RENZO FRANCABANDERA | Strane le combinazioni della vita, che poi a volte combinazioni non sono. Forse davvero Willem Dafoe voleva il corto circuito. Voleva mettere assieme i segni più spinti della tradizione rituale del teatro senza orpelli, quello millenario, fatto di corpi, azioni e voci, fino al limite del religioso, con l’esplosiva dinamica di autonarrazione delle giovani generazioni di oggi.
Questo è stato, in estrema sintesi, l’ultimo weekend di Biennale Teatro 2025 a Venezia.
Iniziamo dalla presenza dei Dervisci rotanti: non una semplice citazione esotica, ma un gesto radicale che riporta al centro del discorso performativo la dimensione rituale, il corpo come strumento di trascendenza, la danza come preghiera senza parole. In un contesto contemporaneo dominato dalla frammentazione digitale e dallo smarrimento identitario, la loro danza ipnotica – un vortice che dissolve, nel riverbero della partitura musicale e vocale che la accompagna, l’io nell’infinito – diventa un atto politico, una resistenza alla desacralizzazione dell’esistenza.
I corpi degli appartenenti all’Istanbul turkish ancient music ensamble che ruotano, i bianchi mantelli che, all’improvviso, emergono dalle mante nere e si aprono come ali, il silenzio interrotto solo dal fruscio del tessuto e dal respiro cadenzato: tutto concorre a creare una temporalità altra, un tempo sospeso in cui lo spettatore non è più un osservatore distaccato, ma un testimone di un’epifania. Non si tratta di folklore, ma di una pratica che sfida la nostra idea di teatro come intrattenimento, riportandolo alla sua origine più antica, quella di rito collettivo: fin dall’inizio ci viene ricordato di non applaudire a fine dell’azione, che ha proprio un suo darsi sacrale.

In questa direzione, con gesti che rimandano alla dimensione sacrale del fare dell’interprete, la scelta curatoriale della Biennale sembra voler riannodare i fili di una tradizione che nel Novecento, da Artaud a Grotowski, ha cercato di riconnettere l’arte scenica alla dimensione spirituale. Ed è proprio qui che l’arrivo di Thomas Richards, erede diretto del lavoro di Jerzy Grotowski, assume un significato profondo. Richards non è solo un continuatore, ma un innovatore che ha portato avanti la ricerca sul “teatro povero” trasformandola in una disciplina viva, un’antropologia teatrale che indaga le potenzialità del corpo-voce al di là della rappresentazione. Il suo lavoro alla Biennale – che sia un laboratorio aperto o una performance strutturata – è stato un invito a ripensare l’attore non come interprete di un testo, ma come medium di energie ancestrali.

Se i dervisci ruotano per annullarsi nel divino, Richards lavora sull’attore attraverso una partitura narrativa che si basa su uno dei testi scritti più antichi al mondo, fra quelli conosciuti. Il Poema più antico del mondo è stato scritto nel 3000 a.C., da una sacerdotessa molto importante della città di Ur, Enkheduanna, che ha dedicato questi bellissimi e lunghissimi versi alla dea per la quale esercitava il sacerdozio. Il poema più antico del mondo, quindi, è stato scritto da una donna e Richards lo affida ai suoi performer che, fra canto e recitazione, lo ricompongono. L’attore qui si annulla nel ruolo, non attraverso la psicologia, ma attraverso un training fisico che è al tempo stesso ascesi e possessione, e vive una deframmentazione della narrazione che è però volta proprio ad esaltare la dinamica interpretativa. La voce non è più semplice veicolo di significato, ma vibrazione che scuote le ossa, il respiro non è più meccanica fisiologica, ma strumento di connessione con l’invisibile.

Il dialogo tra queste due presenze – i dervisci e Richards – è più che una coincidenza: è una dichiarazione di poetica. Entrambi pongono al centro il corpo come luogo di trasformazione, entrambi rifiutano l’artificio narrativo a favore di un’esperienza diretta, fisica, quasi violenta nella sua purezza. Ma, mentre i dervisci operano in una dimensione sacrale codificata, Richards lavora sulla decostruzione e sulla ricostruzione del gesto, sul caos controllato di quel fare che ha una cifra talmente naturale da voler sembrare improvvisazione. Se i primi cercano l’estasi attraverso la ripetizione millenaria di un movimento, il secondo la cerca nella rottura delle convenzioni, nell’urlo che strappa via la maschera sociale. Eppure, in fondo, il fine è lo stesso: raggiungere uno stato di presenza totale, in cui non ci sia più separazione tra chi agisce e chi guarda.

