GIORGIA VALERI / PAC LAB*| Dal 2009, Zona K abita il quartiere Isola di Milano. Ci abita ma non sempre ci ha vissuto: questo spazio culturale e teatrale fondato da Valentina Kastlunger e Valentina Picariello ha spesso praticato il luogo della soglia, il margine che divide le mura delle istituzioni dalla città brada, gli impomatati spettacoli di stagione dalle proposte di giovani gruppi europei di ricerca teatrale partecipativa. I Rimini Protokoll, ad esempio, sono arrivati per la prima volta a Milano nel 2014 proprio grazie al loro invito, aprendo un buco nella stratosfera teatrale milanese per l’ingresso dell’avanguardia europea. L’obiettivo di questa apertura non era tanto il teatro per il teatro, ma l’approfondimento di macrotemi, spesso socio-politici, che interrogano il presente attraverso strumenti a impatto immediato. Ecco quindi il teatro: site-specific, nella maggior parte dei casi, e spesso anche in buona collaborazione con i “big” della scena italiana.
Una realtà piccola, agile, profondamente radicata nel territorio, che per anni ha fatto delle geografie urbane il proprio campo d’azione, inseguendo linguaggi performativi capaci di dialogare con lo spazio e con le persone che lo abitano.
Eppure qualcosa sembra essersi incrinato. Le esperienze partecipative, quella rocambolesca giornata al Parco delle Groane che lo scorso giugno aveva portato il teatro tra i cespugli e i silenzi della periferia milanese, non sembrano avere più presa sul presente. Come se il teatro partecipativo avesse esaurito la propria carica propulsiva. Come se la distanza tra spettatori, attori, associazioni e territori si fosse allungata e assottigliata al punto da esaurire la forza elastica. Lo confermano le stesse direttrici artistiche che, in una nostra intervista per i dieci anni dell’associazione, avevano dichiarato di aver scelto deliberatamente di non fare un festival. E invece…
Si rientra dalla periferia e si riapproda nel cuore della città, anche se decentrato: Fabbrica del Vapore, Teatro Out Off e Teatro Fontana, oltre a luoghi non teatrali, diventano spazio, anzi, “zone” di LIFE, festival che torna a verticalizzare i rapporti e ricostruire la quarta parete. Nel sovraffollato circuito dei festival teatrali, LIFE vuole ricavarsi uno spazio d’ascolto dove il teatro diventi strumento di aggregazione, di dibattito, più che di spettacolarità. La partecipazione diretta viene cambiata di segno, si sfrutta per creare dibattito, ricerca, tensione all’ascolto più che all’azione impulsiva. To see Life; to see the world recitava il motto dell’omonima rivista statunitense di fotogiornalismo. Ed è anche il leitmotiv che ha guidato la scelta dei gruppi, degli artisti e dei performer presenti in cartellone: 22 gruppi di artisti, di cui solo 6 nomi italiani. E forse è proprio lo sguardo internazionale a segnare il vero scarto del nuovo corso di Zona K. Per “vedere il mondo” oggi non basta più esperirlo: serve sviscerarlo, decodificarlo. Non a caso, lo slow journalism sta guadagnando terreno rispetto alle notizie usa e getta. Zona K intercetta questa esigenza di profondità: un’indagine lenta, fondata su fatti e documenti, che rifiuta la logica delle breaking news. Quando questo lavoro si traduce in immagini sceniche, il teatro diventa strumento di comprensione immediata, ma non superficiale.
Tra gli enormi corridoi di mattoni rossi della Fabbrica del Vapore, due sono gli spazi che hanno ospitato la prima parte del Festival LIFE, andato in scena dal 7 al 19 maggio: lo spazio Messina e la maestosa “Cattedrale” che, con la loro architettura post industriale, hanno disposto perfettamente la scenografia concettuale – lo stato grezzo della materia da rimodellare attraverso la riflessione.
