica da subito complessa e di piani sdoppiati, di quelle che da sempre piacciono al regista Fabrizio Arcuri, penso fra me e me. Le figure che emergono dalle macerie a sinistra sono vestite, in modo un po’ artificioso, da b-movie con ambientazione d’epoca, come contadini, ma i loro abiti non sono lisi, insomma c’è un’atmosfera vagamente finta, albero di melo compreso.
Siamo davanti al tragico bivio fra possibile polpettone super kitsch e genialata. Speriamo che il carro imbocchi la strada giusta – pensiamo – anche perchè la drammaturgia subito fa dire ai contadini protagonisti della vicenda che non si deve parlare di tragedia.

In questo testo di Handke, maturo, bellissimo, fra i suoi più grandi, drammatico e post-drammatico insieme, il riferimento alla tragedia assume molteplici sfumature, tutte radicate in fonti precise (anche questo testo, come la tragedia classica, è pentapartito).
Nella vicenda che pian piano si sviluppa sotto i nostri occhi, Handke costruisce un dialogo con gli avi sloveni della Carinzia, la mamma, la nonna, gli zii, rievocando la resistenza partigiana antinazista, unico episodio del genere entro i confini del Terzo Reich. La Carinzia, regione di confine tra il mondo germanico e quello slavo, è stata teatro di aspre tensioni etniche, particolarmente durante il periodo nazista quando la minoranza slovena – di cui faceva parte la famiglia materna di Handke – subì violente persecuzioni. Questa duplice appartenenza, questa “eredità divisa” che l’autore ha portato con sé come un marchio esistenziale, diventa in Ancora tempesta il motore di una riflessione che supera l’ambito personale per farsi metafora delle contraddizioni europee.

Questa memoria diventa tragedia collettiva: la minoranza slovena, oppressa e divisa tra identità e assimilazione, incarna il conflitto tra sopravvivenza culturale e violenza storica. La “tempesta” del titolo, con la sua eco shakespeariana, allude a un destino ineluttabile, dove la Storia si ripete come un ciclo di sofferenza. Si sommano nel testo la dimensione della tragedia collettiva e quella della tragedia privata: Handke, figlio di una slovena e di un soldato tedesco – poi arruolato nell’esercito nazista – cui la donna, forse anche per istinto di sopravvivenza, si concede nella disperazione del contesto bellico, rivive il trauma di un’identità lacerata.

