RENZO FRANCABANDERA | Torniamo da una puntata a Prato per il focus danza di Contemporanea 2025, rassegna con la direzione artistica di Edoardo Donatini, con alcune certezze.
La prima è che, per quanto riguarda chi scrive, in questo momento della storia dei linguaggi, lo spazio del segno corporeo performativo è di gran lunga il più ampio fra quelli che il luogo skenè possa accogliere. Non ce ne voglia la prosa, ma le arti performative “altre” esprimono un potenziale di ricerche e di potenza della metafora molto più ampio in questo tempo della storia. Non è un caso che torni in auge (si veda il caso di FC Bergman in questi giorni in Italia) il teatro fisico e assente di parola.
La seconda certezza riguarda il lavoro di alcunə artistə che rafforzano il proprio percorso di ricerca e in taluni casi confermano uno stato di grazia assai raro.
Parliamo qui in particolare della giornata del 29 maggio e innanzitutto del notevole Butchers capsule di Gloria Dorliguzzo, spettacolo che aveva debuttato a FOG in Triennale di Milano a Marzo e che qui torna in scena. La creazione è riservata a un numero circoscritto di spettatori. Il motivo di questo contingentamento fruitivo dipende dalla natura stessa dell’azione performativa che, per ampia parte, si connota come una vera e propria dissertazione accademica che prende le mosse da Il taglio della poesia. Note sulle origini sacrificali della poetica greca di Jesper Svenbro, scrittore, poeta e studioso svedese, interessato alle intersezioni fra antropologia, letteratura e ritualità performative dell’atto poetico.

Lo studio cui si fa riferimento (1), non recente ma molto interessante, esplora il legame tra la poesia antica e il rito sacrificale, mostrando come la composizione poetica riproduca simbolicamente il gesto del taglio rituale della bestia (ma in origine il sacrificato era anche un essere umano), sia nella divisione metrica del verso che nella performance orale. Insomma carne e versi erano (potenzialmente) perfetti sostituti per Pindaro e per i sacerdoti di Delfi, questi ultimi notoriamente più affezionati alla carne, però.
La poesia greca, secondo Svenbro, ripreso da Dorliguzzo in questa lectio performativa, non è solo un’arte linguistica ma un atto rituale che rielabora la violenza sacrificale trasformandola in ordine estetico e sociale. Il *tomḗ*, il “taglio”, diventa così una metafora centrale: come il coltello del sacrificio divide la vittima in parti destinate agli dèi e alla comunità, allo stesso modo il poeta opera una cesura nel flusso del linguaggio, organizzando il verso in unità ritmiche che riflettono una sorta di equilibrio cosmico.
In Butchers capsule gli spettatori entrano in uno spazio in penombra. Una giovane docente, dietro una grande scrivania illuminata da due lampade e piena di libri e appunti disposti con ordine geometrico, inizia una dotta lezione su come fare a pezzi i versi senza essere sacrileghi, esattamente come si faceva nell’antica Grecia, dove la metrica nacque dalla sovrapposizione fra verso e carne. È il taglio a trasformare la parola in verso, così come trasforma la bestia in carne. Di qui deriverebbe secondo Svembro innanzitutto il mutuare nella nomenclatura poetica di parole che hanno a che fare con parti anatomiche dell’animale (piede, coda ecc.); ma anche il legame con il rituale sacro della macellazione, che non è un banale fare a pezzi, atto che di per sé sarebbe sacrilego come ci viene spiegato. La partizione è sia per il poeta che per il macellaio un fare in parti seguendo la logica delle giunture, quindi ripartendo per nuclei di “polpa”, ovvero nel caso della poesia di ritmo e senso. La performance poetica, dunque, riattualizza il sacrificio, facendo della parola un’offerta sonora, una thýmata (vittima verbale) che media tra umano e divino. L’interessante relazione con la ricerca di Svenbro in Butchers Capsule, su cui Dorliguzzo aveva iniziato le sue ricerche da tempo, trova appianamento artistico definitivo con l’interferenza drammaturgia di Lucia Amara, che già tempo addietro ebbe a dire del suo fare studio e scrittura: “Quando la scrittura si produce nel tempo ancora palpitante della perfomance, si aprono strade che sono ben diverse da ciò che accade negli studi in cui si applica una lente di tipo storicistico o analitico. È uno scrivere restando attaccati al fuoco, e da studiosa io ho delle possibilità che non ho in altri casi”.
Ed è proprio quello che succede qui: Amara e Dorliguzzo trasformano uno studio in un atto performativo; Amara sviluppa le tramature drammaturgiche (la rielaborazione in funzione oratoria dello studio di Svembro e altri) che vengono offerte in penombra oracolare da Caterina Dufí, performer e poetessa della voce, salentina di base a Bologna, attiva come cantante con l’alias Tana di Vipera. I suoi suoni e parole extra scena ricordano Nico e i Velvet (i suoi versi cantati La tua bocca è un palcoscenico, Che di alcune cose ti basti il semplice nominarle o inesauribile il materiale scaturisce il sacro” però, rimandano a questo stesso campo semantico-immaginativo).

