RITA CIRRINCIONE | Primo festival internazionale di cinema lgbt in Sicilia, concepito, nato e realizzato a Palermo nel 2010 in risposta alla domanda di una cultura attenta ai diritti della persona e di un pensiero critico e non omologato sul mondo, da quindici anni il Sicilia Queer filmfest è riuscito a conquistarsi un posto anche nel panorama nazionale e internazionale con nuove visioni e rappresentazioni di una contemporaneità in continuo movimento.
Svoltasi a Palermo dal 25 al 31 maggio 2025, sotto la consueta direzione artistica di Andrea Inzerillo al Cinema De Seta ai Cantieri Culturali alla Zisa, anche questa XV edizione del SQff ha avuto inizio con l’assegnazione del Premio Nino Gennaro.
Intitolato alla memoria del poeta, drammaturgo e attivista corleonese sin dalla prima edizione, il premio viene attribuito “a un/a artista o intellettuale che si sia distinto/a in modo particolare per la sua attività e il suo impegno finalizzati alla diffusione internazionale della cultura queer, alla valorizzazione delle differenze e alla difesa dei diritti delle persone glbt”. Assegnato negli anni passati agli autori teatrali Ricci e Forte, al filosofo spagnolo Preciado, al rapper americano Mikki Blanco, a Massimo Milani e Gino Campanella, storici attivisti palermitani per i diritti lgbti+, allo scrittore statunitense David Leavitt, solo per citare alcuni nomi, il Premio Nino Gennaro quest’anno è andato a Massimo Verdastro.
Attore e regista, Massimo Verdastro ha alle spalle una lunga e intensa attività teatrale, iniziata a Roma nel 1977 con Silvio Benedetto con il quale nell’80 è approdato a Palermo dove ha conosciuto Nino Gennaro durante la stagione del Teatro del Vicolo. Qui frequenta la scuola di teatro Teatès con Michele Perriera, dove si diploma. Ha collaborato successivamente con registi del teatro italiano tra cui Federico Tiezzi, Luca Ronconi, Giancarlo Cauteruccio, e ha ricevuto importanti riconoscimenti come il Premio UBU nel 2002 e il premio ETI nel 2007.
Da anni amorevole custode e ostinato divulgatore dell’opera di Nino Gennaro, Massimo Verdastro come regista e attore ha portato il teatro dell’amico su alcuni dei più importanti palcoscenici italiani dando una visibilità nazionale impensabile per una figura di intellettuale indipendente, insofferente agli ambienti mainstream, che metteva in scena i suoi spettacoli in “luoghi non teatrali” come gli appartamenti o i centri sociali. Grazie a Verdastro opere come Una Divina di Palermo, La via del Sexo, Rosso Liberty, Alla Fine Del Pianeta, Non ho tempo di badare ai miei killer, hanno avuto la possibilità di raggiungere e farsi apprezzare da importanti personalità del mondo del teatro e della critica come Nico Garrone. Quest’ultimo, in una interessante lettura critica di Teatro Madre, intravide nei suoi personaggi alcune “affinità elettive” con i Sei personaggi pirandelliani, echi verghiani nella figura di nonno Teodoro e, nel passaggio dalla società contadina e patriarcale a quella metropolitana e postindustriale che attraversa l’opera di Gennaro, quella mutazione antropologica della società italiana degli anni ’60 e ‘70 profetizzata da Pier Paolo Pasolini, al quale spesso è stato accostato insieme ad autori come Genet, Ginsberg o Koltés.

Nino Gennaro inizia a Corleone – suo paese natale, terra di mafia e patria di Luciano Liggio – le sue battaglie contro il “tardo mafioso impero”, contro il patriarcato e in difesa dei diritti delle persone omosessuali. Lì fonda un circolo intitolato a Placido Rizzotto, sindacalista corleonese ucciso dalla mafia, e diventa promotore di una serie di iniziative culturali e politiche che portano nel piccolo centro dell’entroterra siciliano temi scomodi e provocatori. Tra i giovani che lo seguono c’è l’allora minorenne Maria Di Carlo, poi divenuta sua compagna di vita fino alla sua morte, che arriva a denunciare e a far condannare il padre padrone, un medico molto conosciuto in paese. Dopo la risonanza mediatica della vicenda, diventata irrespirabile l’aria di Corleone, Gennaro si trasferisce a Palermo dove prosegue le sue lotte “urbane” e la sua militanza nel movimento lgbt, e dove inizia la sua attività poetica e drammaturgica dopo l’incontro con il regista e pittore italo-argentino Silvio Benedetto. Siamo negli anni Ottanta e con un gruppo di attori non professionisti della nuova famiglia “queer” porta il suo Teatro Madre nelle università, nei circoli e nelle case con messinscene artigianali in cui le torce sono le luci di scena e le basi musicali provengono da gracidanti registratori.
