RENZO FRANCABANDERA | Ha preso il via lo scorso weekend la Biennale Teatro 2025, sotto la direzione artistica di Willem Dafoe, un’edizione dal titolo Theatre is Body – Body is Poetry, dedicata a un’esplorazione del teatro come corpo, poesia e rituale, con un focus sulla presenza fisica e sull’essenza performativa dell’arte scenica. Dafoe ha concepito la rassegna attorno a un manifesto che celebra l’intelligenza del corpo e la sua capacità di creare connessioni immediate con il pubblico, soprattutto in un’era dominata dal virtuale: “Il corpo, la sua presenza, la sua intelligenza oltre il nostro controllo, è il cuore pulsante del teatro. Guida l’incontro tra palco e pubblico, creando una comunità istantanea”.
Questa visione si traduce in spettacoli che privilegiano la fisicità, la riflessione sul corpo e sulla migrazione stessa della pratica attorale dal corpo alla digitalità, e di cui si fanno rappresentazione esplicita due delle maggiori proposte del primo weekend di programmazione, ovvero Call Me Paris di Thönnes e Symphony of Rats di The Wooster Group, di cui Dafoe fu cofondatore e che viene premiato con il Leone d’Oro a Elisabeth LeCompte.
Sempre a quel gruppo di ricerca e in particolare a Richard Foreman è dedicato anche No Title (An Experiment), performance di Dafoe con Simonetta Solder .
È un’edizione che guarda ai Maestri che hanno ispirato il teatro degli ultimi 50 anni, da Eugenio Barba (presente con una versione made in Odin dell’Amleto) a Ronconi, presente con una mostra fotografica sulla mitica edizione di Biennale 1975; fino ai maestri contemporanei che si avvicinano ai nuovi linguaggi: la sezione “Today’s Maestros” include I mangiatori di patate di Romeo Castellucci (site-specific sull’isola del Lazzaretto Vecchio). Die Seherin di Milo Rau, con Ursina Lardi, Changes di Thomas Ostermeier in prima italiana e nuovi registi della scena internazionale come Yana Eva Thönnes con Call Me Paris di cui parleremo di seguito, e Anthony Nikolchev (The (Un)Double), che esplorano temi come identità e violenza digitale.

Attraversiamo piacevolmente la cerimonia che trasforma in Leonessa dorata Elizabeth LeCompte, fondatrice di The Wooster Group: presentata dall’emozionato Willem Dafoe, suo ex compagno di vita e d’arte, che viene da lei persino giocosamente rimbrottato sulla postura fisica da tenere a inizio cerimonia, la regista, che neanche qui perde il gusto di dirigere la scena, fautrice dell’avanguardia teatrale USA degli anni Ottanta e Novanta, incanta per spirito e presenza. Buttafuoco premia la dama dello sperimentalismo scenico americano che in 50 e più anni ha rivoluzionato il teatro d’Oltreoceano, unendo classici, tecnologia e politica in opere come Hamlet e LSD. Nel discorso, allegro e scanzonato, LeCompte ha dedicato il premio alla compagnia, definendo il loro lavoro “un esperimento di corpi, macchine e fantasmi”. La cerimonia si è conclusa con un’intervista del giornalista radiofonico Lorenzo Pavolini, celebrando una pioniera che ha ispirato generazioni di sperimentatori teatrali, accompagnata nella brillante e ironica conversazione da Kate Valk, co-regista di questa ripresa di Symphony of Rats, spettacolo del 2024 proposto qui a Venezia in prima europea.

