LEONARDO DELFANTI | Benvenuti a Rovigo, una delle province più dimenticate d’Italia. Terra sospesa tra la geometria delle risaie e la malinconia verticale delle ciminiere, contesa dai fiumi Adige e Po, che da sempre ne scandiscono i ritmi, i fasti, le sciagure. Qui, dove il tempo della seconda industrializzazione sembra essersi accartocciato su sé stesso, il 14 giugno è andata in scena una nuova giornata del Festival Opera Prima, giunto alla sua ventunesima edizione.
Badate bene: Opera Prima non è un festival come gli altri. Qui la parola “teatro” non indica mai una comfort zone, una replica rassicurante, un luogo di contenimento. Al contrario, è promessa di attrito, di scoperta, di confronto vivo. È uno spazio dove l’esposizione non è scelta estetica ma necessità, dove l’immersione è totale, e l’incontro – tra corpi, pensiero e presenza – accade davvero.
Questa è la seconda parte del nostro reportage. La prima, firmata dal direttore Renzo Francabandera, è disponibile qui.
Il nostro viaggio comincia dentro la Fabbrica dello Zucchero, imponente reliquia post-industriale alle porte della città. Una cattedrale di mattoni, ruvida, concreta, che tutto rimbomba e amplifica. L’ambiente è denso, il calore opprimente. Ma forse è giusto così: stiamo entrando in un corpo-fabbrica, in un organismo in cui la materia e il suono vibrano assieme. A inaugurare la giornata è la performance silenziosa della compagnia iracheno-svedese ibodies, Freedom, At Last, dedicata, almeno nelle intenzioni delle autrici Anmar Taha e Josephine Gray, alla condizione femminile nei territori medio orientali della privazione e della resistenza.
La scena si apre su una figura completamente velata, isolata. Una presenza più che un personaggio. Due altre donne, anch’esse velate, entrano portando secchi d’acqua, accentuando il tono rituale del gesto scenico. Poi, come contraltare, emerge una donna nuda da una scatola. Capelli sul volto, anonimato e nudità si fondono. La tensione visiva tra i due poli – l’occultamento e l’esposizione – struttura l’intero impianto drammaturgico.
Le registe orchestrano un’azione lenta, in cui le due figure velate, attraverso movimenti grotteschi, danno corpo a una pantomima che si contrappone al candore della figura scoperta. Quest’ultima, presto distesa (forse morta?) su un tavolo, viene lavata, profumata, sepolta. Il corpo come oggetto sacro e saccheggiato, campo di negoziazione politica e di senso.
La composizione è ieratica, quasi onirica. L’attenzione alla cura estetica è evidente, ma manca una linea narrativa capace di orientare lo spettatore verso una riflessione politica. Il titolo promette un’affermazione – la libertà, finalmente – ma sulla scena resta un’inquietudine palpabile anche tra gli spettatori. Il teatro di ibodies non racconta, evoca. Lavora per tableaux, più che per sviluppo drammaturgico. Il risultato è un’esperienza ipnotica – complice anche l’afa – che interroga lo spettatore più sul piano percettivo che su quello analitico. Ma si pone una domanda: che cosa resta della libertà, quando il corpo è il primo campo di battaglia?
Il sole cala su Rovigo mentre ci spostiamo al Teatro Studio per Attorno a Troia. Lo spettacolo, firmato da Massimo Munaro, direttore del Teatro del Lemming, non è una semplice messinscena: è un’esperienza immersiva, sensoriale, poetica. Il pubblico viene privato dei propri oggetti personali e, guidato mano nella mano da un attore, entra in uno spazio sospeso tra sogno e trauma. Ma qui, a differenza di molte proposte più estetizzanti, la politica è presente fin dall’inizio. E non se ne va più.
La privazione iniziale – quasi kafkiana – mette in una condizione diversa: più vulnerabile, più esposta. L’ascolto si fa percettivo, profondo. Si entra in una Troia che non è solo rovina e pianto epico, ma paradigma di ogni civiltà sull’orlo del collasso. Uno specchio deformante, eppure fedelissimo, della nostra condizione contemporanea: “Anche se lo spettatore non segue più il flusso delle parole, queste entrano dentro di lui in una dimensione forse più ipnotica, più onirica, ma forse anche più profonda” spiega Munaro. E in effetti è proprio questa sospensione del logos a rendere possibile il coinvolgimento, che è anche politico e affettivo.