Per sua natura refrattario a prendere una forma definita, il teatro/vita di Nino Gennaro, pur esprimendosi per frammenti, in un mix fatto di corpi marginali, lotte, disobbedienza, provocazioni, affetti, riesce a dare vita a un unicum riconoscibile, grazie anche alla sua inconfondibile lingua costellata di neologismi, di termini anglosassoni o dialettali (il suo siciliano distillato è quanto di più lontano da quello maccheronico di Camilleri) che ha dato vita a frasi iconiche diventate manifesto della comunità queer e non solo.
Per origini, momento storico, vissuto biografico e orientamento sessuale, Gennaro ha incarnato laceranti conflitti riuscendo tuttavia a trovare sintesi impossibili e a unire mondi per la sua capacità di guardare il fondo umano al di là di ruoli e maschere. Nino era portatore di istanze collettive ma anche intime e privatissime; era irriverente e dissacrante fino alla ferocia e sapeva essere dolce e poetico; era scomodo ed eversivo ma anche accogliente e inclusivo; era provocatorio e di rottura e allo stesso tempo bisognoso di amore e di pacificazione. Anche la sua vita sessuale fu segnata dal paradosso: onnivora e scandalosa eppure venata da un sottile misticismo che si accentuò negli ultimi anni, già malato di Aids, portandolo a morire quasi in odore di una santità laica.
Incontriamo Massimo Verdastro per commentare il Premio appena ricevuto e per ripercorrere alcune tappe di un viaggio umano e artistico che l’ha visto al fianco dell’amico poeta e drammaturgo, a partire dagli esordi nel mondo teatrale fino agli ultimi giorni di vita prima della sua prematura morte nel 1995.
Massimo Verdastro, in quindici anni dalla sua istituzione, il Premio Nino Gennaro è andato a scrittori, filosofi, registi, fotografi e attivisti di varie nazionalità che hanno promosso la cultura queer. L’assegnazione di quest’anno mi ha fatto pensare a un cerchio che, dopo un giro largo, si chiude in una scelta scontata, quasi dovuta. Sembra che esserti fatto “voce e corpo” di Nino Gennaro finora ti abbia impedito di vincere il Premio Nino Gennaro. Come hai vissuto questo riconoscimento?
Mi ha fatto piacere certamente. A dire il vero non me l’aspettavo. Quando Andrea Inzerillo, direttore del festival, me lo ha comunicato quasi non ci credevo. Voglio ringraziarlo assieme a tutto il Sicilia Queer filmfest per l’accoglienza e l’attenzione che mi hanno riservato. Sono stati giorni davvero belli e intensi. Probabilmente non c’era momento migliore di questo per il conferimento del premio, visto che il 2025 è l’anno in cui ricorrono trenta anni dalla morte di Gennaro e il festival festeggia la quindicesima edizione.
Con Ho un progetto: includervi hai trasformato il momento della premiazione in vera e propria performance in omaggio a Nino chiamando a raccolta figure come quella di Rori Quattrocchi, Massimo Milani, Nando Bagnasco, Silvio Benedetto, Pippo Zimmardi, quasi a ricreare il mondo di Nino. Ci racconti l’idea che hai seguito per costruirla?
Per il giorno della premiazione Andrea Inzerillo mi ha proposto di creare un momento in cui io avrei potuto raccontare al pubblico la storia umana e artistica che mi lega a Nino Gennaro. E così ho voluto accanto a me alcune figure, tra le più significative, che hanno fatto e fanno parte della mia vita: persone amiche molto vicine a Gennaro, che in questi anni mi hanno sostenuto collaborando alla realizzazione dei tanti progetti dedicati a lui. E così si è venuto a creare un momento performativo molto articolato in cui ognuna di queste persone ha offerto una propria testimonianza oltre a proiezioni di immagini e video. Sono riuscito in un’ora e mezza, non dico a dire tutto, sarebbe stato impossibile, ma comunque a restituire alcuni momenti importanti di un percorso umano e artistico che è parte fondante della mia esistenza. È stato bello, davvero emozionante.

Forte della tua importante storia artistica, dopo la sua morte hai portato avanti l’attività di divulgazione dell’opera di Nino Gennaro in modo costante e sistematico. Farti carico di custodirla e promuoverla è stato un preciso progetto sin dall’inizio o è si è sviluppato negli anni? Ci racconti le tappe più importanti? Ci sono stati momenti in cui questa sorta di “identificazione” ti ha pesato?