Rabih Mroué e Lina Majdalanie, Agrupación Señor Serrano, Boris Nikitin, Nicola Di Chio, Mariam Selima Fieno e Christian Elia, Kepler -452, Lola Arias e Arkadi Zaides sono solo alcuni nomi della scena nazionale e internazionale che si servono del teatro documentario per raccontare la realtà in cui vivono. Tra questi anche il giornalista tedesco Jean Peters, del collettivo CORRECTIV, che, presidiato da due guardie del corpo, accoglie il pubblico da un piccolo palco e un semplice sfondo bianco per slides alle spalle per la conferenza-spettacolo Schwarz Rot Braun (Nero Rosso Marrone). Ottobre 2023, Sicilia. Peters riceve un invito goffo su whatsapp per «un incontro patriottico tedesco per risolvere problemi tedeschi». È così che inizia una delle più grandi inchieste degli ultimi anni sull’estrema destra in Germania. Il racconto che ne fa, in un inglese con forte accento tedesco, è coinvolgente: mostra selfie personali, ricostruisce tassello dopo tassello la strategia con cui lui e il suo collettivo sono riusciti a infiltrarsi nella villa a Postdam dove si è tenuto l’incontro; tutto con ironia e un sostenuto ritmo da podcast true crime ma sorretto da prove concrete e verificabili. È una dimostrazione a soggetto di come il giornalismo d’inchiesta, oggi, sia una delle poche armi rimaste all’opposizione: alla pubblicazione dell’inchiesta sul secret plan against Germany – nel quale i membri dei partiti dell’estrema destra tedesca, tra cui AfD, prevedevano un “remigrazione” di cittadini non propriamente tedeschi, la ridefinizione di concetto di cittadino tedesco e la raccolta di fondi per le elezioni – la Germania ha risposto con una feroce protesta, la più grande dalla fine della Seconda guerra mondiale. Il rapporto frontale con il pubblico impedisce al giornalista di perdere il tracciato della narrazione: Peters accoglie gli sguardi attoniti e i sussulti e li trasforma, per naturale conclusione di racconto, nel canto corale di Bella ciao, partecipato e sostenuto a gran voce dai presenti.

D’altro tipo e d’altro impatto è lo spettacolo del coreografo bielorusso Arkadi Zaides, stavolta immerso nell’immenso spazio della Cattedrale, dove Zaides allestisce due gradinate, una frontale e l’altra lungo il lato destro del palcoscenico. Dall’altro lato, un lungo tavolo di regia e, frontalmente, un enorme schermo bianco. Sgabello, microfono e fogli in mano, Zaides mette a tema un’altra urgenza contemporanea attraverso l’espediente di una catastrofe passata: il disastro di Černobyl’, raccontato dal punto di vista dell’impatto sulla storia personale del coreografo fino al suo più grande riverbero in tutto il mondo occidentale. The cloud è quindi un termine ombrello sotto il quale Zaides mescola la riflessione sulla parcelizzazione fisica delle cellule corporee sottoposte alle radiazioni radioattive, ma anche della disgregazione delle informazioni operate dall’AI per nutrire il proprio database e della minuziosa selezione di notizie del governo bielorusso da far trapelare all’estero. Mentre Zaides legge un lungo monologo che, come da manuale di teatro documentario, attraversa la propria microstoria per riflettere sulla più grande Storia, i tecnici al tavolo di regia utilizzano tool di intelligenza artificiale per tradurre simultaneamente il testo e per suddividere le immagini in un complesso reticolato di testi e fotografie che va via via prendendo vita autonoma sullo schermo retrostante. Finché la narrazione digitale non prende il sopravvento di quella monologica, si distorce e spezza il discorso attraverso distorsioni audio e video, lasciando spazio alla performance di Misha Demoustier in tuta antiradiazioni.
In tutto lo spettacolo non c’è mai appello diretto all’ethos degli spettatori: solo suggestioni visive e sonore che suggeriscono lo schieramento politico della restituzione scenica; mai una presa di posizione esplicita. La commistione di linguaggi enfatizza il concetto di frammentazione, ma segmenta anche il contenuto. Forse è proprio questo l’obiettivo stesso dello spettacolo: cercare di costruire autonomamente una propria mappa concettuale per muoversi nell’universo frammentato delle informazioni. S perde tuttavia immediatezza e si apre la strada a un certo solipsismo.