In una Biennale che spesso ha oscillato tra sperimentalismo e grandi produzioni di richiamo, questa edizione sembra voler tornare alle domande fondamentali: cos’è il teatro quando smette di essere spettacolo? Può ancora essere uno spazio di confronto con l’indicibile? La risposta, forse, sta proprio nella compresenza di queste due linee di ricerca. I dervisci ci ricordano che il teatro può essere preghiera, Richards ci ricorda che può essere un coltello che squarcia il velo dell’abitudine. Nell’epoca della crisi delle narrazioni, dello smarrimento politico e spirituale, questa doppia direzione – tradizione e rivoluzione, estasi e disintegrazione – diventa un faro. Non è un caso che entrambi i linguaggi abbiano a che fare con la circolarità: i dervisci girano su se stessi fino a perdere i confini, Richards lavora su un teatro che è cerchio, energia condivisa, coro primitivo.

Ma accanto a queste presenze consolidate, Biennale Teatro 2025 offre, in questo ultimo weekend, spazio a una nuova generazione di artisti che, pur muovendosi in direzioni diverse, condividono una ricerca sul corpo, la memoria e l’identità. Eccoci allora indossare occhiali fosforescenti ed entrare nella Sala d’Armi dell’Arsenale dove Alessio Maria Romano, con lo spettacolo NOI prodotto dall’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico, ci accoglie in uno spazio evento; passeremo poi a Princess Isatu Hassan Bangura, presente con due lavori: Great Apes of the West Coast e Blinded by Sight – An Oedipus Monologue.

Romano, coreografo e regista, presenta a Biennale un lavoro che è un flusso di azioni fisiche che si susseguono in un continuum ipnotico, quasi un carillon di gesti ripetuti e variati dentro un ambiente che sembra un cabaret parigino immersivo: luci al neon rosa, postazioni itineranti per gli spettatori e un continuo entrare e uscire dal gioco dei personaggi/persona in cui gli interpreti sono catapultati. Lo spettacolo esplora la relazione tra individuo e collettività attraverso una drammaturgia del corpo che ricorda certi lavori dell’avanguardia, gli spettacoli/happening. Romano, vicino per poetica ad Antonio Latella – che ha curato in certo modo anche questa occasione veneziana – è appassionato di movimento di scena, cosa di cui si è occupato anche nel recente Zorro. E anche qui il movimento non manca, anzi.

I sei interpreti – Eva Cela, Pietro Giannini, Fabiola Leone, Irene Mantova, Riccardo Rampazzo e Daniele Valdemarin – si muovono freneticamente in uno spazio scenico essenziale, dove le luci di Simone de Angelis disegnano geometrie di presenza e assenza, cercando di tessere una relazione fra lo spazio scenico e la platea. Un quadrato delimita un’area in cui i performer sviluppano piccole azioni danzate, accompagnate da un commento sonoro a microfono. Tutto attorno, una zona percorribile liberamente in qualsiasi momento dagli spettatori, che possono entrare e uscire, durante le tre ore di performance, ogni volta che vogliono. Proprio per questo la drammaturgia di Linda Dalisi sembra voler evitare ogni linearità narrativa, privilegiando un accumulo di micro-azioni che, nel loro insieme, suggeriscono una riflessione sul tempo e sulla ritualità quotidiana. Gli spettatori possono sfogliare libri di immagini, affogare in miriadi di foto/cartoline, lasciare segni del proprio passaggio o ascoltare a cuffia un ininterrotto flusso di voci che narrano un presente spezzettato. Personalmente ho riassaporato il gusto dei diversi allestimenti immersivi cui anni addietro (ma ogni tanto anche adesso, quando gli riesce) si è dedicato con passione Marco Maria Linzi del Teatro della Contraddizione di Milano. Se, da un lato l’opera di Romano risente ancora di qualche manierismo, alcune sequenze appaiono capaci di vera intensità, dimostrando una maturità nel trattamento dello spazio e del ritmo, che lo segnalano come un artista da seguire.

