RENZO FRANCABANDERA | C’è un posto a Genova dove per due settimane tutte le regole del gioco sociale saltano, le identità si mescolano e quello che sembrava un semplice festival si trasforma in un esperimento vivente di cosa potrebbe essere il futuro se solo ci lasciassimo davvero andare.
Era da molti anni che volevo venire a Genova per il SUQ Festival, che ha raggiunto la sua ventisettesima edizione, e il motivo è che questo festival non è più soltanto un evento culturale: è diventato una specie di utopia temporanea, un laboratorio dove musica, teatro, cibo e politica si fondono in un mix esplosivo che lascia addosso una strana sensazione di irragionevole speranza. L’edizione 2025 ha superato ogni aspettativa, trasformando il Porto Antico in una piazza globale dove le differenze non vengono celebrate retoricamente ma vissute, sperimentate, a volte persino sbagliate con tutta l’onestà di chi prova davvero a capirsi.
Quando arrivo al porto di Genova, di fianco all’acquario, c’è chi siede sotto una tenda da tuareg a bere il tè, un vero e proprio Suq con negozietti e botteghe; un odore di cibo e incenso che sembra Marracash e un crogiolo di gente per veramente incredibile.
E chi le vede tante persone ai festival di teatro!
Dobbiamo essere onesti: i festival di teatro sono sempre un po’ anemici quanto al rimescolamento del pubblico. Nonostante i grandi sforzi che si strombazzano sul famoso nuovo pubblico, il nuovo pubblico purtroppo a teatro ancora non c’è. E il motivo è che il teatro pretende di attrarre il nuovo pubblico rimanendo spesso arroccato dentro un fortino di certezze e di moduli espressivi e comunicativi stra-vecchi, noiosi, che non hanno nulla a che fare con la vera complessità e stratificazione del presente, quello che nelle grandi città sta oltre i viali delle circonvallazioni interne. La società che preme ai confini, quella che fa cadere i grandi imperi, sta sempre oltre le circonvallazioni!
Immaginate questo, invece: camminare tra bancarelle profumate di za’atar e pesto mentre un gruppo di ragazzi italiani e siriani improvvisa un rap in arabo e genovese davanti a un piccolo palco. Poco più in là, una lezione di calligrafia persiana si trasforma in un dibattito sull’arte come resistenza politica, mentre dall’altro lato del porto risuonano le note di uno strumento che non sapete identificare – forse un oud modificato con effetti elettronici, forse qualcosa di completamente nuovo. E per sfondo la cornice del porto di Genova e l’isola galleggiante delle chiatte a ospitare gli spettacoli.
Cioè, scusate, ma di che stiamo parlando? Questa è la società in cui viviamo! Mica quell’altra… E, infatti, si vede: qui alle 23,30 quando SUQ chiude, la gente deve essere addirittura invitata ad andare via.
Il pubblico, composto da genovesi doc e turisti, studenti e rifugiati, fa poetry slam in almeno cinque lingue diverse. E poi c’è il cibo, ovviamente: chef indiani, siriani, greci, africani cucinano piatti nati dall’incrocio delle loro storie personali con la città in cui vivono. Vedere una nonna genovese e un rifugiato litigare amichevolmente sulla quantità giusta di aglio in una ricetta che non apparteneva a nessuno dei due, per poi scoprire insieme un sapore nuovo, è stata forse la migliore metafora possibile di cosa questo festival rappresenta davvero.
Il famoso ponte transculturale nelle società “multi” mira a facilitare l’integrazione attraverso pratiche partecipative che decostruiscono stereotipi e creano spazi di negoziazione identitaria. Progetti come SUQ dimostrano come collaborazioni tra artisti emergenti, outsider e comunità migranti riescano a tradurre patrimoni etnografici in opere relazionali, trasformando le antiche geografie cittadine, talvolta anche degradate, in luoghi di incontro e risignificazione. Autori come Arjun Appadurai sottolineano il ruolo dell’immaginario artistico nel plasmare “comunità diasporiche” attraverso narrazioni condivise, mentre Bourdieu analizza come l’arte possa sfidare le gerarchie culturali riattivando capitali simbolici marginalizzati. A SUQ, come in tutte le frontiere di ricerca su questo campo di indagine si esplora l’arte come strumento di agency politica per soggetti subalterni (es. progetti che usano performance per rivendicare memoria collettiva) , l’ibridazione tra pratiche tradizionali e digitale (STEAM) , e il potenziale trasformativo di laboratori site-specific in contesti urbani. La criticità che si prova a tenere lontana è quella assai nota della partecipazione “strumentale”, dove l’arte, non di rado, è diventata retorica istituzionale senza che abbia contribuito a redistribuire potere, tema affrontato da teorici come Claire Bishop nei dibattiti sull’arte partecipativa.
