RENZO FRANCABANDERA e ELENA SCOLARI | ES: È di pochi giorni fa la notizia che l’Italia si posiziona al primo posto in Europa per valore aggiunto dell’agricoltura nel PIL, superando Francia e Spagna. Chissà quale posto occupa il Belgio. Certo è che nell’ultima creazione del collettivo belga FC Bergman, Works and days – ispirata a Le opere e i giorni di Esiodo – tutto comincia con l’arare la scena, per seminarvi immagini e quadri – muti – che germogliano in azioni coreografiche di grande impatto scenico e dalla eccellente armonia corale: un grande aratro spinto a mano dai performer crea un vero e proprio solco sul palcoscenico ligneo, saltano i trucioli e la semina porterà una messe di situazioni legate all’arte dell’agricoltura ma anche al rapporto dell’uomo con gli animali e con la Natura, fino all’avvento delle macchine.
Un’apertura possente. A te cosa è parso dell’inizio di questo lavoro “campagnolo”?
RF: Distruggere e creare. Addomesticare ed essere addomesticati. I grandi interrogativi del genere umano nella sua forma sociale sono tutti qui da millenni. Innanzitutto Esiodo: nel poema Le opere e i giorni, duemila e settecento anni fa rifletteva sulla condizione umana attraverso miti e precetti pratici, unendo etica e sopravvivenza. Racconta la caduta dall’età dell’oro a quella del ferro, dove l’umanità corrotta dall’ingiustizia deve riscattarsi con il lavoro e il rispetto di Dike, la giustizia; un po’ l’equivalente della cacciata dal giardino dell’Eden. Un manuale di vita rurale e morale, che esorta a un’esistenza equilibrata, in armonia con gli dei e la natura, un inno alla dignità del lavoro come unica via di salvezza in un mondo decaduto. Ecco quindi il ciclo delle stagioni, il ritmo della natura, che innerva tutta la prima parte di questa creazione scenica, con Joachim Badenhorst che esegue al clarinetto variazioni su Le quattro stagioni di Vivaldi mentre gli attori del collettivo con l’aratro fanno letteralmente saltare le assi del pavimento di legno dello Strehler.
Chi è FC Bergman? Il collettivo esiste dal 2008, fondato da sei artisti poliedrici – Stef Aerts, Joé Agemans, Bart Hollanders, Matteo Simoni, Thomas Verstraeten e Marie Vinck – e si è affermato come una delle realtà più originali del teatro contemporaneo europeo. Hanno base artistica al Toneelhuis di Anversa dal 2013, e hanno sviluppato negli anni un linguaggio teatrale unico, anarchico e visivamente potente, dove l’assurdo, l’attorale puro si mescolano a un’intensa poesia dell’immagine. Al centro delle loro opere c’è sempre l’essere umano: fragile, ridicolo ma ostinatamente in cerca di significato. Dopo i primi riconoscimenti, il gruppo ha conquistato la scena internazionale con produzioni site-specific che sfidano i confini tra teatro, cinema e arti visive. Una cifra stilistica inconfondibile, fatta di scenografie monumentali e narrazioni frammentarie. Het land Nod (2015) – definito dalla critica un incrocio tra i linguaggi di Castellucci, Marthaler e Pina Bausch – li aveva poi portati nei festival di Avignone e Zurigo. Il culmine arriva con i successivi JR (2018) e The Sheep Song (2020-2021), performance senza parole su una creatura in rivolta contro il proprio destino. Tu l’avevi visto se non sbaglio…
ES: Sì, l’avevo visto, fu presentato allo Strehler nella prima edizione del festival internazionale Presente Indicativo nel 2022. Quel lavoro raccontava – senza una parola – un processo di trasformazione da animale a uomo, più precisamente da pecora a uomo. Le pecore in scena erano vere, ordinate, bianche e lanose; si srotolava il nastro di una vita nuova su un lungo tapis roulant in continuo movimento. Trovo che Works and days sorprenda meno; ci sono però alcune immagini molto molto belle e un connubio di suoni e figure curato e decisamente pregevole. Il senso drammaturgico che ne emerge è di carattere universale, non più indirizzato all’esistenza del singolo individuo quanto alla collettività. È evidente il richiamo alla relazione Uomo-Natura che si è persa, ma il passaggio sull’introduzione della macchina a vapore mi ha lasciata perplessa: quel liquido nero e vischioso che cola sui corpi nudi in pose seduttive vuole secondo te alludere a un tentativo di soggiogare la natura che fallisce rendendo l’uomo schiavo del lavoro oppure alla fascinazione subìta dall’uomo per la tecnologia?