I performer – in gran parte giovani attori in formazione – restituiscono con particolare intensità l’oscillazione tragica tra eros e pietas, tra distruttore e distrutto, tra migrante e carnefice. La regia rinuncia all’impatto scenografico e lavora per sottrazione, scolpendo il buio e la luce radente in otto quadri evocativi. Ogni spettatore attraversa un proprio itinerario emotivo: c’è chi riconosce la perdita di un figlio, chi quella di un amore, chi la fine della propria quiete quotidiana. Ogni gesto, sussurro, frammento sonoro diventa una chiamata: a sentire, a restare, ad agire.
In questa dinamica si rivela la funzione trasformativa del teatro di Munaro, che affida al simbolo – non come allegoria da decifrare, ma come coccio spezzato – una parte fondamentale della drammaturgia: “Io a te le offro come la mia parte del coccio, che tu come spettatore completi quando le prendi in mano”, spiega il regista. Non è il significato a essere imposto, ma l’interpretazione a essere condivisa: “Per quello io chiamo il mio il teatro dello spettatore, perché per me è lo spettatore l’ermeneutica”.
Le liriche di Omero si intrecciano così con le cifre dell’industria bellica contemporanea, con immagini e oggetti dal forte potere evocativo: una rosa gialla, un bambolotto. “Per qualcuno significa qualcosa, per qualcun altro qualcos’altro”, sottolinea Munaro, consapevole che il senso nasce nella relazione, non nella regia. Il mito, del resto, non ha bisogno di essere compreso: “Anche se io non capisco niente della guerra di Troia, questi miti già abitano uno spettatore”, sono archetipi, memorie collettive che ci abitano anche inconsciamente. Ed è in questa zona liminare che il teatro può ancora incidere, spostare, cambiare:
Il percorso si chiude con una lettera. Non un souvenir, ma un appello. Un invito a prendere posizione, a rispondere. A testimoniare – al Lemming e a noi stessi – che non siamo rimasti indifferenti.
Quando scende la notte su Piazza Vittorio Emanuele II, l’aria si fa più leggera e la scena si apre a un altro tipo di racconto. È quello delle sorelle Charly ed Eriel Santagado, fondatrici della compagnia Mignolo Dance, con sede tra Stati Uniti e Belgio. In We’re too young to write a memoir le due performer danno corpo a una ricerca coreografica che nasce dall’intimità più radicale: quella del legame di sangue e dell’infanzia condivisa.
Il titolo è già una dichiarazione di poetica: siamo troppo giovani per scrivere un’autobiografia, ma non per esplorare come il confronto costante – tra sorelle, tra corpi, tra stili – lasci tracce nel modo in cui ci muoviamo, ci esprimiamo, ci relazioniamo. L’una è lo specchio e il limite dell’altra e in scena il loro dialogo si sviluppa come una scrittura a due mani che, invece di fondersi in un unico stile, rivendica la diversità, in primis nel linguaggio coreografico.
La performance, della durata di venti minuti, alterna momenti di precisione tecnica a derive giocose, quasi buffonesche, in cui si avverte il background condiviso di teatro fisico, danza contemporanea e arte circense. Il gesto è ora lieve, ora puntuto, ma sempre esatto, sostenuto da una relazione autentica che riesce a coinvolgere e divertire il pubblico della piazza. Il gioco tra imitazione e rottura, simmetria e divergenza, genera una tensione che tiene viva la scena.
Peccato solo che l’ambiente urbano, con i suoi rumori imprevisti e le sue distrazioni visive, sembri più interferire che arricchire la ricerca delle performer. Abituate probabilmente a spazi chiusi e controllati, le sorelle Santagado appaiono a tratti in difficoltà nel gestire la dispersione tipica della scena all’aperto. Forse questa fragilità finisce per raccontare qualcosa in più delle due autrici: che l’intimità, quando esposta allo sguardo pubblico, è sempre un rischio, forse, necessario per continuare a danzare.
FREEDOM, AT LAST
regia Anmar Taha
drammaturgia Josephine Gray
con Josephine Gray, Milda Sutkevičiūtė, Adele Cammarata
scene, luci, suono, costumi, oggetti Anmar Taha, Josephine Gray
Ilio, Troiane, Aeneas
con Diana Ferrantini, Katia Raguso, Veronica Di Bussolo, Maddalena Dal Maso, Cosimo Munaro, Chiara Tosti, Riccardo Perin, Nicole Crespi
drammaturgia, musica e regia: Massimo Munaro
WE’RE TOO YOUNG TO WRITE A MEMOIR
di e con Charly Santagado, Eriel Santagado
Festival Opera Prima, Rovigo | 14 giugno 2025