Ph Serena Pea

Gli avi riuniti in scena (madre, zii partigiani e interpretati con generosità dai giovani del progetto Compagnia Giovani, parte dell’Accordo di Programma tra Regione Veneto e Teatro Stabile del Veneto per la realizzazione del Progetto Te.S.eO. Veneto – Teatro Scuola e Occupazione) diventano fantasmi di un passato irrisolto, in un dialogo che beccheggia fra i miti di Orfeo e di Edipo: per un verso, l’autore tenta di riportare alla luce i morti, ma la riconciliazione (a partire da quella temporale più volte esplicitamente evocata da io con la domanda “in che tempo siamo?”), è impossibile. Per altro verso, si diceva di Edipo: va considerato il peso che nell’opera assume la figura centrale della madre, che rappresenta sia la radice slovena sia l’assenza – si suiciderà nel 1971 – che Handke ha cercato di colmare letterariamente in opere precedenti (cfr Infelicità senza desideri edito in Italia da Guanda. Claudio Magris ne fornisce un esemplare sunto con ritratto della donna qui).
Qui, la tragedia è l’impossibilità di sanare questa ferita ma in uno spazio in cui il figlio e la madre arrivano metaforicamente a vivere sotto lo stesso tetto, con lei giovane e lui anziano, in un rovesciamento carpiato edipico che è una delle molte, brillanti, trovate registiche che Arcuri snocciola, in questa operazione matura e di spessore.
Handke scrive in tedesco, la lingua del “padre-nemico”, per raccontare la resistenza slovena, una costante dialettica tra il bisogno di radicamento nella famiglia materna e il rifiuto delle sue costrizioni, tra l’attrazione per le origini slave e la necessità di scrivere nella lingua del padre, il tedesco. Come se a Handke mancasse una terra a cui appartenere. E lo dice più volte: “Un posto se lo trova solo chi se lo porta dietro”, o poco dopo “Senza casa non siamo niente!”.
Questo paradosso crea una frattura che si riflette anche nella sua posizione politica controversa in quegli anni (con il sostegno alla Serbia durante le guerre jugoslave, visto come tradimento dalla critica occidentale). Questa tragedia diventa metafora dell’Europa, dove i confini e le lingue sono ancora cicatrici di guerre non superate e qui rievocate con l’apparire frequente e posticcio di vessilli e bandiere nazionali.
L’opera, con il suo tono ora storico ora intimista, cui l’interprete autobiografico Dini riesce a conferire un tono di naturale e dolorosa persistenza nell’essere, non offre catarsi, perchè siamo davanti a un flusso di coscienza frammentato. I dialoghi con gli avi sono onirici, privi di linearità, e la “tempesta” non si placa mai, negando ogni risoluzione. Handke continua anche nella testualità a citare Euripide (Le Baccanti) e Shakespeare, ma rovescia i miti: gli antenati non scompaiono come Euridice ma riappaiono nonostante lo sguardo del protagonista, sfidando l’oblio.
Pur nella frammentarietà drammaturgica, tipica dello scrittore, siamo di fronte a complesso e affascinante groviglio di memorie – alla lettura del quale siamo certi abbia giovato anche la presenza come dramaturg di Fabrizio Sinisi – e che Handke non risolve ma rende eterno attraverso la scrittura, in un’opera vertiginosa e profondamente stratificata, nella quale autobiografia, memoria collettiva, identità nazionale e tensioni psichiche si fondono in una riflessione tanto intima quanto storicamente pregnante. Scritta in una fase matura della carriera dell’autore, l’opera segna un ritorno ai temi del passato familiare e della storia europea del Novecento, letti però attraverso un filtro lirico e visionario che sfugge alla linearità della narrazione tradizionale. Il testo a più riprese ci colpisce in modo molto netto, e pensiamo spesso “ma che bello questo testo, che altezza ha raggiunto lo scrittore in questa fase della sua vita”. Non si tratta semplicemente di un dramma storico né di una confessione autobiografica: Ancora tempesta è, piuttosto, una drammatizzazione del ricordo e del desiderio, un affondo nel tempo psichico e culturale della Mitteleuropa, in cui il trauma individuale e quello collettivo si riflettono a vicenda.
Handke riceverà il premio Nobel per la letteratura nel 2019, dieci anni dopo questa scrittura. E arriviamo qui compiutamente a comprenderne la ragione.

Ci eravamo lasciati al bivio fra polpettone e genialata. Il protagonista è una figura trasparente dell’autore stesso, un narratore che dialoga con i propri antenati e con i fantasmi del passato, in una sorta di sogno lucido che fonde l’infanzia, il lutto, la colpa, la nostalgia e il rimpianto. Filippo Dini, che ha una allure scenica antieroica, che potrebbe incarnare il physique du rôle proprio di quei personaggi protagonisti dei libri di Pennac, che hanno la nuvoletta del tragico fallire a incombergli sul capo, con tutte le meschinità e le cattiverie del familiare contemporaneo (come appunto già ottimamente in Parenti terribili, di cui aveva firmato anche la regia), sforna una prova d’attore mirabile, capace di fare da preciso metronomo fra drammatico e post-drammatico, leggendo in modo apprezzabile e alto le intenzioni registiche.