RF: Io direi più la seconda, con un finale un po’ apocalittico, e vado a spiegarmi. Intanto beneficio del fatto di non avere un termine di paragone con il lavoro precedente, cosa che in arte può essere insidiosa perchè fa perdere allo sguardo la verginità su un progetto estetico specifico, leggendo invece la creazione in prospettiva “evolutiva”. Mi pare che i due spettacoli abbiano alcune continuità, ovvero l’assenza di testo e il notevole impatto visivo, e alcune discontinuità, nella consequenzialità drammaturgica.
Come Esiodo legava il lavoro ai ritmi della terra, FC Bergman esplora la caducità dell’esistenza attraverso un’estetica pastorale, dove gli attori interagiscono con elementi naturali (terra, acqua, fuoco) in un flusso di nascita, vita e morte. Se The Sheep Song (2022) celebrava la libertà individuale, Works and Days nella sua prima parte è un inno al potere inarrestabile del gruppo e alla forza della natura, riprendendo l’idea di una comunità legata alla terra ma minacciata da nuove ambizioni. Si respira quasi una nostalgia per quella civiltà contadina che costruiva le case a mano, che pigiava con i piedi, che gioca intorno all’albero della cuccagna; ma poi costruisce case, e poi le abbellisce. Il dramma sta nell’arrivo del superfluo, della decorazione (i veli colorati alla casa, che una bambina raccoglie). Eliminando ogni riferimento verbale al testo esiodeo, FC Bergman ricorre a immagini potenti (ispirate mi pare di poter dire anche alla pittura rinascimentale, come Brueghel) dentro una colonna sonora mirabilmente eseguita dal vivo oltre che da Badenhorst anche da Sean Carpio.
Ma a un certo punto, come anticipavi, arrivano la macchina a vapore, la tecnologia, il mostro, Matrix: nella rappresentazione che ne viene data scenicamente, questa super macchina si innalza come un’astronave extraterrestre che soggioga il genere umano, riducendolo all’inattività oziosa. Dieci anni fa, nel 2015, a Vie festival, commentavo il Go down Moses di Castellucci: ugualmente in quello spettacolo (come in Bros) c’è il bivio esistenziale di dominio inverso umano/macchina. Il grande rotore assordante di Castellucci, faceva tremare le sedie. Qui, con un’estetica più espressionista, in stile Metropolis di Lang, la macchina si innalza in una dimensione sovrumana, diventa divinità. E gli omuncoli appaiono poca cosa. Prendono il sole e non si rendono conto di quello che sta per venire.
Ho letto la pioggia finale, che sommerge la povera contadina sola, come la profezia di Einstein sull’umanità che finisce fuori controllo e torna all’età della pietra dopo l’autodistruzione.
ES: La formazione belga (vincitrice del Leone d’argento alla Biennale di Venezia nel 2023) mostra sempre maestria nel costruire architetture umane creative e di splendido effetto visivo, qui hanno un obiettivo critico che discute il comportamento della nostra specie nei confronti dell’ambiente e degli altri esseri viventi. Non si tratta però di una banale riflessione sulle nostre colpe, c’è anche la rappresentazione della spinta verso il progresso: bello infatti il riferimento al fuoco prometeico donato agli uomini nella scena con le piccole fiammelle. Works and days è anche un inno alla cooperazione, al confronto tra le generazioni e al passaggio dei saperi, tutto realizzato in forma di rituale, ciò che forse ci manca di più in un’epoca di disorientamento e di ribaltamento dei valori.
C’è alta cura estetica di luci, costumi, suoni e scene d’insieme. Quei costumi fatti di tanti pezzetti di legno colorato che rendono i personaggi simili a totem aztechi – divinità multicolore che lentamente creano un ritmo sempre più rumoroso, prima singolarmente poi in gruppo – sono bellissimi, come la costruzione a vista della struttura centrale, o l’ironica presenza di una gallina vera che si aggira in scena; e queste immagini restano nella memoria estetica dello spettatore.
RF: Se alcuni simboli appartengono a estetiche del rito anche distanti fra loro, devo dire che comunque non c’è scollegamento degli anelli narrativi. Anzi, la dinamica drammaturgica evolve in modo conseguente di scena in scena: arano, allevano, diventano stanziali, costruiscono la casa, generano, umani e animali. L’accumulazione capitalistica permette il salto tecnologico, e qui il meccanismo si inceppa: l’esortazione esiodea al fare salta, mentre il tempo dell’oggi è fatto di unghie lunghe e scroll sui display. Mia nonna prendeva le braci con le mani per portarle dal fuoco acceso in giardino nel braciere in casa. Non so se era felice, ma la sua semplicità l’ha fatta campare in salute fino a 90 anni con una serenità di interrogativi e prospettive che oggi le invidio. Immaginare i feti dell’umano come batterie per qualche server di intelligenza artificiale non sembra più lontana distopia, purtroppo. E anche il malefico cagnolino robot che fa sorridere il pubblico, in Cina l’hanno già usato per dissuadere i cittadini dall’uscire di casa ai tempi del Covid e controllare chi faceva cosa. Assai poco rassicurante. Da questo punto di vista l’Apocalipse now lo sentiamo tutti dietro l’angolo.