Nel pomeriggio di Domenica 1 giugno, partiamo dal Piccolo Arsenale con Yana Eva Thönnes, regista tedesca classe 1990 già nota per le sue sperimentazioni post-human e neoliberali con il collettivo The Agency, che ci consegna Call Me Paris, prima assoluta qui alla Biennale Teatro 2025 (poi il 21 e 22 marzo 2026 al Teatro Arena del Sole di Bologna con ERT che coproduce).
Si tratta di un’opera che è insieme memoir teatrale, autopsia generazionale e atto d’accusa contro la violenza dell’ipervisibilità.
Attraverso il dispositivo del ‘doppelgänger’ (il doppio, il sosia, il gemello), Thönnes sovrappone due biografie apparentemente distanti ma unite da un trauma speculare: quella di Paris Hilton, it-girl globale il cui sex-tape 1 Night in Paris (2004) divenne il primo scandalo pornografico virale dell’era pre-social, e quella di un’anonima adolescente di Bergisch Gladbach, Germania, soprannominata “Paris” per via di una somiglianza fisica con la più celebre icona, e vittima di una simile appropriazione indebita dell’intimità.
La scena, progettata da Katharina Pia Schütz come una stanza da letto lussuosa in tonalità Barbie-core (rosa satinato, letto rotondo), si trasformerà di fatto in un set cinematografico, smascherando la regia occulta che trasforma l’esperienza femminile in merce visiva. Le quattro ottime performer (Jule Böwe, Holger Bülow, Ruth Rosenfeld, Alina Stiegler) incarnano non solo le due Paris (quella vera e quella di borgata, più imbolsita dell’originale e in pigiama) ma anche le proiezioni collettive che le hanno ridotte a icone senza agenzia: il gioco di specchi tra Hilton e la sua sosia tedesca rivela come, negli anni Duemila, ogni piccolo paese avesse “la sua Paris”, sacrificata all’altare della pornografia amatoriale e del gossip digitale. Thönnes dissocia abilmente i piani temporali: gli stessi anni che per Hilton furono l’apice della fama (The Simple Life, i profumi da due miliardi di dollari) coincidono con l’incubo della ragazza di Bergisch Gladbach, il cui corpo diventa merce di scambio in una rete di violenza domestica e digitale.
Thönnes adotta un approccio chirurgico, definendo lo spettacolo “teatro anatomico”: sezionando il fenomeno Hilton, ne estrae il nucleo traumatico — la non-consensualità del sex-tape, il sessismo strutturale che trasformò una vittima in “sgualdrina” mentre assolveva l’ex fidanzato Rick Salomon. La regista riprende le tecniche immersive sviluppate con The Agency (come in Perfect Romance, 2018) per creare a più riprese un effetto di straniamento: prima una serie di flash luminosi, poi i tecnici di scena che irrompono verso il finale dello spettacolo quasi a interrompere le riprese e ripulire il set, espongono in controluce drammaturgica la macchina narrativa che costruisce il “personaggio Paris”, sia esso la star o l’anonima adolescente.

Il design sonoro di Ville Haimala amplifica questo cortocircuito, alternando un sottile e opprimente ambiente interno a una seconda parte di voci off che raccontano l’incontro fra l’involontaria star di periferia e il suo aguzzino, mentre i costumi di Elke von Sivers giocano con l’uniforme della femminilità tossica (tute Juicy Couture, parrucche bionde platinate che rendono tutti i personaggi in scena simili, replicanti di un modello-bambola).
La regista individua negli anni Duemila — definiti “l’ultimo decennio davvero misogino” prima del #MeToo — l’origine della sessualizzazione algoritmica dei corpi femminili. Thönnes mostra come Hilton, pur essendo un prodotto di quell’epoca, ne sia stata anche prigioniera: il memoir teatrale cita il documentario This Is Paris (2020), in cui l’ereditiera rivela gli abusi subiti alla Provo Canyon School, suggerendo che la sua iperfemminilità performativa fosse una maschera per sopravvivere al trauma. Parallelamente, la sosia tedesca rappresenta le Paris senza privilegi, quelle il cui corpo è stato espropriato senza la possibilità di trasformare il dolore in capitale simbolico, che la giovane alla fine proverà a rivendicare come risarcimento per quanto subito, in un incontro di cui ascoltiamo solo il sonoro off, come una registrazione nascosta, mentre in scena la ragazza si è trasformata in fatina.
Se la drammaturgia di Nils Haarmann è efficace nel mostrare la sistematicità della violenza di genere talvolta cade in una dicotomia semplificata: Hilton viene quasi santificata come vittima, mentre la complessità del suo personaggio — che ha sfruttato la notorietà del sex-tape per costruire il suo brand — rimane in ombra. Tuttavia, la scelta di usare il tedesco e l’inglese (con sottotitoli) crea un frattura linguistica che riflette l’irriducibilità del trauma a una singola narrazione.