Radicale e politicamente carica è la proposta di Princess Isatu Hassan Bangura, artista la cui ricerca si situa all’incrocio tra afro-futurismo e teatro fisico, ancorato però alla certezza della parola millenaria del teatro. Great Apes of the West Coast, prodotto da NTGent, è un monologo performativo in cui Bangura, anche autrice del testo e della scenografia, ripercorre le tracce della diaspora africana attraverso un linguaggio ibrido, fatto di parole, danza e suoni ancestrali. L’artista, già nota per lavori come Black Bazar (2022) con cui aveva raggiunto una felice notorietà, costruisce un’opera che è al tempo stesso atto di resistenza e celebrazione, in cui il corpo diventa archivio di memorie coloniali e strumento di riappropriazione identitaria.

La drammaturgia di Giacomo Bisordi sostiene questo viaggio con una struttura frammentaria, mentre le luci di Sander Michiels e i costumi di Tricia Mokosi amplificano la dimensione rituale, evocata da una capanna isolata immersa nella notte africana.

Se Great Apes guarda al passato per immaginare un futuro, Blinded by Sight – monologo ispirato al mito di Edipo – rovescia invece la prospettiva, interrogando le nozioni di colpa e destino attraverso un linguaggio viscerale. Bangura, in scena da sola, prima, ci accoglie con una travolgente danza sulle note di Free di Florence+The machine e poi trasforma la figura del re tebano in un simbolo universale di caduta e redenzione, utilizzando una fisicità ampia e che, pur con qualche ingenuità dovuta all’assenza di uno sguardo registico esterno, comunque coinvolge gli spettatori.

Torniamo a casa portando con noi quello che, in controluce, ci è apparso un confronto voluto tra questi giovani artisti e le figure storiche presenti in programma. Se i dervisci rappresentano una forma di teatro come ascesi spirituale e Richards incarna l’eredità di Grotowski nel suo lavoro sulla voce e sul corpo, Romano e Bangura propongono invece un teatro che è innanzitutto indagine identitaria e politica. Esperienze accomunate, tuttavia, dalla centralità del corpo come luogo di trasformazione, sia esso il corpo rotante del derviscio, l’attore grotowskiano di Richards, i corpi anonimi e che si confondono nel caos delle tre ore di performance di NOI o il corpo narrante di Bangura. Forse Dafoe vuole suggerire, con questa scelta sicuramente non casuale di giustapposizione, che il teatro contemporaneo può trovare rinnovamento proprio nel dialogo tra queste polarità. Romano, con la sua ricerca sul movimento, e Bangura, con il suo approccio decoloniale, dimostrano che la scena può ancora essere uno spazio di confronto con le grandi questioni del nostro tempo; a patto, però, di evitare tanto il ripiegamento autoreferenziale quanto l’adesione acritica alle mode. In questo senso, la loro presenza accanto a maestri come Richards e ai dervisci non è una semplice giustapposizione, ma un vero e proprio statement artistico: il teatro vive solo se riesce a essere, allo stesso tempo, radice e germoglio.

ISTANBUL HISTORICAL TURKISH MUSIC ENSEMBLE – MEVLEVI SEMA

tercüman Kürşat Bener
postnişin Nezih Çetin
Dervisci Adem Demirel, Haluk Luş, Mahmud Sami Güçlü, Muharrem Burak Ecevit, İbrahim Safa Alçın, Sabahattin Harma

NOI

a cura di Alessio Maria Romano
di e con Eva Cela, Pietro Giannini, Fabiola Leone, Irene Mantova, Riccardo Rampazzo, Daniele Valdemarin
coproduzione La Biennale di Venezia

GREAT APES OF THE WEST COAST

ideazione, testo, scenografia, regia e performance Princess Isatu Hassan Bangura
drammaturgia Giacomo Bisordi
musica Edis Pajazetovic
costumi Tricia Mokosi
design luci Sander Michiels
acting coach Peter Seynaeve
dance coach Reintje Callebaut
produzione NTGent
coproduzione Via Zuid, Likeminds
coproduzione La Biennale di Venezia

BLINDED BY SIGHT – AN OEDIPUS MONOLOGUE

scritto e interpretato da Princess Isatu Hassan Bangura
musica Edis Pajazetovic
traduzione e adattamento sovratitoli Matilde Vigna
produzione NTGent
(prima italiana)

Biennale Teatro, Venezia |  13,14 e 15 giugno 2025