LAURA NOVELLI | Quanta inquietudine nelle straordinarie pagine in cui Anna Maria Ortese racconta i suoi viaggi. Quanta acutezza di sguardo. Quanta capacità di comprensione e, insieme, quanta amarezza nei giudizi, nelle riflessioni di carattere socio-politico, nei ritratti umani riservati a un’Italia post-bellica così tanto ferita, dolorante, contraddittoria. Non è una lettura scontata né facile né comoda. Eppure, ogni nuovo avvicinamento al mondo della scrittrice, ne schiude di inesplorati; diventa un viaggio dentro di noi, dentro la nostra Storia patria, dentro i nostri luoghi, dentro la modernità.
Lo dimostrano le tante sensazioni vitali che scaturiscono dalla visione de La lente scura, spettacolo con cui il Teatro Torlonia – elegante sala all’italiana edificata a metà ‘800 nel parco dell’omonima villa e gestita dal Teatro di Roma – ha chiuso la sua felice stagione 2024-2025 (fatta eccezione per l’evento Me Myself and AI/A Broad svoltosi il 15 giugno), sugellando il successo di una linea programmatica costruita proprio sulla parola letteraria e poetica, sulla visione illuminata di alcuni grandi autori, sul vigore di una lingua che sappia ancora e ancora e ancora parlare all’oggi e sappia, tanto più, nutrirne lo spirito.

Inserito nella rassegna Racconti romani – ciclo di eventi dedicati a indagare Roma e le sue trasformazioni attraverso la voce di celebri scrittori quali, oltre Ortese, Flaiano, Debenedetti, Ginzburg, Parise, Moravia – e diretto dalla sensibilità registica di Lucia Rocco, il lavoro è, a nostro avviso, un piccolo gioiello di sintesi letterario-teatrale. Quarantacinque minuti di spettacolo dove la materia scenica, pur se copiosamente ispirata ad alcuni degli articoli di viaggio redatti da Ortese nell’arco di oltre un decennio (e poi confluiti nel volume La lente scura, edito da Adelphi con curatela di Luca Clerici), riesce a condensare l’intero “pellegrinaggio” interiore che la protagonista compie dal suo arrivo a Roma fino al giorno della sua partenza: «La prima sensazione che si prova arrivando a Roma dal Nord con un treno della mattina – scrive in La diligenza della capitale – è quella di una straordinaria euforia. Sul primo momento, questa città non sembra neppure vera. […]». E la protagonista non potrebbe essere altri che la scrittrice stessa, qui affidata alla matura espressività della brava Francesca Piccolo, sempre misurata e incisiva, cui si affianca l’eclettica presenza di un giovane uomo, Federico Gariglio, chiamato a ricoprire diversi ruoli.
Il tema del viaggio è d’altronde ben chiaro sin dall’incipit della pièce, laddove vediamo gli interpreti seduti uno di fronte all’altra nel vagone di un treno dominato da un’ampia finestra dietro cui “scorrono” immagini di paesaggi familiari (contributi video di Alessandro Papa). Nulla è messo a fuoco chiaramente nella semplice, ma significativa, scenografia firmata da Marta Crisolini Malatesta: una sorta di spazio allusivo di molti spazi altri, pronto ad accogliere la narrazione intermittente di Ortese/Piccolo e di accompagnarne le diverse tappe, scandite anche dai puntuali intarsi musicali di Ran Bagno, senza mai cedere al descrittivismo o al didascalico.

Nulla è messo a fuoco anche perché la concretezza dei luoghi e delle situazioni viene assorbita in una dimensione essenzialmente psicologica, dove esterno e interiorità si con-fondono e dove tutto è osservato attraverso una lente che apre al dettaglio, che scruta la profondità, che legge la bellezza ma che, essendo scura, restituisce, giocoforza, un mondo offuscato, torbido, duro, ingiusto, talvolta persino angosciante. E di questo mondo Roma – città alla quale, ci piace ricordare, diversi anni fa proprio il Teatro di Roma dedicò il corposo progetto Ritratto di una capitale – è una cartina di tornasole emblematica. Il desiderio di trascorrervi un’estate «silenziosa» cede presto il passo alle difficoltà legate all’alloggio, alla solitudine, alla mancanza di denaro, alla «debolezza delle creature ospiti», alla ricerca di vecchi amici con cui condividere una cena.
Lo sguardo attento dell’autrice di Corpo celeste e Il mare non bagna Napoli attraversa palazzi e rovine della capitale, indugia su piazze e strade celebri, arriva fino al mare di Ostia: «Lo spazio, la luce in cui sono immerse le piazze, le strade, i gialli palazzi umbertini; le prime deliziose rovine, le frescure delle fontane, pini improvvisi che si aprono nel cielo di cobalto preannunciano una tale libertà fantastica della natura, in cui giacciono storia e costume, da darvi il capogiro»

