VALENTINA SORTE | Dall’11 al 29 giugno la rassegna di arti performative Rami d’ORA, promossa dal collettivo Laagam, torna nuovamente ad animare le Orobie valtellinesi con performance ed esperienze in natura, diramandosi dalla sede di ORA a Castellaccio/Piateda alla provincia di Sondrio, da Morbegno a Tirano, per allungarsi – novità di quest’anno – sino a Spriana Valmalenco, dove si trova il Teatro più piccolo del mondo.
Diretta da Erica Meucci e Francesca Siracusa, con la direzione organizzativa di Riccardo Olivier, anche questa quinta edizione, dal titolo Farsi riparo, intreccia in modo originale le arti performative con l’esperienza intima del territorio. Si può infatti considerare Rami d’ORA come una dimora temporanea nel cuore della Valtellina, una dimora fatta di rami e di fili, di cura e di cultura, dove trovare rifugio e relazione. Il tempo di una sosta.
Nella prima settimana del festival siamo riusciti a seguire tre lavori: Je Suisse (or Not) dell’artista svizzera Camilla Parini/Collettivo Treppenwitz che l’11 giugno ha inaugurato il cartellone con uno spettacolo per massimo due spettatori alla volta; a seguire il 12 giugno Danzare gli alberi di e con la performer valtellinese Katia Della Fonte, già nota al pubblico della rassegna; infine, il tableau vivant Murillo, lezioni di elemosina di Claudia Castellucci, con Silvia Ciancimino.
In Je Suisse (or Not) Camilla Parini compone e scompone un’idea di famiglia, di appartenenza identitaria e di memoria, condividendo con lo spettatore una versione inedita della propria storia personale, in bilico tra realtà e finzione, tra un urgente bisogno di raccontarsi e l’incapacità di definirsi.

La performance inizia già nell’atrio dell’appartamento scelto come location, presso Freeabile, l’Albergo Etico di Sondrio. Siamo all’ultimo piano. L’allestimento è molto curioso, sembra quasi un’installazione: ci sono fotografie di famiglia, o meglio collage fotografici di famiglia, una carta d’identità dell’artista da bambina, dei materiali turistici sulla Svizzera, sul ghiacciaio del Rodano; altri libri, un ritaglio di giornale che parla di Genetica dei ricordi del neurobiologo Andrea Levi; dei post-it con delle annotazioni personali.
Si continua all’interno dell’appartamento. Ad attendere c’è un orso polare che, seduto su una poltrona, fa accomodare lo spettatore e gli porge un album fotografico – uno di quelli tradizionali, intervallati dalle veline – sulla copertina si legge “Fragile”. Non resta che sfogliarlo. Ci sono collage fotografici che compongono quadri familiari, dichiaratamente fittizi ma fortemente desiderati, insieme a riflessioni molto intime. Ci sono espliciti riferimenti biografici – con date, luoghi, persone – e insolite incursioni di orsi polari. Man mano che si sfogliano le pagine la voce narrante passa dalla prima persona, ovvero Camilla, alla terza persona, l’orso. La stessa cosa avviene nei video che ogni tanto vengono proiettati su uno schermo di fronte allo spettatore: si alternano pellicole originali della famiglia sulle piste da sci e montaggi video con la giovane artista ticinese vestita da orso, negli stessi luoghi, anni dopo. I due piani narrativi vengono accostati, si passa dall’uno all’altro e viceversa.

Si tratta di un lavoro interessante che si interroga in modo profondo sui meccanismi di produzione della memoria (in particolare sulla memoria a lungo termine) ma soprattutto sui processi di selezione dei ricordi: quali ricordi conserviamo? Quali cancelliamo? Quali rimodelliamo inconsciamente per costruire una nostra narrazione personale?