Call Me Paris è un esperimento di teatro politico, che trasforma il palco in una ‘forensic room’ dove sezionare i cadaveri digitali dell’era pre-#MeToo. Manca forse di ironia (elemento che invece ha caratterizzato alcuni lavori precedente di Thönnes) ma guadagna in potenza eversiva, specialmente quando smonta il mito dell'”empowerment sessuale” come copertura per nuove forme di sfruttamento. Un monito necessario, in un’epoca in cui il revenge porn e l’AI deepfake ripropongono, in forme ancor più subdole, la stessa violenza che colpì Paris Hilton e la sua sosia tedesca.

Il Symphony of Rats che Elizabeth LeCompte e Kate Valk presentano all’Arsenale non è una semplice rivisitazione dell’opera di Richard Foreman del 1988 (che fu una delle creazioni di maggior successo per The Wooster Group) ma un vero e proprio palinsesto stratificato dove convivono la memoria del Performing Garage newyorkese e l’immaginario algoritmico contemporaneo. Se lo spettacolo originale, nato dalla collaborazione tra The Wooster Group e l’Ontological-Hysteric Theater, era un esercizio di “teatro come macchina metafisica” (per usare le parole di Foreman), questa nuova versione – definita dalle registe “un musical lisergico” – trasforma quel dispositivo in un’installazione live sull’impotenza politica nell’era dell’iperconnessione.
Lo spettacolo del 1988 ruotava attorno alla figura di un Presidente degli Stati Uniti grottesco, intrappolato in un labirinto di segni dove linguaggio e potere si neutralizzavano a vicenda. Quella figura ritorna nel remake ma, mentre Foreman lavorava su un’astrazione quasi beckettiana (“un uomo in una stanza che cerca di capire se esiste”), LeCompte e Valk inseriscono il personaggio (interpretato da Ari Fliakos con occhiali alla Top Gun e un giubbotto giallo fluorescente che ricorda quasi Star Trek e gli astronauti sull’Enterprise) in un ecosistema digitale. In primo piano un lungo tavolo ingombro di apparecchiature – lavagne, schermi OLED e una punching ball – ricrea la topografia caotica degli studi del Wooster Group, ma qui ogni oggetto è interfaccia: i dialoghi con IA (voci distorte che rispondono a comandi vocali), i Mukbang di YouTube (trasmissioni coreane online in cui una persona mangia del cibo mentre interagisce con il proprio pubblico) proiettati sullo sfondo diventano metafore del reale decostruito dallo streaming.

La colonna greca mozzata e sormontata da un pallone da basket – immagine simbolo di questa produzione – sintetizza l’approccio: un reperto archeologico (il classicismo foremaniano) ibridato con la cultura pop (il basket come simbolo del sogno americano). Non a caso LeCompte, nel discorso per il Leone d’Oro, ha parlato di “sedute spiritiche con i fantasmi del teatro”, rivelando come il lavoro sul testo sia stato un atto di ‘mediumship’ più che di regia.
Foreman aveva concepito l’opera come una “sinfonia” di non-sense, ma il Wooster Group ne ha esasperato la musicalità trasformandola in un concerto post-punk. Le tre canzoni inserite (Door Song, Human Feelings Song, Ice Cream Song) con testi originali di Foreman ma arrangiate da Suzzy Roche, creano un cortocircuito tra il vaudeville e l’autotune. Quando il Presidente canta “You call it music. I call it delivery mystification” davanti a un microfono che ne altera la voce in tempo reale, lo spettacolo raggiunge il suo apice: la democrazia come distorsione digitale, dove ogni discorso è processato da algoritmi. Non c’è quindi bisogno che questo presidente assomigli a nessun presidente reale, che la satira si impersonifichi. Siamo in un ambiente letteralmente etimologicamente “saturo” (l’etimologia del termine satira – dal latino “satura lanx”, il piatto ricolmo di primizie offerto agli dèi – trova una sorprendente corrispondenza nella scenografia ipertrofica di Symphony of Rats). Come nel vaso rituale traboccante di offerte eterogenee, lo spazio ideato da Elizabeth LeCompte e Kate Valk è un catalogo di oggetti disparati: lavagne, palloni da basket, punching bag, schermi OLED, colonne greche mozzate. Questa accumulazione non è casuale: riattiva la radice stessa della satira come genere della sovrabbondanza critica, dove l’affastellamento di segni vuole essere strumento di decostruzione del potere.

