ILENA AMBROSIO | Dal 20 al 25 agosto 2025, il suggestivo borgo marchigiano di San Ginesio si trasformerà ancora una volta in un palcoscenico a cielo aperto per accogliere la sesta edizione del Ginesio Fest, confermatosi ormai tra i festival teatrali più apprezzati del panorama italiano. Sotto la direzione artistica di Leonardo Lidi, al timone per il quarto anno consecutivo, il festival proporrà un’intera settimana di appuntamenti intensi: spettacoli, debutti in prima nazionale, residenze artistiche, incontri con gli autori, laboratori e mostre animeranno strade, piazze e luoghi d’arte del centro storico. A fare da filo conduttore dell’edizione 2025 sarà il tema Furore – scelto da Lidi -, una parola potente che attraverserà e darà slancio a tutte le proposte in cartellone. Spiega Lidi: «Il furore, come nel capolavoro di Steinbeck, spesso nasce da una costrizione, un viaggio obbligato che l’individuo o il gruppo deve compiere per salvarsi. Il furore creativo dei giovani che richiedono di avere una voce, il furore di chi vuole ribellarsi a un sistema troppo stretto, il furore della passione che ti fa perdere il controllo e poi il furore impetuoso generato dal risentimento; quello salvifico della creatività e quello distruttivo, di chi desidera colpire l’altro»
Il programma si preannuncia ricco e articolato, con la partecipazione di alcuni tra i protagonisti più interessanti della scena teatrale contemporanea e si chiuderà il 25 agosto con la cerimonia di consegna del prestigioso Premio San Ginesio All’arte dell’Attore.
In attesa di agosto abbiamo raggiunto telefonicamente Leonardo Lidi per farci raccontare qualcosa di questa edizione del Festival.
Dunque, quarta edizione di direzione artistica del Ginesio Fest. Quale il bilancio di tre anni? Cosa credi si sia sviluppato in questo tempo?
Di certo il quarto anno inizia con un cambio di passo. Innanzi tutto perché, se fino ad ora avevamo ospitato prevalentemente monologhi, quest’anno, nonostante gli spazi a disposizione continuino a essere limitati perché non c’è ancora il teatro, abbiamo deciso di aprire alle compagnie e a spettacoli quasi sempre con quattro/sei attori. Questo per me è decisamente sintomatico rispetto alla crescita che abbiamo avuto in questi quattro anni: ci siamo accorti che è un festival che funziona, ce ne rendiamo conto nell’ospitare artisti che vengono non solo a fare ma anche a vedere spettacoli da tutta Italia, che vengono per conoscere questa realtà. Era proprio questo l’obiettivo iniziale: ridare vita a un luogo grazie al teatro, facendolo diventare il borgo degli attori.
Ecco, una volta compresa la riuscita di questo progetto ci siamo detti – anche insieme alla direttrice Isabella Parrucci, che mi ha sostenuto molto in questo – che era tempo di fare un passo in avanti e andare verso una certa complessità. Una complessità che inizialmente avevamo tenuto in equilibrio per far sì che le persone del posto, che di fatto non hanno un teatro da anni, potessero stare insieme a noi: avevamo cercato certamente titoli più accattivanti, più diretti. Da quest’anno invece penso di poter dire che Ginesio Fest diventa un festival di teatro complesso nel senso bello del termine. Siamo riusciti ad avere nomi nazionali e internazionali che inizialmente non sarebbe stato possibile ospitare. E quest’anno lo è stato anche grazie ad alcune partnership, come quella con Piemonte dal Vivo che ci sostiene anche economicamente e ci dà questa possibilità. Però penso fermamente che tutto questo, la rete che si è creata, sia da ricondurre alla sincerità del contenuto e di un progetto molto semplice ma molto ambizioso: da un luogo terremotato, che non ha un teatro e che abbiamo conosciuto in certe condizioni, far partire un percorso proprio attraverso l’arte del teatro per riempire durante una settimana il borgo, rivalutarlo e allo stesso tempo creare uno spazio dove l’attore è il padrone di casa.