La scena come lente per leggere il presente è anche la cifra stilistica del collettivo Kepler 452, che Nicola Borghesi, Enrico Baraldi e Paola Aiello hanno fondato nel 2015 con l’obiettivo di scandagliare le storture contemporanee attraverso il teatro documentario. La zona blu quindi rientra perfettamente nelle maglie dell’ampio reticolato tessuto da LIFE, che include con questa lettura anche il tema dell’immigrazione. Lo scorso luglio 2024, i Kepler-452 si sono imbarcati sulla Sea-Watch 5, nave che si occupa di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo. Gli appunti di bordo dell’esperienza quindi sono stati trasformati in una prima lettura scenica, La zona blu, con commento musicale della contrabbassista Francesca Baccolini.
In scena solo Nicola Borghesi racconta l’esperienza con spirito divertito ma mai comico: gli attivisti tedeschi sono «punkabbestia che dirigono le azioni sulla nave con spirito calvinista», che in un mese hanno soccorso 156 persone, sbarcate poi nel porto di La Spezia, con l’aiuto del gruppo italiano. Non c’è neanche in questo caso schieramento politico esplicito: è il racconto in sé che suggerisce una prospettiva, un’angolatura da cui leggere la realtà.

E si torna allora al principio: LIFE vuole rappresentare una riflessione su che cosa significa guardare, raccontare, testimoniare, senza necessariamente partecipare. In questo senso, la nuova direzione di Zona K si pone in continuità più profonda di quanto sembri con il proprio passato: non un tradimento della relazione, ma uno scarto, un cambio di prospettiva. Dal teatro partecipativo al teatro della testimonianza, dove l’urgenza non è più agire nello spazio, ma decifrare e decodificare l’enorme quantità di dati, narrazioni, immagini che ci circondano.
È uno sguardo che non si limita a documentare, ma cerca un’etica dell’osservazione. Il festival è un invito a restare in bilico tra empatia e distanza, tra immedesimazione e dubbio. Ma come ogni scommessa, contiene già in sé il nucleo della propria disfatta: questa formula crea senza dubbio aggregazione e dibattito, ma se si rivolge a un pubblico già consapevole? Non è comunque un problema diretto di Zona K, ma della generica ricezione teatrale stessa. L’intuizione di fondo resta solida: in un’epoca di sovraccarico informativo, il teatro può tornare a essere uno spazio privilegiato di elaborazione collettiva, purché sappia rinnovare i propri linguaggi senza perdere la propria specificità.
SCHWARZ ROT BRAUN
di e con Jean Peters
presentato da CORRECTIV
THE CLOUD
coreografia e regia Arkadi Zaides
drammaturgia Igor Dobricic
sviluppo AI e suono Axel Chemla-Romeu-Santos
direttore della fotografia Artur Castro Freire
performer Misha Demoustier, Arkadi Zaides
direzione tecnica Etienne Exbrayat
co-produzione Montpellier Danse (FR), Charleroi Danse (BE), Maison
de la Danse (FR), Mousonturm (DE), CAMPO (BE)
sostegno alla residenza PACT Zollverein (DE), Orbita | Spellbound National Production Center for Dance (IT), Dialoghi / Villa Manin, CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli
Venezia Giulia (IT)
LA ZONA BLU
di Kepler-452
scritto e interpretato da Nicola Borghesi
video di Enrico Baraldi
compositrice contrabbassista Francesca Baccolini
luci Tiziano Ruggia
in collaborazione con Sea-Watch
Fabbrica del Vapore, Milano | 7-19 maggio 2025
* PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture, anche in collaborazione con docenti e università italiane, per permettere il completamento e la tutorship formativa di nuovi sguardi critici per la scena contemporanea e i linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac ne accoglie sul sito gli articoli, seguendone nel tempo la pratica della scrittura critica.