Parini sfrutta e insiste a livello drammaturgico sulla stretta e inestricabile relazione tra realtà/finzione (spesso lo spettatore si domanda se ciò che vede è vero, reale o se si tratta di un’invenzione artistica) per indagare il modo in cui ciascuno di noi, attraverso un non-sempre-consapevole rimodellamento dei propri ricordi, costruisce una narrazione “ufficiale” e personale della propria vita. Quell’operazione che il neurobiologo Andrea Levi chiama “l’effetto Photoshop” della memoria. Qui però l’effetto non solo è evidente, ma volutamente sottolineato. Come scrive più volte Camilla Parini sull’album: «Dove finisce la mia storia e dove inizio io? Dove inizia la mia storia e dove finisco io?». Difficile dirlo, probabilmente impossibile. Allo spettatore, però, viene lasciata la possibilità di scegliere alla fine della performance tra realtà e finzione, gli viene chiesto, infatti, se togliere il costume all’orso polare oppure no.
Non è facile raccontare Je Suisse (or not), perché la drammaturgia di questo lavoro non è completamente scritta, ma prevede una partecipazione intima dello spettatore. Un suo tuffo nei ricordi e nelle proprie narrazioni familiari. Insomma, c’è un alto tasso di interferenze personali. Sicuramente attraverso l’uso dell’album, Camilla Parini riesce ad agganciare emotivamente il pubblico e a condurlo in un’originale e profonda ricerca sulla memoria. Nel suo lavoro, inoltre, esplora e ibrida diversi linguaggi, performativi e non: performance dal vivo, teatro partecipativo, collage fotografico, collage video e installazione. Tuttavia, ci sono alcuni momenti in cui lo spettatore avverte una sensazione di staticità, una certa mancanza di ritmo, date proprio da questa forma di narrazione. Rimane comunque un lavoro originale e interessante.

Il secondo appuntamento è con Katia Della Fonte, nei suggestivi Giardini di Palazzo Sertoli di Sondrio, un magnifico esempio di giardino d’arte. Qui lo spazio verde è concepito come un percorso museale all’aperto in cui le opere d’arte e le sculture di artisti nazionali e internazionali dialogano strettamente con gli elementi naturali del paesaggio in un processo di continue metamorfosi e variazioni.
Questo sito è stato scelto dall’artista valtellinese per proseguire il suo progetto di sensibilizzazione e di mappatura degli Spazi-Natura all’interno delle città. Il suo intento è quello di portare i cittadini a vivere gli spazi urbani con uno sguardo più attento e consapevole, capace di leggere nella presenza degli alberi, e in generale della natura, un elemento di grande bellezza e vitalità, superando la dicotomia tra urbano e naturale.
In Danzare gli alberi, Katia Della Fonte usa il movimento innanzitutto come strumento di conoscenza dell’ambiente circostante. La performance inizia infatti tra i rami di un mirto (forse un mirto crespo) posizionato al centro del giardino. L’artista esplora l’albero con gesti lenti e molto attenti, seguendo una direttrice verticale: dall’apparato radicale che vive – invisibile – sottoterra, alla spinta verticale e vigorosa del tronco e dei rami verso l’alto. È allo stesso tempo una danza di radicamento e di slancio. Ad un certo punto i suoi gesti diventano meno esplorativi e più simbiotici. I rami creano in realtà uno spazio circolare, da abitare con movimenti intimi e pieni, molto raccolti. O forse, sono proprio i gesti della performer a sottolineare all’interno dell’albero la presenza di questo spazio circolare.
Molto diverso il dialogo che l’artista intesse con un altro albero, poco lontano, probabilmente una particolare varietà di acero. Qui non ci sono direttrici verticali così nette, al contrario alcuni rami molto robusti creano come linee di sostegno, orizzontali, che consentono a Katia Della Fonte di accovacciarsi, come in un abbraccio accogliente. La connessione che riesce a creare con il mondo vegetale diventa in alcuni punti una profonda ibridazione, se non una vera e propria fusione, che regala visioni prodigiose che turbano ed emozionano. Brava.

Tutt’altra cornice quella scelta da Claudia Castellucci per il tableau vivant Murillo, lezioni di elemosina. Dagli spazi aperti ci ritroviamo infatti in uno spazio molto circoscritto, una piccola stanza in vicolo Meneghini 14. La performance concepita dall’artista è riservata a gruppi di massimo dodici persone alla volta. Le indicazioni che vengono date prima di entrare sono di girare attorno al soggetto come intorno ad una statua e, nell’eventualità, di sedersi alle spalle di chi osserva in piedi.