Parli di spazio e di spazi. Quali sono gli spazi fisici in cui vengono accolti gli spettatori e gli attori? Ma anche: che tipo di spazio emotivo si crea avvenendo tutto in un luogo così particolare?
Gli spazi fisici sono le strade, le piazze e i siti d’arte di San Ginesio, ma ovunque si crea uno spazio di convivenza costante, un dialogo su quello che si è visto, su quello che si farà, su quello che si è fatto: esci dal chiostro, dalla palestra, dall’auditorium – luoghi adibiti a teatro ma che non lo sono nella loro natura – e si crea subito un contesto di comunicazione e condivisione, nel senso che ti ritrovi a cena insieme alla persona che ha appena fatto lo spettacolo e ne parli, ne discuti. Non ci si può nascondere, non ci sono quinte. Questo è anche il motore del festival: essere sempre in costruzione, in divenire. E del resto siamo in un luogo che ha subíto una tragedia della distruzione e nel quale si vuole ricostruire attraverso il teatro.
Come si inserisce il ruolo da direttore artistico di un festival nel tuo percorso attuale? Qual è la spinta a farlo, insomma?
Questo è un momento molto fortunato per me, sia con il teatro che con il cinema, e ovviamente mi sono chiesto come e se andare avanti. Si va avanti solo se c’è un motivo: io il motivo lì lo vedo, vedo una grande possibilità: creare un rapporto molto diretto con la comunità. A San Ginesio si crea perché il festival non è una bolla chiusa, non siamo noi teatranti con i critici e gli operatori, a dirci quanto uno spettacolo sia bello, si forma proprio una dimensione aperta e questo per me è un grande stimolo, soprattutto perché devo fare i conti con lo spettatore, anche con quello che non è mai entrato in teatro, o l’ha fatto solo tramite il confronto televisivo.
Questo secondo me è un tema che, se fai il direttore artistico oggi in Italia, devi sempre tenere in considerazione: come non svendere il teatro? Come non ricorrere a scorciatoie? Come tenere alta l’ambizione del teatro ma allo stesso tempo non creare una distanza inesorabile con lo spettatore che magari del teatro conosce poco?
Per me è una palestra enorme, sto imparando tantissimo dalle persone di San Ginesio e non solo dalla parte istituzionale ma anche proprio dagli abitanti del borgo. Sono loro l’obiettivo e lo stimolo e anche rispetto a questo, ribadisco, è proprio molto coerente, molto radicale la mia scelta di far fare tutto agli attori. Per fare un esempio, le serate di apertura e chiusura le condurrà Christian La Rosa, un attore che attualmente è in Argentina, che tutti conosciamo; proprio un attore di teatro che conosce il teatro e che ho ritenuto certamente più adatto rispetto un presentatore che magari non conosce nulla del percorso del festival.
Possiamo parlare di una militanza dell’attore?
Sì, certo. A San Ginesio fanno tutti gli attori e questa è una richiesta di apertura da parte di un mondo che spesso dimentica purtroppo di essere all’interno di un Paese, di una comunità. Quando il teatro si parla addosso e si guarda l’ombelico smette di avere la sua funzione politica.
E cosa ci dici dei giovani? Immagino che la popolazione giovane di San Ginesio, in qualche modo, fruisca ciò che accade nella settimana del festival. Come si pone rispetto a questo?