Credo che si sia sviluppato negli anni. E comunque fin dal debutto del primo spettacolo su testi di Gennaro “Una divina di Palermo”, sentivo che quelle parole avrebbero sfondato la “quarta parete”, e così è stato. Il successo di pubblico e di critica con cui è stato accolto lo spettacolo nelle molte città italiane ha rafforzato poi la mia convinzione e rinnovato l’entusiasmo di voler portare avanti questo progetto teatrale che ancora di più mi univa a Nino. Dopo “Una divina di Palermo” sono nati altri spettacoli tra i quali uno prodotto dal Teatro Biondo Stabile di Palermo, dal titolo “Non ho tempo di badare ai miei killer” nato in collaborazione con Giuseppe Cutino. In questa occasione Gennaro è stato annoverato tra gli autori più significativi di Palermo, insieme a Perriera, Scaldati, Licata. Certo non è stato semplice per me. Si incontrano spesso difficoltà a proporre drammaturgia contemporanea, figuriamoci nel promuovere un autore misconosciuto, ma la convinzione, la perseveranza e la dedizione che sempre ho riposto in questo progetto, alla fine hanno portato ottimi risultati. E poi ci tenevo che questo autore così speciale potesse avere visibilità, che potesse essere conosciuto, letto, apprezzato. Per quanto riguarda il mio lavoro di attore e regista in relazione alla scrittura di Gennaro, non credo che si possa parlare di “identificazione” ma direi piuttosto di interpretazione. Non mi sono identificato in lui, non l’ho sostituito, sono stato il suo “portavoce”, “un medium bello di cose belle” come lui amava definirmi, ho dato corpo e voce alla sua parola, l’ho fatta mia.
Nel tuo periodo palermitano hai fatto parte della famiglia elettiva che Nino – maestro nella (p)ars construens come nella (p)ars destruens – seppe comporre attorno a sé sulle ceneri della famiglia tradizionale che aveva demolito, quasi precorrendo la famiglia queer concettualizzata da Michela Murgia. Come ricordi quegli anni?
Nino Gennaro transfuga da Corleone nel 1978, l’anno in cui ci siamo conosciuti, assieme a Maria Di Carlo e a sua sorella Giusi, creò a Palermo la sua famiglia di elezione in opposizione alla famiglia d’origine con la quale aveva rotto i ponti. Fu quella una scelta liberatoria, ma anche molto dolorosa. Nel testo teatrale “Teatro Madre” che poi è anche il nome della sua compagnia fondata a Palermo nel 1980, Nino nelle vesti di autore e attore assieme agli altri componenti di questa nuova famiglia, che saranno quindi i sei personaggi della pièce, tenta un dialogo di riavvicinamento, di ricucitura con quelle figure parentali da cui si era allontanato, considerandole non più come portatrici di un ruolo, ma semplicemente come persone con i loro desideri, le loro aspirazioni, le loro fragilità. “Teatro Madre” è un’opera bellissima, toccante, commovente. La misi in scena nel 1999 ai Cantieri Culturali della Zisa con il sostegno del Comune di Palermo e la collaborazione della compagnia di Sandro Lombardi e Federico Tiezzi con la quale lavoravo. Sì, credo che Nino Gennaro abbia anticipato di gran lunga il pensiero che Michela Murgia ha sviluppato in questi ultimi anni. Nino ci ha lasciato trenta anni fa, ma la sua famiglia di elezione è viva, presente, le persone che ne fanno parte: Maria, Giusi, Nino Rocca, Giuliano, sono sempre pronte ad accogliere, aiutare, amare gli altri. Sono onorato di farne parte da sempre. È la mia famiglia palermitana.
In Ho un progetto: includervi è stato previsto un intervento video con Silvio Benedetto che ha aperto un mondo, quello della Palermo della metà degli anni ’70 e degli anni ’80, dell’esperienza pioneristica del teatro negli appartamenti di cui, insieme a Nino Gennaro, Michele Perriera, hai fatto parte. Erano gli anni formidabili del Teatro del Vicolo. Che ricordo ne hai?