Il lavoro è dedicato al pittore seicentesco spagnolo Bartolomé Esteban Pérez Murillo, presente nel titolo e famoso per i suoi dipinti di misera gente, ritratta nell’atto di chiedere elemosina. Il primo impatto, entrando nella stanza. è quello dell’incertezza: si procede con cautela. Tutto è avvolto nel buio, c’è solo un cono di luce che taglia in obliquo lo spazio, ma il suo effetto è smorzato da una fitta nebbia che confonde forme e contorni. L’atmosfera è molto densa. L’occhio dello spettatore ha bisogno di tempo per mettere a fuoco lo spazio scenico e i suoi elementi. Quando finalmente ci riesce, quasi come un’epifania, compare la figura di Silvia Ciancimino. Indossa un mantello nero e un cappello a tesa larga che impediscono di riconoscere con precisione le sue fattezze. Dalla sua sagoma, una macchia scura, emergono però porzioni di corpo, porzioni di pelle nuda – i piedi, le mani e a volte il viso – su cui lo spettatore concentra la sua visione. Ora sono meno definite, ora sono più a fuoco, in base all’oscillazione della luce, anche se in realtà la luce è ferma. A muoversi sono la performer, che assume man mano diverse pose plastiche, e il pubblico che lungo un’ipotetica linea circolare insiste nell’osservazione del questuante.
Il tableau vivant Murillo è una vera e propria antologia di elemosine. Indaga i modi in cui tendere la mano per chiedere qualcosa, esplorando tutte le dicotomie del movimento: alto/basso, sopra/sotto, dentro/fuori. Dietro c’è uno studio molto attento e dettagliato del gesto, per intensità, durata e prospettiva. Claudia Castellucci – Leone d’Argento alla Biennale Danza di Venezia 2020 e co-fondatrice della Societas – lavora come uno scultore che attraverso la luce, il movimento e il suono (curato da Stefano Bartolini) fa emergere la forma/ le forme dalla materia. “L’immagine, è fatta”.
Alla potenza dell’immagine, si accompagna ovviamente una riflessione non scontata sul ruolo dello spettatore, all’interno e fuori dal tableau vivant. Se da una parte c’è chi chiede l’elemosina, dall’altra c’è chi guarda e allunga o ritrae il braccio. Le due figure sono complementari. Il gesto è allora ancora più potente perché contempla accanto a sé questa presenza/assenza. In un momento storico in cui la percentuale delle famiglie che vivono in povertà assoluta aumenta sempre di più, riflettere sulla questione dell’indigenza non è tanto o solo un fatto estetico, quanto un atto di consapevolezza etica, che ha implicazioni tanto personali e private, quanto collettive e pubbliche.
La direzione artistica di Rami d’ORA ha fatto un’altra volta centro. Oltre a presentare proposte artistiche di qualità che rendono il suo cartellone interessante, riesce ad affrontare questioni sempre molto attuali e vive – l’identità, la memoria, gli spazi urbani e la questione ambientale, la collettività e la relazione con l’altro – capaci di parlare al suo pubblico, che qui ritrova sempre una dimensione di cura. Un riparo temporaneo ma solido, dove appunto ospitare e creare vera cultura.
JE SUISSE (OR NOT)
di e con Camilla Parini
collaboratori artistici Francesca Sproccati, Simon Waldvogel
supporto drammaturgico Jessica Huber
tecnica Alessandro Macchi
produzione Collettivo Treppenwitz
coproduzione far° Nyon e Südpol Luzern nell’ambito del programma Extra TimePlus
con il sostegno di Pro Helvetia–Fondazione svizzera per la cultura, DECSRepubblica e Cantone Ticino–Fondo Swisslos, Fondation Ernst Göhner, FondationLandis&Gyr, Fondation Edith Maryon, Fondation Johnson, Città di Lugano, Comune di Agno
in collaborazione con FIT Festival Internazionale del Teatro e della scena contemporanea, LAC Lugano Arte e Cultura, l’Usine à Gaz Nyon e Cima Città
DANZARE GLI ALBERI
di e con Katia Della Fonte
MURILLO, LEZIONI DI ELEMOSINA
tableau vivant di Claudia Castellucci
interprete Silvia Ciancimino
musica e suono Stefano Bartolini
Rami d’ORA V | 11 maggio-29 giugno 2025