ENRICO PASTORE | Strana creatura teatrale quella evocata dalla Compagnia Barletti/Waas sul palco (e platea) del Teatro Astra di Torino. Non è un mostro mitologico – tipo il Minotauro, per intenderci – nato da illecite congiunzioni; non è un dio bifronte e, forse, non è nemmeno una coppia di gemelli siamesi. Non è un freak show. È uno strano effetto di rispecchiamento, come nella serie Fringe, dove i personaggi si guardano da due universi paralleli in cui le cose sono non proprio identiche e nemmeno agli stessi posti. Ci sono minime, ma significative differenze, con il potere di mutare radicalmente i percorsi di vita. L’ultima parola della compagnia Barletti/Waas regala questa sensazione.
Due testi in partitura: L’ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett e Finché il giorno non vi separi di Peter Handke. Due spazi scenici differenti ospitano le due parti di un dialogo mai avvenuto, ma possibile nell’infinita serie di universi paralleli: il palco per il testo di Beckett e la gradinata per il monologo di Handke. Il pubblico è sul palco come in un mondo alla rovescia.
Werner Wass accoglie gli spettatori seduto su una semplice sedia, indossa un rigido vestito sporcato di gesso rappreso e, con la nobiltà di un re, mangia una banana. Il frutto è l’unico oggetto di scena ed è significativo, perché l’azione, come in Tenet di Nolan, anticipa l’evento. Sì, avete capito bene: la vicenda di Krapp viene raccontata successivamente e gli occhi e le mani racconteranno di quella banana già mangiata, sbucciata e buttata appena siamo entrati in scena.

Werner Waas in L’ultima Parola foto di Donato Aquaro

L’ultimo nastro di Krapp è detto, semplicemente, senza enfasi. Non uso il verbo recitato perché non si finge un bel niente e non ci si prova neanche a farci credere che quell’uomo seduto è Krapp. L’attore dice il testo scritto da Beckett con tutte le didascalie, comprese le pause. Il motivo lo scopriremo più avanti. Il corpo di Waas ci mostra dei barlumi di Krapp, della sua fisionomia, dei suoi gesti ripetitivi e insensati, delle sue espressioni vacue e asettiche, efficaci come quelle di un clown, ma subito se ne distacca proseguendo nel suo dire.
Si giunge, così, al “finale di partita”. L’attore recita l’ultima didascalia: «sipario», esce di scena e le tele che ingabbiavano il palco cadono a terra, mostrandoci la gradinata in cui è comodamente seduta Lea Barletti ed è situata la postazione del musicista Luca Canciello. Siamo dall’altra parte dello specchio in questo mondo di Alice. Ci troviamo di fronte a quella donna sconosciuta di cui ci ha raccontato Krapp nel suo ultimo nastro, quella su si è steso sulla barca nel canneto dopo averle confessato che di non aver più niente da dirsi.
Eppure, la donna sconosciuta ha tanto di cui parlare. E quello che vuole dire a tutti i costi non è soltanto la sua versione dei fatti. Sarebbe troppo semplicistico e sarebbe ridurre la partita a nient’altro che una ripicca, una lite tra ex amanti. Tra la donna e Krapp vi è una distanza incolmabile, generata dalla distanza delle rispettive visioni del mondo.
Facciamo un solo esempio: le pause e il silenzio. Per Krapp sono calcolate, studiate per fare effetto, per farci ridere, per farci intendere, senza ombra di dubbio, che tutto quello a cui stiamo assistendo è senza scopo alcuno. E il silenzio è solo il preludio a un’altra frase, è l’anticamera del verbo, non vale da solo. La donna sconosciuta, invece, ama il silenzio di per sé, non vuole colorarlo d’attesa, se lo gode così com’è. Quando lo descrive ci ricorda John Cage, quando affermava che la pausa nella musica tonale è solo un ponte e un legame tra una nota e l’altra, non è il silenzio. E poi, il silenzio non esiste, è solo l’assenza del nostro blaterare. Appare quando l’io tace e quello di Krapp non tace mai: non solo parla con sé stesso, ma si ascolta parlare in un loop eterno.

Lea Barletti in L’ultima parola foto di Donato Aquaro

Una seconda differenza è il dialogo con l’improvvisazione musicale. La parola deve trovare il varco tra i suoni, deve scoprire un piano di coesistenza con la musica. Se prima Krapp è stato un dittatore assoluto, signore del tempo come Crono, la donna sconosciuta danza tra il suono e il silenzio, senza un piano prestabilito. Ciò che avviene non è sempre uguale a sé stesso, prevedibile e ripetibile, ma è eternamente cangiante. E questo coesistere con l’improvvisazione musicale evoca sulla scena un’altra pièce di Beckett, Words and Music, un radiodramma musicato da Morton Feldman, in cui sono proprio parole e musica a contendersi lo spazio.
La donna sconosciuta è legata a Krapp, così come Krapp è avvinto a lei. Non possono lasciarsi. Lui la evoca, lei parla con il suo fantasma, con il manichino dei suoi vestiti abbandonato in scena sulla sedia. Uno non vive senza l’altra. Ordine e caos, improvvisazione e riproducibilità, in perpetuo dialogo. Forse, è questa la chiave di questa strana creatura scenica: come nelle dispute filosofiche tibetane, tesi e antitesi hanno la stessa consistenza del fumo. Bianco e nero sono uno l’eco dell’altro, e il loro dialogo consiste nel vicendevole trascolorare.

L’ULTIMA PAROLA
regia Barletti/Waas
con Lea Barletti, Werner Waas
musiche originali eseguite dal vivo Luca Canciello
scene e costumi Ivan Bazak
aiuto regia Paolo Costantini
produzione Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse, Barletti/Waas, TPE (Teatro Piemonte Europa),  Florian Metateatro, TD-Berlin
con il sostegno di Goethe Institut Culture Moves Europe / CSS Teatro stabile di innovazione del FVG / Itz Berlin e.V.

Teatro Astra, Torino | 22 maggio 2025