SOFIA BORDIERI / PAC LAB* | Dopo la presenza nel week end conclusivo del Catania Contemporanea FIC Fest con Fin che ci trema il cuore, abbiamo incontrato Michael Incarbone rimasto in terra natia insieme al sound designer Edoardo Maria Bellucci per una residenza artistica intitolata Apparizioni del Mediterraneo e svolta a Piazza Scammacca.
Il lavoro (in progress anche per la drammaturgia in collaborazione con Roberta Nicolai) è sorto in aprile da una prima residenza incentrata sullo sviluppo di un progetto legato a suono, ambientazione e spazio. Durante la seconda tappa qui a Catania, invece, lo studio è stato tradotto in un’azione di quindici minuti; prima sedimentazione di quello che diventerà una performance di danza.
Quel che abbiamo visto è un corpo in movimento – voce compresa – che progressivamente si sposta nello spazio e ricerca delicatamente la generazione di un’atmosfera densa, sinistra, ancestrale. Incarbone incorpora la figura leggendaria della Dragonara che emerge lateralmente, con intenzione mai didascalica, ma evocativa, simbolica, immaginativa.
Tentiamo, allora, di documentare la restituzione pubblica del 16 maggio, attraverso il racconto dei due autori a cui abbiamo chiesto di dirci di più sulla genesi del progetto e sul lavoro che stanno portando avanti.

Michael, hai presentato il lavoro come legato a tuoi aspetti biografici e geografici d’origine. Perché Apparizioni del Mediterraneo? Quali sono le radici di questo studio?

Il punto di partenza sono dei racconti di mia nonna. Storie, miti e leggende legate alla Sicilia che hanno attraversato la mia vita e che mi hanno permesso negli anni di generare immaginazioni di paesaggi e situazioni visive. Il titolo Apparizioni del Mediterraneo è servito a creare una cornice contestuale e, infatti, il soggetto specifico su cui sto lavorando è La Dragonara – letteralmente coda di drago – sorta di figura leggendaria che impersonifica simbolicamente la tempesta, la tromba marina, l’uragano. Mia nonna mi raccontava di una figura legata a un corpo femminile che richiama un po’ questa idea di presagio catastrofico.
La Dragonara, citata anche da Giuseppe Pitré nel quarto volume del suo Usi e costumi. Credenze e pregiudizi del popolo siciliano, mi interessa più che altro per riscrivere quel racconto in un mondo fatto di percezione sonora e visiva. «Cosa rimane dopo?» è poi una domanda che si infiltra in modo ostinato nei miei ragionamenti sulla tessitura drammaturgica. Prima-dopo, dentro-fuori, insieme ad altre dualità, mi sollecitano particolarmente e, inevitabilmente, questa a direzione si intreccia un discorso sul contesto del Mediterraneo che, seppur non ne parli direttamente, non posso non considerare.

Puoi dirci qualcosa di più riguardo il progetto scenico che immaginate?

A livello performativo, la direzione creativa è orientata verso una multidisciplinarietà che considera diversi elementi artistici che compongono la scena e l’agire. Questo, per me, è un punto cardine del mio percorso come autore, in quanto uso il linguaggio della danza sì, perché è il mio vocabolario principale, ma interconnesso a tutti gli altri elementi: luce, scenografia, costume, ambiente e suono.
Il punto essenziale, comunque, riguarda la parte sonora. Stiamo sviluppando un’idea di sonorità basata su brevi tracce a cui si legano soluzioni particolari della voce. Inoltre, nello sviluppo del progetto abbiamo l’interesse di lavorare su un piano in cui tutti gli oggetti presenti in scena possano potenzialmente suonare. Stiamo ragionando sulla possibilità di avere un pavimento sonoro o una parete sonora.

Michael Incarbone

Riguardo al tuo corpo, coperto da un lungo vestito nero, e la tua testa, avvolta completamente in una kefiah: cosa ti ha portato a pensare a questo tipo di soluzione?