Uno sguardo, il suo, che accarezza la magia della città eterna, notando però la «disattenzione perenne degli uomini che la abitano», denunciando i mali di una borghesia che non è vera borghesia quanto, piuttosto, un «grumo di sangue» formatosi grazie alla massiccia emigrazione dal Sud, «una gigantesca cucina per menù privati», una classe sociale alla quale mancano innocenza e spensieratezza e i cui unici ideali sono «mangiare e abbigliarsi».
In questo sorprendente puzzle di memorie e suggestioni, irrompono poi i versi di una celebre poesia di Montale (La casa dei doganieri); irrompe un senso di terrore implacabile che riempie le notti insonni agganciandosi al ricordo di un libro di Kierkegaard sull’angoscia. Angoscia per chi non possiede un’abitazione, una terra, un luogo. Angoscia per chi si vede privato dei propri diritti fondamentali. Per chi non ha libertà perché è stato espropriato da un Paese che appartiene solo a pochi privilegiati. Angoscia per un’Italia che stenta a riprendersi dalle rovine di un conflitto disastroso. Un’angoscia di cui Ortese stessa era ben consapevole, tanto che nella postfazione a La lente scura leggiamo: «C’è stato un tempo, quello compreso tra la fine della guerra e gli ultimi anni del Cinquanta, in cui non ho fatto che viaggiare. Le cose viste – uomini e paesi – le ho viste sempre deformate dalla sofferenza, dall’ansia, come da veloci illusioni di tregue e riposi. Il mio problema di fondo era sempre il problema economico: un eufemismo per non dichiarare troppo apertamente la questione della sopravvivenza fisica. Dunque, dopo la guerra, ancora questioni di sopravvivenza fisica […]».
Questo impegno politico attraversa gran parte della partitura drammaturgica della pièce, sposandosi ad un lirismo mai banale e mai enfatico (le “tregue”, appunto, i “riposi”) dentro al quale le voci dei personaggi evocati – tenuti costantemente in bilico tra immedesimazione e punte di straniamento dai due giovani interpreti, capaci di ottime modulazioni vocali – rimangono tuttavia in lontananza, distaccate, distanti, come se il desiderio di perdersi in ogni altrove e di perdersi, tanto più, nella lingua non avesse alcun senso senza una lucida consapevolezza della Storia e dei bisogni degli ultimi.
Qui crediamo risieda uno dei maggiori pregi di questo lavoro prezioso, cui l’originale lettura scenica di Rocco (interessante regista che il prossimo anno, sempre al Teatro Torlonia, curerà un allestimento di Le notti bianche di Dostoevskij) regala compattezza di visione, ritmo e un avvolgente registro poetico, non scevro da note nostalgiche, non tanto per un tempo e un momento storico ormai passati quanto per la forza con cui questa scrittura ne ha saputo cogliere le pieghe più nascoste. Una nostalgia che, dunque, non guarda indietro quanto al presente e al futuro. Viene naturale, infatti, pensare a cosa avrebbe detto Anna Maria Ortese del nostro mondo sconquassato, delle angosce contemporanee, di questa Roma confusa che si dimena ogni giorno tra secolare bellezza e ingiustizia sociale. Di questa nostra Italia ancora oggi ombrosa, contraddittoria, di cui la scrittrice stessa, seduta nel treno che la riporta al Nord, osserva le grandi distese verdi, i boschi, e «i poveri che si coprono la fronte» sotto il manto della natura. Le sue parole arrivano forti alla platea, rivelandosi di un’attualità sconcertante. Impossibile, perciò, non uscire da teatro mossi da un irrefrenabile desiderio di leggerle. E rileggerle.
LA LENTE SCURA
dai testi di Anna Maria Ortese
con Francesca Piccolo e Federico Gariglio
regia di Lucia Rocco
contributo sonoro Ran Bagno
contributo video Alessandro Papa
progetto scenico Marta Crisolini Malatesta
Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Teatro Torlonia, Roma | 6 giugno 2025