Io penso che uno dei motivi per cui è importante portare anche da fuori tanti giovani sia proprio creare un dialogo. Da quattro anni lavoro cona scuola del Teatro Stabile di Torino e da un anno ne sono il direttore. Ebbene, da quattro anni porto gli allievi, tra i 18 e i 24, a San Ginesio per tutta la durata del festival, proprio per creare un dialogo tra i giovani attori e i giovani del borgo, perché non sia solo uno scambio di un’ora durante lo spettacolo ma uno scambio continuativo: tra una chiacchiera e l’altra, un aperitivo e l’altro, si parla di teatro ma si parla anche di vita, si parla di interessi, si parla di “l’anno prossimo io inizio l’università… io vado a finire in quella città più grande… chissà cosa ne sarà di me…”. Creare luoghi aperti e non chiusi crea delle conseguenze e le conseguenze spesso sono il vero motore della vicenda, nel senso che vedere quaranta ragazzi che si parlano, lontano dai telefoni e occhi negli occhi, dei loro sogni e delle loro ambizioni è sicuramente una vittoria per noi.
Ma perché, secondo te, questo è così raro da trovare, in riferimento a contesti teatrali soprattutto?
Guarda io sono molto attento, ad esempio, al teatro tedesco che mi ha formato e penso che al Deutsches Theater di Berlino c’è il calcio Balilla nel foyer, c’è il dj set… Alcuni luoghi in Italia hanno cominciato ad approcciare questo tipo di impostazione; penso al Teatro delle Passioni, penso al Teatro Bellini di Napoli. Il teatro deve essere un luogo che crea dialogo quotidiano e questa non è una battaglia adolescenziale, è una battaglia molto importante, più importante del fare bene uno spettacolo, creare un luogo che sia attraente e non respingente per le nuove generazioni è fondamentale e questo passa innanzi tutto dal prezzo dei biglietti, passa banalmente dal calcio Balilla… Lo prendo a esempio ma è un simbolo: io ho un calcetto, un pingpong, un bar e un dj set, quindi io ventenne, anche se non frequento solitamente il teatro, mi sento accolto, vedo uno spazio che mi racconta, una grammatica che riconosco. E poi in sala ti capiterà lo spettacolo più vicino al tuo grado, al tuo percorso, che ti parlerà un po’ di più, un’altra volta in cui sarà un po’ più complesso e ti parlerà di meno; ma magari l’anno dopo ti ci avvicinerai ancora e lo sentirai più tuo. La macchina è complessa, è molto complessa, perché non si tratta di appiattire la grammatica e di semplificare per aprire, si tratta di trovare la giusta mediazione senza abbassare mai l’offerta.
A proposito di offerta: il tema si quest’anno è Furore. Raccontacene un po’…
Ovviamente il romanzo di Steinbeck ha fatto il suo: racconta un viaggio verso il sole, fallimentare e doloroso ma comunque un viaggio bellissimo. Leggendolo l’anno scorso mi sono detto: che bel termine furore, quanto siamo abituati a usarlo solo in accezione negativa, e invece ha una sua bellissima complessità. E poi mi piace ascoltare gli spettacoli, gli artisti, cosa mi raccontano gli spettacoli che vedo, quale filo rosso ricostruiscono.
In quest’anno di teatro il furore è tornato spesso. Per esempio, vedendo Wonder Woman di Latella – un testo che noi ospiteremo – i ragazzi della scuola hanno discusso animatamente su cosa sia giusto portare in teatro e cosa no, perché questo furore può essere politico. Poi ho visto il Tondelli di Licia Lanera e ho pensato che è bello ritrovare in scena un autore che, come Testori, è rappresentante di qualcosa che può essere assolutamente definito come furore. Quindi ho ripensato a quale spettacolo me l’ha raccontato anche in passato, per accogliere un lavoro storico come il Pinocchio della Compagnia del Carretto, con il furore di questo oggetto-uomo e la violenza che da esso scaturisce.
Tanti autori e tante le compagni, che mi hanno riportato questo furore.
Un furore che però è prima di tutto creativo: quello dei giovani che si approcciano al teatro, e che magari può rendere alcuni spettacoli sporchi, meno precisi ma vivi. È il sentimento del romanzo, del viaggio: spero che vedremo un viaggio all’insegna del furo.
Ginesio Fest 2025 | San Ginesio 20-25 agosto 2025