la scena di Symphony of Rats

Se nella Roma antica la satira mescolava linguaggi e registri per colpire le ipocrisie sociali, oggi il Wooster Group seppellisce il testo foremaniano sotto stratificazioni tecnologiche, dalle Voci distorte da IA che trasformano i monologhi del Presidente in vocaloid grotteschi, parodia dell’autorità svuotata di senso, agli schermi che moltiplicano corpi (come nel video-mukbang ispirato a YouTube), in una continua citazione dell’horror vacui della cultura digitale, in cui noi spettatori non capiamo più su quale piano narrativo ci troviamo e quale vicenda sia “reale”, ammesso che di reale si possa parlare.
In un collasso visivo continuo tra alto e basso, tra classico e trash, il disordine formale anche qui vuole destabilizzare, con un overload di segni che replica il cortocircuito della comunicazione contemporanea, dove l’informazione si fa rumore bianco.
Non a caso, il Presidente (Ari Fliakos) è un burattino che recita cliché da tweet mentre algoritmi ne manipolano la voce. Le canzoni di Suzzy Roche interrompono di tanto in tanto il flusso della vicenda surreale con una serie di melodie pop che ricordano le “cantica” della satira menippea, mentre l’IA trasforma il testo in nonsense. Anche gli attori (Niall Cunningham, Jim Fletcher) sono “appendici” della scenografia, come i satiri del dramma antico, ibridi tra umano e meccanico.
Nell’era dei deepfake, la satira di Wooster Group adotta e cita le tecnologie di sorveglianza (face tracking, voice modulation) per mostrarne l’assurdità. L’uso dell’IA non è mera sperimentazione tecnologica, come già in The B-Side (2016), il gruppo trasforma gli strumenti digitali in complici della narrazione: i sottotitoli proiettati (in italiano e inglese) a volte anticipano, a volte contraddicono i dialoghi, mentre i video di Yudam Hyung Seok Jeon propongono mappe neurali generative, un omino stilizzato che diventa estensione del carro dell’Orsa Maggiore. Siamo immersi nella “psico-robotica” citata nel programma di sala: se nel 1988 il potere si esercitava attraverso il controllo linguistico, oggi passa dalla manipolazione dell’attenzione: una satira post-digitale che ha l’intenzione di riattivare la forza originaria del genere, il rito caotico per esorcizzare il potere. Se Foreman nel 1988 scriveva “il teatro è un incidente che ci ricorda cosa abbiamo dimenticato di aver dimenticato”, qui il piatto troppo pieno si rovescia sugli spettatori, costringendoli a fare i conti con il disordine che hanno normalizzato.

Se del costume design di Antonia Belt che veste il Presidente come un Tom Cruise cyberpunk abbiamo già detto, e così pure del sound design di Eric Sluyter che usa il doppiaggio con voci fake e frequenze subacquee per simulare l’effetto “voce di Dio” dei video governativi, ulteriore effetto da wunderkammer transumana arriva dal lighting di Jennifer Tipton, che illumina i molti oggetti presenti in scena quasi come reliquie in un museo post-apocalittico.
La scelta di mantenere il testo integrale ma di frammentarlo in unità metriche (con intermezzi musicali e inserti video) trasforma lo spettacolo in un autoritratto del Wooster Group. Gli oggetti di scena – dalla sedia a rotelle riciclata da Brace Up! (1991) al mappamondo usato in Hamlet (2007) – sono citazioni della loro storia (come se questa ripresa fosse una sorta di narrazione di un percorso artistico lungo quarant’anni), mentre il Presidente, più che riferimento politico a qualcuno di esplicito, diventa paradossalmente una maschera per riflettere sul ruolo dell’artista in un mondo dominato dagli algoritmi. Insomma, si poteva pensare a una parodia di un qualche Trump ringiovanito  e invece in controluce si può intuire che la protagonista sia la manipolazione, la violenza sul codice teatrale stesso. E che la vittima di questa parodia dell’onnipotenza della rappresentazione sia l’attore stesso. Significativamente, Foreman – di solito iper-controllore delle sue opere – ha concesso piena libertà di rifare, di manipolare: “fatelo irriconoscibile, perchè voglio essere in prima fila a gridare: il mio era diverso!”, come ha confessato Lecompte durante la cerimonia di premiazione “da leonessa”.