ES: C’è anche da dire che i facoltosi mezzi del gruppo permettono scenografie importanti e l’utilizzo di strumenti non nuovi ma ancora in grado di stupire – la pioggia sotto la quale una donna matura continua la sua opera contadina, le esplosioni di frutti della buona vecchia terra che sputa ananassi – ma, arrivando al finale, devo dire che la scelta di introdurre quell’elemento completamente contemporaneo mi ha fatto pensare a una scorciatoia che non dà chiavi di lettura del futuro. Come dice Edgar Morin (104 anni) dovremmo invece riflettere seriamente sul fatto che “il progresso tecnico non implica progresso morale, anzi: spesso coincide con una regressione etica”.
Resta un’inquietudine ancora tutta da indagare. E questo sta a noi, nel mondo fuori dalla scena.
RF: Il pubblico nella mia replica era molto coinvolto. Una standing ovation. E gli attori sono bravi. Anzi, mi pare che, usando macchinari molto analogici, niente di superdigitale, anzi, carrucole e pioggia da qualche americana un po’ di fumo e di luci ben date, mi pare appunto che il lavoro si fondi proprio sull’antico mestiere dell’attore. Lo spettacolo coinvolge le giovani generazioni, forse non sconvolge vecchi polli dell’aia del teatro perché si torna a strumenti antichi, alla recitazione di gruppo, al lavoro sul collettivo, rigorosità da anni Settanta; ma è un lavoro molto organizzato e ben fatto. Magari qualche punta di didascalia, ma se devo pensare all’evoluzione del linguaggio della scena dell’ultimo decennio, rifletto sul fatto che il processo di metaforizzazione e di trasformazione del segno in simbolo sia sempre più difficile per un pubblico che ha una propensione all’attenzione sempre più scarsa.
Lo spettacolo, in alcuni casi, per potenza scenica, ha l’ambizione dello spettacolone, con la costruzione della casa in stile Casa nella Prateria, con i grandi assi di legno issati a forza dagli attori (lo avevano fatto nel 2019 per La valle dell’Eden di Latella, e sempre Latella aveva mezzo distrutto la scena nel 2014 per Il servitore). Questo monta e smonta del genere umano in fondo è condanna biblico-esiodea. Anche il teatro se la porta addosso. A più riprese, ciclicamente, di generazione in generazione, alcuni simboli, alcune epifanie ritornano.
Di sicuro i componenti di FC Bergman comunque lavorano tanto (e bene): se la pensano e se la sudano. Poco digitale, pochi effetti speciali, molto lavoro manuale e analogico. Bellissimo il parto della vacca, la macchina volante, la casa; un ottimo lavoro di attori affiatati che restituiscono uno specifico di spazi e mondi, distinti e distanti, che lo spettatore collega alle inquietudini della modernità. Forse non sarà sconvolgente come il precedente lavoro, ma in fondo è ampiamente coinvolgente per un pubblico nuovo, per la nuova generazione, e “iddiosolosà” quanto abbiamo bisogno di spettacoli anche per nuovi spettatori, oltre che per noi, polli viziati e corrotti da tanta visione, e che rivediamo dovunque cose che, personalmente, in trent’anni posso aver già viste o smozzicate. Il linguaggio dell’arte reimpasta sempre tutto. È un continuo fare e disfare. Opere e giorni.
Sono immagini di un fare scenico che meno male che ogni tanto viene riproposto, come impegno performativo a farsi i calli, a non pretendere che con una voce off e due laser si gridi al genio.
Questi faticano, sono molto esiodei.
Gliene va dato atto.
WORKS AND DAYS
prima nazionale
regia, drammaturgia e scenografia Stef Aerts, Joé Agemans, Thomas Verstraeten e Marie Vinck (FC Bergman)
con Stef Aerts, Joé Agemans, Maryam Sserwamukoko, Yorrith De Bakker, Marie Vinck, Fumiyo Ikeda, Geert Goossens, Bonnie Elias
composizione musicale e performance live Joachim Badenhorst e Sean Carpio
costumi An d’Huys
luci Stef Aerts e Joé Agemans
produzione Toneelhuis
in coproduzione con Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Les Théâtres de la Ville de Luxembourg
con il supporto del Tax Shelter del Governo Federale del Belgio, Gallop Tax Shelter