Per i costumi sto lavorando insieme a Giulia Cauti con cui ho già collaborato in passato. Anch’essi vanno integrati in questo discorso sul suono, vorrei lavorare, infatti, con tessuti che possano risuonare in questa idea dell’elemento aria, del vento. In realtà, già in questi giorni avevo previsto di cercare dei tessuti, ma a causa dell’allerta meteo non ho potuto, così ho deciso di usare la mia kefiah, un oggetto che mi sta molto a cuore.
Il mio desiderio è di lavorare senza uno strato di identità; cioè, di non portare la mia presenza in scena. Vorrei non sovrastare la figura della Dragonara che è potenzialmente cangiante e trasformativa. In quest’ottica, lavorerei su un processo di trasformazione del costume (ad esempio, qualcosa di molto grande e voluminoso, fino ad arrivare, forse, al corpo nudo). 

Rispetto al versante ritualistico, molto forte ancora oggi in Sicilia, specie in alcuni paesi: come ti sei approcciato a questo tipo di trasmissione orale e come ti posizioni creativamente rispetto a questa tradizione?

Il mio intento non è quello di rappresentare La Dragonara in modo narrativo o descrittivo, ma di prenderla come spunto per generare un ambiente scenico in cui il corpo e lo spazio si facciano veicolo di una narrazione non lineare, capace di evocare domande e tensioni. Un linguaggio performativo che non restituisce una realtà, ma ne mette in crisi l’immagine, aprendo riflessioni sull’identità culturale e sulle sue costruzioni.
In questa fase ci stiamo concentrando su almeno due punti di vista: l’essere questa figura in termini di incorporazione e il vedere La Dragonara, ovvero l’esperienza di chi si trova davanti a essa. Relativamente a questo secondo aspetto è molto interessante tutta la simbologia e la ritualità che si genera davanti a questo fenomeno, alle pratiche di scongiura che differiscono nelle diverse parti della Sicilia, a come La Dragonara stessa cambi nelle diverse aree del territorio. È una storia oggi non molto diffusa e conosciuta in genere, soprattutto si tramanda per via orale, e questo fa sì che a oggi se ne sappia poco. 

Edoardo Maria Bellucci

Edoardo, anche tu sarai in scena come è stato adesso per la presentazione del lavoro?

Solitamente, essendo un esperto a livello elettronico, il più delle volte mi trovo a stare nella stessa zona del fonico. Quando lavori con l’elettronica sei sempre a metà tra il suonare e il gestire il suono e, quindi, sei a metà tra essere un tecnico e un musicista. Soprattutto nei lavori interdisciplinari, quelli con la danza, con il teatro, con le arti visive, sono sempre stato in una zona non-scenica. Per questo lavoro, invece, c’è un interesse nell’avere la mia figura all’interno della scena, non semplicemente palesata e visibile, ma attivata da un gioco di prospettive e luci.
L’idea è di accostare l’azione registico sonora a una presenza in qualche modo ambigua, anch’essa priva di un’identità specifica. Ovviamente il mio agire si collega alla dimensione dell’attivazione sonora di cui parlava prima Michael e quindi dello svelamento del gesto che “genera” sonorità. Questo avverrà non in senso attrattivo-spettacolare, con enfasi sul gesto, ma in modo da dare visibilità a una doppia prospettiva. Un dentro e un fuori, ancora, che si stratifica tra oggetti, suoni, azioni e identità. 

Puoi raccontarci di più sul progetto relativo al suono?

Cerchiamo di introiettare il più possibile questioni, pretesti e viverci noi stessi come filtri attraverso cui generare qualcosa e poi eventualmente riordinare. Un punto focale è la volontà di non essere narrativi e pedissequi, specie in questo caso in cui le tematiche e le suggestioni affrontate sono di carattere così ancestrale, tradizionale, locale, orale. Il lavoro che abbiamo fatto adesso è tutto un unico evento sonoro che si modifica, ma è sempre lo stesso ed è un passo continuo, un suono tenuto che è tipico di innumerevoli culture a livello globale su cui si intonano canti, litanie, lamenti. Il legame di tutto è l’ancestralità, l’enucleare le caratteristiche “metafisiche” di una forma sonora così semplice, così statica, che si espande nella dimensione scenica, corporea, visiva, sonora, che non proviene, quindi, da un ragionamento meramente didascalico.

* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.