Ancora tempesta-Arcuri- ph Serena Pea

E occorre dirlo: Arcuri al bivio ha preso la strada giusta. Quel bivio è sempre stato croce e delizia, nella mia personalissima lettura à rebours della sua robusta carriera teatrale, sempre alle prese con testi che analizzavano in rilettura contemporanea lo spazio del tragico, ispirandosi ai grandi drammaturghi del passato, come avvenne con i testi di Crouch anni addietro. Quasi un bisogno, psicanalitico verrebbe da dire, considerando anche il testo di Handke, di rompere con il passato, ma anche di restarci aggrappato con forza, dolorosa ma ineludibile.
Come nella genealogia parziale, incompleta, di “io”, anche per il regista sembra essersi dato il bisogno di ricostruire poeticamente in scena il proprio archetipo attraverso un processo simile alla rêverie psicanalitica: lo scrittore (e così il regista) si siede metaforicamente accanto ai morti, li ascolta, li fa parlare, ma sempre nella consapevolezza che tale ricomposizione è solo parziale, simbolica, e forse anche illusoria.
E questo Ancora tempesta, che richiama e rovescia la celebre espressione shakespeariana “tempesta in arrivo” (Storm still! dalla didascalia dell’atto III di King Lear, quando il vecchio re sta per entrare in scena con il buffone), segnala proprio questo tempo sospeso e reiterato che il regista ha percorso, in cui il dramma della scena non si è mai veramente concluso ma continua a riproporsi come tensione latente nella soggettività personale e teatrale.
Da questo punto di vista, questa operazione, riuscitissima, lirica e commovente, che fa perdere e ritrovare, ridere e pensare, se dal punto di vista del protagonista può essere letta come un lungo monologo interiore in cui il soggetto tenta oniricamente e psicanaliticamente di ricostruire sé stesso attraverso le figure parentali e le narrazioni traumatiche ereditate, per il regista, con riguardo al meccanismo scenico volutamente instabile e frammentario, riproduce le dinamiche del ritorno al suo luogo archetipico: i personaggi appaiono come revenants, figure che tornano non per essere semplicemente ricordate, ma per essere riesumate, interrogate, integrate nella coscienza dell’io narrante.
È significativo che sia Handke sia Arcuri, per quanto immersi qui nella dimensione storica del testo, evitino la rappresentazione diretta della violenza o della guerra. L’accento cade piuttosto sul silenzio, sull’assenza, sulla parola non detta, o detta per il tramite altrui, “lutto e melanconia” per dirla con Freud (Trauer und Melancholie, 1917), dove il soggetto non riesce a separarsi da un oggetto perduto e ne conserva una presenza spettrale interiorizzata.

Ancora tempesta -Arcuri- ph Serena Pea

Ancora Tempesta, con il meraviglioso meccanismo scenico di strutture, di grandi teli scenici a separare le scene, a far succedere, a recidere gli spazi fra onirico, rievocazione e drammatica solitudine finale, studiato da Daniele Spanò, maiuscolo artista contemporaneo degli spazi scenici in un periodo di grande fecondità creativa; con le icastiche luci (e ombre) di Giulia Pastore, capaci di farsi da sole ambiente e narrazione come nella clamorosa scena del bombardamento ma anche con i costumi “veri ma finti” di Sonia Marianni e le ambientazioni sonore di Giulio Ragno Favero che si pongono proprio nella terra di nessuno fra memoria storica “a 33 giri” e memoria personale (con il tormentone di Brian Eno By this river che a più riprese affiora o nella versione chorus “chicca finale” di The power of love del Love Soul Choir); a me Ancora Tempesta è molto molto piaciuto.
Lo spettacolo quasi sfugge, nella sua interezza, rimane fra le mani a pezzi, appena finito non hai nemmeno chiaro tutto, ma poi torna con forza incredibile. Una forza visiva in primis, da grande allestimento, con un crogiolo di ottimi pensatori dello spazio scenico a collaborare, con un testo meraviglioso. Dal punto di vista formale, l’opera sintetizza le diverse fasi della sperimentazione handkiana. Se negli esordi (si pensi a “Insulti al pubblico” del 1966) l’autore mirava a uno scardinamento radicale delle convenzioni teatrali, qui troviamo una forma più matura che coniuga sperimentalismo e tradizione. E così pure per la cifra registica di Arcuri, in cui si arriva ad un esito di uguale e matura ricomposizione di sperimentalismi e robuste consistenze che solo l’esperienza può regalare.
Dall’archetipico e mitologico trivio, dove Edipo uccise suo padre, al più umano bivio nel segno d’arte. E il carro è andato nella direzione giusta.
Ottimo.

ANCORA TEMPESTA

di Peter Handke
dramaturg Fabrizio Sinisi
regia Fabrizio Arcuri
con in ordine di apparizione Filippo Dini, Margherita Mannino, Simone Pedini, Jessica Sedda, Michele Guidi, Isacco Bugatti, Tommaso Russi
scene Daniele Spanò
costumi Sonia Marianni
luci Giulia Pastore
ambientazioni sonore Giulio Ragno Favero
assistente alla regia Sonia Soro
produzione TSV – Teatro Nazionale
copyright Suhrkamp Verlag AG Berlin
per intermediazione di Agenzia Danesi Tolnay
si ringrazia Black Dogs Cinofilia per la partecipazione di Chabal e di Luigi Mantovan
lo spettacolo si inserisce nel progetto della Compagnia Giovani, parte dell’Accordo di Programma tra Regione Veneto e Teatro Stabile del Veneto per la realizzazione del Progetto Te.S.eO. Veneto – Teatro Scuola e Occupazione (DGR n. 1646 del 19 dicembre 202 2).