RENZO FRANCABANDERA | Nella trama viva della scena teatrale italiana, il Teatro del Lemming emerge come un crogiolo di sperimentazione, dove il gesto artistico si fa indagine filosofica sul linguaggio. Fondato a Rovigo diversi decenni fa, il collettivo, guidato dalla carismatica figura di Massimo Munaro, ha saputo innestare nella comunità locale un’inquietudine creativa, trasformando il teatro non solo in rappresentazione, ma in un vero e proprio laboratorio del pensiero. La sua ricerca, sospesa fra corpo e parola, interroga i limiti della comunicazione, sfidando le convenzioni con una poetica che è insieme critica e visionaria, e che da sempre si aggrappa al mito per indagare spesso anche la psiche dello spettatore. In questi giorni, il festival Opera Prima offre, nel capoluogo polesano, una nuova occasione per misurare l’impatto del Lemming: qui, tra debutti e riflessioni condivise, si conferma quella vocazione a fare del palcoscenico uno spazio di dialogo comunitario, riconosciuto perfino dal governatore Zaia, il quale ha voluto rilasciare un attestato di benemerenza nei giorni di inaugurazione della rassegna.

Speriamo che anche il Comune di Rovigo, che non abbiamo visto esprimere presenze di prima linea negli eventi legati al Festival, vorrà leggere l’indicazione interessante che lo storico governatore di questo territorio ha lanciato per tornare a esprimere la sua vicinanza e il suo sostegno alla compagnia a un Festival grazie al quale giungono in città artisti e pensatori dall’Italia e non solo. Il teatro, in questa logica, cessa di essere mero intrattenimento e diventa rito collettivo, dove ogni gesto è una domanda aperta che stimola la comunità a crescere insieme ma nel rispetto delle differenze. In un’epoca di linguaggi impoveriti, il Lemming ricorda che la scena può ancora essere un luogo di azione poetica, un’oasi di senso in un deserto di rumore.
Durante la giornata del 12 giugno si è disegnata una costellazione di pratiche sceniche con le quali il teatro si fa strumento di resistenza, indagine e riscoperta. MOMEC con Dunque, siamo! ha trasformato il Loggiato della Guardia in un laboratorio di emancipazione individuale: quindici minuti per ogni spettatore chiamato a compiere un gesto di ribellione contro l’immobilismo contemporaneo. Le presenze quasi silenziose di Fiorella Tommasini e Antonia Bertagnon, accompagnate dalle musiche di Guðnadóttir e Glass, hanno c reato, dentro ambienti ovattati ma non isolati dal contesto sonoro della città, un rito laico che sfida la passività senza retorica ma con un’essenzialità che lascia il segno e che invita lo spettatore partecipante a riferire al microfono quale sia la propria personalissima rivoluzione.
Poco dopo, nel bellissimo chiostro del Convento dei Carmelitani, Annalisa Limardi in NO inscena una battaglia per l’autodeterminazione dove il microfono diventa simbolo delle pressioni esterne, in uno scontro fisico e vocale che, dalla sottomissione, approda alla riconquista della propria voce. La performer accoglie gli spettatori di spalle. Annuisce a qualcuno fuori scena con la testa. Lo spettacolo è di fatto un percorso per passare dall’obbediente Sì sociale al No soggettivo.

La performance, singolare per la commistione fra gesto coreografico e, nella seconda parte, rima rap, rivela una ricerca sul corpo che definisce l’evolvere di un personale linguaggio di resistenza; un linguaggio ancora in crescita e che può trovare ulteriore sofisticazione e accuratezza nella scelta delle parole e dei gesti, eliminando progressivamente la cifra più didascalica e riconoscibile per giungere a un risultato di cui si vedono già interessanti potenzialità.
La serata si è chiusa con Veni di Alot Teatro, dove undici corpi immobili, in schiera nel buio silenzioso del Teatro Studio, hanno dato vita a un paesaggio sonoro di polifonie mediterranee, canti sacri spogliati della loro dimensione religiosa per diventare invocazioni universali. Nicola Fadda guida questo giovane coro contemporaneo verso una prospettiva di purezza formale che trasforma la tradizione orale in atto politico; un lavoro che sfida la frettolosità dello sguardo contemporaneo. Il progetto è interessante e fondato, oltre che sull’idea del canto corale come epifania scenica e che affonda nella storia delle pratiche di fine Novecento da Grotowski in avanti, anche su un rigoroso impianto formale, che si nutre di simmetrie visive nella disposizione dei costumi e dei performer rispetto allo sguardo degli spettatori. Simmetria cercata ma poi rotta per evitare proprio la prevedibilità. Il controluce iniziale nel quale i performer escono dal buio di fondo sala con grande lentezza, guarda chiaramente a ai ritmi coreografici di Sciarroni e ai gesti dilatati in stile Chiara Bersani, ma con un’afflato poetico specifico.

La cifra più interessante di questo esperimento – che guadagnerà con le repliche in pulizia del suono e dell’intreccio fluido delle voci – è proprio la capacità di creare nello spettatore una stranissima sensazione di attesa che, più che con le partiture sonore ha a che fare con il modo in cui vengono offerte, sia dal punto di vista acustico che performativo, con gesti minimali, specifici spazi di riverbero e in alcuni casi al bordo della trance, come in un paio di sequenze monocordi delle cantanti, che sembrano riprodurre l’eco di ammalianti campane.
Bella e molto ben pensata la relazione fra pieni e vuoti, fra suono e silenzio, con una poetica consapevolezza dell’intervallo e della pausa come spazi del poetico. Lo spettatore viene così amabilmente obbligato a quel rispetto del silenzio e alla fine viene coinvolto in una educante pratica di ascolto. È un lavoro che è giusto possa avere nuove opportunità per crescere, circolare e incontrare nuovi e ulteriori pubblici.
Torniamo a casa con la sensazione di aver preso parte a tre esperienze apparentemente distanti ma unite da una stessa urgenza: usare il teatro non per rappresentare ma per agire, per scavare nelle memorie individuali e collettive, per tracciare confini e poi superarli. Qui non si trattava di assistere a spettacoli ma di partecipare a esperienze che continuano a risuonare anche oltre la durata formale delle performance, lasciando nello spettatore non risposte ma domande aperte.
da un’idea di Mario Previato
con Fiorella Tommasini, Antonia Bertagnon
allestimento Fioreria Boscolo di Marta
assistenza tecnica Alessio Papa
musiche Hildur Guðnadóttir, Philipp Glass, Matt Haimovitz
produzione Festival Opera Prima
di e con Annalisa Limardi
sound design Saverology
occhio esterno Penelope Morout
con il supporto di Centro Servizi Culturali S.Chiara, AriaTeatro ETS, Pergine Festival, Tuttoteatro.com
VENI
uno studio
con Sebastiano Amidani, Cecilia Braga, Rachele Bonini, Maddalena Borghesi, Margherita Caviezel, Diego Finazzi, Luca Rella, Matilda Morosini, Giorgia Paolillo, Cecilia Uberti Foppa, Ludovica Tagariello, Giulia Villa
ideazione, drammaturgia musicale, cura dei cori Nicola Fadda
assistenza drammaturgica Margherita Caviezel
costumi Ludovica Tagariello
produzione Alot Teatro
Festival Opera Prima, Rovigo | 12 giugno 2025