Identico motivo per abitare icasticamente lo spazio performativo lo ha Giuseppe Inserra, macellaio per tradizione di famiglia (un cognome assai presente nella pratica della macellazione nell’area del napoletano, da cui proviene). A lui viene chiesto di restituire i gesti della scarnificazione, del coltello che si insinua nelle carni animali e separa i tessuti dalle ossa, cerca le giunture, taglia. Meravigliosa l’epifania cannibalizzata con cui si rende poeticamente la sovrapposizione fra spazio carnale e spazio poetico, fra lirica e tragedia, fra sublimazione e morte. Insomma da un lato la poesia, la discettazione letteraria, dall’altro il mimo coreografico del gesto della macellazione, senza lama, ma impresso nella memoria, verrebbe da dire nei geni di famiglia.
Dorliguzzo e Amara ripartiscono la lezione in nuclei. Dopo una overture concettuale cui assistono tutti gli spettatori, a turno ciascun dei tre gruppi in cui sono divisi per seduta viene invitato ad abbandonare la interessante lezione e a spostarsi in uno spazio vicino ma diverso, in un altrove fisico e concettuale, dove quella parola viene incarnata, diventa fuoco, per dirla con Amara. L’azione torna sugli archetipi visivi che Dorliguzzo aveva già indagato e diventata nel 2023 una video performance sul tema della “danza del macellaio” e che ora, innestata live nella testualità di Svembro/Amara, completa in modo definito l’azione. E sì: ricorda la scuola da cui Dorliguzzo proviene, quel misto di simboli, parole, gesto arcaico, danza e rito che sono marchio di fabbrica dell’estetica dei Castellucci, con cui ha a lungo collaborato.
In Butchers capsule il gesto del macellaio diventa una forma di scrittura sul corpo, un linguaggio non verbale che tuttavia richiama la stessa logica di frammentazione e riorganizzazione. Mentre Svenbro/Amara si concentrano sulla parola come strumento di mediazione rituale, Dorliguzzo esplora il gesto fisico come performance visiva, ma in entrambi i casi emerge una riflessione sull’arte come pratica che trasfigura il fare a pezzi in ordine simbolico, mantenendo una tensione tra sacro e profano, tra crudeltà e bellezza.
La creazione rimanda veramente ai tempi brillanti delle più nitide epifanie della Societas, quando la somma di sapienze di quel gruppo di pensatrici/tori della performance portò alla scena italiana una scossa indimenticabile. Dorliguzzo (di cui avevamo commentato l’anno scorso il Dies Irae, sempre a Prato) è una delle più interessanti figure della scena performativa in Italia oggi, e l’abbinata artistica con la parola di Amara posiziona Butcher’s Capsule in un campo semantico molto chiaro e preciso, tanto da attirare vivamente gli spettatori intorno al nucleo di indagine. Basti guardare come essi si sono poi fiondati sul tavolo al termine della performance, per capire quali fossero le fonti di studio di questo bellissimo amalgama di idee al servizio della creazione scenica. Fosse sempre così…