Per questa serata ho chiesto a Silvio Benedetto, il grande pittore e regista italo argentino, di mandarci un saluto e così con la generosità che da sempre lo contraddistingue ci ha inviato un video che ha emozionato tutti. Oltre ad esprimere parole di affetto e ammirazione per me e per Nino, ha ricordato gli anni del Teatro del Vicolo. Nell’estate del 1978 arrivai a Palermo per la prima volta con la compagnia teatrale di Silvio Benedetto e dell’attrice Alida Giardina. Soggiornavamo all’Hotel Centrale dove ogni sera facevamo spettacoli nel cortile dell’albergo. Gli spettatori accedevano dall’adiacente Vicolo Marotta. Questi spettacoli ideati e diretti da Benedetto si basavano su testi di Artaud, De Ghelderode, Mishima e prevedevano il coinvolgimento del pubblico. Noi attori e attrici cercavamo di relazionarci con i singoli spettatori creando momenti di dialogo a volte molto intimi. Il teatro diventava un pretesto per parlare di noi, delle nostre vite, dei nostri desideri. Si cercava il contatto con l’altro, l’ascolto reciproco, l’abbraccio. Nino si unì a noi condividendo quell’esperienza così anticonvenzionale, lontana da stereotipi e protezioni. Mettemmo in scena anche un testo di Michele Perriera che poi incontrai proprio durante questi spettacoli. Perriera di lì a poco avrebbe fondato la scuola di teatro Teatès, la prima nel meridione d’Italia, che frequentai e che determinò la mia permanenza a Palermo per i successivi sei anni. Credo che questa mia scelta sia stata qualcosa di unico in quegli anni: abbandonai Roma e la mia famiglia per andare a Palermo a studiare alla scuola di Perriera. Al Teatro del vicolo conobbi anche Letizia Battaglia e Franco Zecchin; un giovanissimo Giovanni Sollima; i fratelli Cuticchio e tante altre persone meravigliose.
A margine della manifestazione c’è stata la presentazione di Caro amico ti scrivevo. Lettere 1991/1995 e altri scritti che raccoglie la corrispondenza tra te e Nino e che mette in luce la sua attività di amanuense degli ultimi anni della sua vita quando scrisse a mano per gli amici oltre duemila esemplari di libretti GioiaAttiva. Questa iniziativa è stata solo una coincidenza o è stata voluta?
Per ricordare Nino Gennaro a trenta anni dalla morte, ho voluto raccogliere nel libro “Caro amico ti scrivevo”, una selezione di sue lettere a me inviate durante il periodo della malattia, tra il 1991 e il 1995, anni in cui Gennaro intraprende un percorso spirituale scrivendo tantissime copie del Libretto Gioiattiva in cui coniuga la filosofia Zen con gli insegnamenti di Francesco d’Assisi, la sapienza dei monaci Sufi con l’esperienza di Madre Teresa di Calcutta, il tutto riverberato di solarità mediterranea. Piuttosto che tenerle chiuse in un cassetto, ho sentito il bisogno di condividerle con coloro che vorranno leggerle, perché credo che, oltre ad essere testimonianza viva di una profonda amicizia accomunata da un progetto teatrale che proprio in quegli anni cominciava a svilupparsi, rivelino uno spessore umano e poetico di rara e lucida intensità; una voce di fine novecento di cui oggi più che mai si sente la mancanza. Il libro si avvale di una bellissima prefazione di Lina Prosa e dei preziosi contributi di Silvio Benedetto, Giuseppe Cutino, Massimo Milani e Andrea Inzerillo oltre ad una serie di fotografie di importanti fotografi: Letizia Battaglia, Riccardo Liberati, Achille Le Pera e altri. Il volume è stato pubblicato da EFG, una coraggiosa casa editrice di Gubbio.
Per concludere, vista la complessità e la vastità della figura di Nino Gennaro e della sua opera, da suo profondo conoscitore come descriveresti in modo epigrafico il suo lascito artistico, culturale e politico?
Resta il suo lavoro di scrittore, le sue opere. La scrittura come atto creativo, come ponte di congiunzione tra sé e l’altro. La parola come atto d’amore. La parola come motore di accoglienza. Concluderei con l’incipit di uno scritto di Nino Gennaro che compare in “Teatro madre” in cui sono raccolti quattro testi teatrali e altri scritti – volume curato da me, con la prefazione di Goffredo Fofi e pubblicato nel 2005 da Editoria & Spettacolo –: “Fate che le vostre case siano luoghi di ascolto per i figli del mondo, se altre case prima della vostra non vi avessero accolto che ne sarebbe di voi ora?”.
HO UN PROGETTO: INCLUDERVI
Massimo Verdastro racconta Nino Gennaro
con Aurora Quattrocchi, Francesca Della Monica, Nando Bagnasco, Massimo Milani, Pippo Zimmardi.
Intervento video di Silvio Benedetto
Cinema De Seta – Cantieri Culturali alla Zisa
24 maggio 2025