In fondo questa versione, dall’estetica così poco europea e che quindi risulta interessante dal punto di vista critico, oltre il tormentone del piaciuto/non piaciuto, ci è utile per immaginare un nuovo teatro dell’assurdo ibridato e digitale.
Symphony of Rats non tradisce lo spirito originale: era già un’opera sulla perdita di controllo, e la nuova versione da questo punto di vista ne radicalizza il presupposto: difficile acciuffare un bandolo e tenerlo saldo. Qualche spettatore, all’uscita, scava nelle sue reminiscenze, invocando i lari dell’assurdo, la trimurti Beckett-Ionesco-Genet. Si cercano appigli in qualcosa di conosciuto, per decodificare questa nuova sensazione di vuoto, di noia e smarrimento così infarcita di dolby surround e visione digitale.
A conti fatti, di quei protocolli alcune consistenze vengono convocate: dai dialoghi circolari alla trama non lineare, con un’atmosfera di disperazione meta (e pata)fisica. Si ripetono frasi vuote, che rivelano l’alienazione del linguaggio, dentro uno scenario sociale che si intravede, fatto di conformismo e totalitarismo, con un medico che assomiglia tanto allo scienziato pazzo di Ritorno al futuro.
L’uso di situazioni grottesche e ripetizioni evidenziano il nonsenso di una scena piena di stimoli da iperconnessione. Fatichiamo a pensarci, ma effettivamente assomiglia alla vita quotidiana, ancor più del teatro di Ionesco, che non a caso rifiutava l’etichetta di “assurdo”, preferendo “teatro del non-senso”. Ed effettivamente, un po’ come in Genet, i personaggi in scena, abitanti di una sorta di stazione spaziale, recitano ruoli di piccolo potere in un gioco che ricorda quasi il finale di Arancia Meccanica, esplorando identità fluide e dinamiche di dominazione. Quando il Presidente/Fliakos imita il discorso del Grande dittatore di Chaplin giocando a palla con il globo terrestre, la citazione non è solo politica: è una riflessione sul teatro come ultimo spazio dove esercitare la possibilità di incidere sulla realtà ormai impossibile altrove.
A distanza di 37 anni, questo Symphony of Rats dimostra che l’avanguardia non intende invecchiare ma si vuole  riprogrammare. Mentre la colonna mozzata ricorda che ogni classico è un frammento da riassemblare, gli schermi OLED dimostrano che persino i topi (metafora foremaniana dell’umanità) hanno oggi un doppio digitale. In un’epoca di deepfake e guerre memetiche, la “sinfonia” diventa il soundrack perfetto: un caos organizzato dove, come scriveva Foreman, “l’unica verità è la vertigine”.

CALL ME PARIS

Testo e regia Yana Eva Thönnes
Con Jule Böwe, Holger Bülow, Ruth Rosenfeld, Alina Stiegler
Scenografia Katharina Pia Schütz
Costumi Elke von Sivers
Design sonoro Ville Haimala
Drammaturgia Nils Haarmann
Design luci Marcel Kirsten
Coproduzione La Biennale di Venezia, Schaubühne Berlin, Emilia Romagna Teatro ERT – Teatro Nazionale
Con il supporto di Heinz und Heide Dürr Stiftung
Lingue Tedesco, Inglese,
Durata 100’ (prima assoluta)

SYMPHONY OF RATS

Testo Richard Foreman
Regia Elizabeth LeCompte, Kate Valk
Creato da The Wooster Group
Con Niall Cunningham, Jim Fletcher, Ari Fliakos, Andrew Maillet, Tavish Miller, Michaela Murphy, Guillermo Resto
Scenografia Elizabeth LeCompte
Design sonoro e musica Eric Sluyter
Design video Yudam Hyung Seok Jeon
Design luci Jennifer Tipton, Evan Anderson
Luci aggiuntive David Sexton
Costumi Antonia Belt
Assistente alla regia e direttore di scena Michaela Murphy
Suono e video aggiuntivi Andrew Maillet
Tecnico audio e video Dan Dobson
Drammaturgia Matthew Dipple
Assistente regia Alessandro Magania
Direttore tecnico Tavish Miller
Direttore di produzione Aaron Amodt
Produttore Cynthia Hedstrom
Organizzazione Monika Wunderer
Traduzione e adattamento sovratitoli Matilde Vigna
Produzione The Wooster Group
Coproduzione piece by piece productions
Anno e durata 2024, 75’ (prima europea)

Biennale Teatro, Venezia (Arsenale, Teatro alle Tese) | 1 giugno 2025