Usciamo da questa pienezza di parole e gesti per tuffarci sull’anteprima di Elysium del Collettivo Giulio e Yari. Giulio Petrucci e Jari Boldrini hanno dato vita al C.G.J. Collettivo Giulio e Jari nel 2018, un progetto di ricerca focalizzato sulla creazione di formati performativi che osservano vari aspetti nascosti nella quotidianità di diverse culture. Qui siamo nello spazio puro della danza sebbene la creazione nasca da ispirazioni al crocevia tra danza, arte visiva e riflessione scientifica. L’ispirazione dalla pittura onirica di Lou Benesch e dal paesaggio marziano di Elysium Planitia permea tanto il gesto danzato quanto la composizione musicale elettronica di cifra minimal-sintetica, opera di Simone Grande, le luci fredde di Gerardo Bagnoli e i costumi di Dario Musco Iona.
Siamo sicuramente dentro la metafora di un viaggio: non solo spaziale, ma interiore. La performance, affidata all’interpretazione dei due danzatori e di Sofia Galvan e Chiara Montalbani, gioca con un paradosso contemporaneo: mentre la tecnologia (come il CRISPR, ovvero l’editing genomico, la tecnologia innovativa che funziona come un “correttore di bozze” del DNA) modifica il biologico, l’arte cerca di riumanizzare il corpo attraverso il movimento.

I danzatori, nel loro “dialogo non verbale”, sembrano esplorare questa tensione: i loro corpi sono al tempo stesso fluidi, come le figure di Benesch, e frammentati, come il terreno vulcanico di Marte. La coreografia, con le sue ripetizioni e variazioni, le concatenazioni umane, le variazioni sul tema, ricorda un esperimento di mutazione genetica in cui ogni gesto è una possibile evoluzione.
Elysium non è né la Terra né Marte, ma uno spazio mentale dove si mescolano nostalgia e futurismo. Le luci di Gerardo Bagnoli e i costumi di Dario Musco Iona potrebbero accentuare questa ambiguità, trasformando i performer in creature ibride, tra mito e scienza.
Diverso per complessità e struttura dal recente Pas de Deux, di cui avevamo parlato a marzo in occasione della replica vicentina per Danza in Rete, il punto di forza di questa nuova creazione ancora a cuore aperto sta nella sua capacità di evocare più che spiegare. Le “sfumature malinconiche” e il fascino per l’ignoto creano un’atmosfera ipnotica, che diventa più interessante con le sequenze a quattro in cui il groviglio di corpi, la ripetizione, alludono a quella fluidità simbolica delle forme viventi che è nelle opere della pittrice franco-americana con il suo simbolismo animale quasi esoterico, e l’interrogativo scientifico transumano.

Il bivio artistico sta proprio nella finalizzazione del segno, per capire quanto la forma finale riuscirà a coinvolgere lo spettatore oltre il livello sensoriale. Se, da un lato, la mancanza di una narrazione esplicita è una scelta coraggiosa, dall’altro potrebbe lasciare il pubblico in un limbo di bellezza non decifrabile.
I prossimi segni che faranno evolvere e daranno senso definito a questo incastro di corporeità che si incontrano, ora in piedi ora in lunghe azioni a terra, sia in gruppo a quattro che in coppia, daranno la direzione definitiva a un esperimento non privo di fascino: la sua forza è nella ricerca di un linguaggio corporeo che riflette le metamorfosi del nostro tempo – genetiche, migratorie, esistenziali. Vedremo come questo lavoro potrà radicalizzarsi ulteriormente, osando ulteriori contrasti tra fragilità organica e rigidità tecnologica.
- Studi Storici, Oct. – Dec., 1984, Anno 25, No. 4, Sacrificio, organizzaazione del cosmo, dinamica sociale (Oct. – Dec., 1984), pp. 925-944, Fondazione Istituto Gramsci
BUTCHERS CAPSULE
concept e cura dei movimenti Gloria Dorliguzzo
tramature drammaturgiche Lucia Amara
discorso a cura di Caterina Dufi
macellaio Francesco Inserra
musica Manfredi Clemente
maschere Plastikart
produzione INDEX con il supporto di MiC – Ministero della Cultura
ELYSIUM – anteprima
ideazione C.G.J. Collettivo Giulio e Jari
con Jari Boldrini, Sofia Galvan, Chiara Montalbani, Giulio Petrucci
composizione e musica Simone Grande
luci Gerardo Bagnoli
costumi Dario Musco Iona
strutturazione organizzativa Centro Nazionale di Produzione della Danza Virgilio Sieni
residenze artistiche Anghiari Dance Hub
Prato – Festival Contemporanea 2025. Focus danza – 29 maggio 2025