Sotto questo aspetto, la missione principale dell’Impresa Sociale Suq Genova, ora raccontata anche in un libro dal titolo Le voci del Suq, edito da Altraeconomia, è promuovere il teatro e le arti performative come strumento per l’interazione sociale, il dialogo tra culture e lo sviluppo sostenibile, nell’ottica di una combinazione proficua tra finalità estetiche e sociali della ricerca artistica. Dalla sua fondazione, nel 1999, SUQ ha mirato a coinvolgere, intorno a temi di attualità, un pubblico diversificato per età, provenienza, classi sociali, captando il bisogno di rinnovamento del comparto teatrale, sia nella compagine artistica che nel coinvolgimento di nuove fasce di cittadinanza, continuando ad accogliere la sperimentazione indipendente, come è stato in questa edizione con il debutto del nuovo lavoro di Daniele Timpano, Poemi Focomelici.
Lo spettacolo nasce portando in scena una selezione dei componimenti poetici raccolti anche in un libro omonimo edito da Cue press. La creazione di Timpano rappresenta l’esito più recente della sua decennale ricerca sulla parola poetica come corpo mutilato e rigenerato. Attraverso un linguaggio che fonde performance, voce e gestualità ritual-pop, Timpano esplora la deformazione linguistica ereditata dalle avanguardie, in particolare dai futuristi, sui quali ha lavorato per anni, studiando il loro rapporto tra violenza verbale e frammentazione del senso.

Lo spettacolo, dal titolo che evoca sia la focomelia – malformazione fisica che Timpano cita da subito, quasi che affliggesse le sue composizioni nella struttura – sia la poesia come residuo mutilato, trasforma il verso in un organismo vivo e sofferente, dove la voce dell’attore, fra reading e finta regia di un impianto che malfunziona, si fa strumento di una lacerazione insieme fisica e semantica. L’influenza dei manifesti futuristi, soprattutto il loro culto della velocità e della distruzione, riemerge in certa misura anche qui, in una chiave contemporanea, privata dell’esaltazione bellicosa ma carica della stessa urgenza di scandagliare i limiti del dicibile, con un focus che che si poggia sulle ossessioni dell’artista: la morte, le figure genitoriali nel loro risvolto antieroico domestico, la sfera erotica accennata per metonimia e fatta oggetto di tragica irrisione. Timpano continua a muoversi, negli spettacoli da solista, in questa tradizione della poesia in scena, con immagini fra l’ironico e il raccapricciante, trasformando il gesto petrolin-avanguardista in una meditazione sulla vulnerabilità: la poesia non è certo più urlo ma ferita, talvolta anche autoinferta, cicatrice sonora che interroga lo spettatore sulla sua dimensione trasparente, fragile, che lo fa sentire piccolo topo imprigionato in quella gabbia toracica esposta che l’artista Cristiano Baricelli ha pensato per la copertina della silloge dei componimenti del performer; il topo diventa la vittima di una crudeltà di cui ci diremmo incapaci ma che invece alberga anche nel più indifeso poeta metropolitano, crudeltà alla quale Timpano dedica un racconto cruciale, crudo e bellissimo sul finire di questo spettacolo.
Oltre a Timpano e al poetry slam interculturale, abbiamo assistito, nella chiesa di San Pietro ai Banchi, anche a Piccolo canto di resurrezione, uno spettacolo/rito al femminile, di e con Francesca Cecala, Miriam Gotti, Barbara Menegardo, Swewa Schneider.
Il lavoro, visto il luogo, potrebbe ben definirsi una piccola messa cantata (molto laica) che parte dall’ispirazione della figura mitica della Loba, donna selvatica e custode delle ossa, per poi allargarsi e diventare un un canto a più voci che intreccia storie di morte e rinascita, memoria e trasformazione. Le quattro donne in scena, coadiuvate nell’arrangiamento dei canti (pregevoli) dalla stessa Gotti, si muovono tra poesia, preghiera e invettiva, e danno voce a un femminile che vuole risvegliarsi. Apice tragicomico dello spettacolo, l’episodio della donna, interpretata dalla Gotti stessa, che, con voce sopranile, racconta le sue numerose morti e resurrezioni alla fine di ogni relazione, mentre le altre tre le intonano attorno una marcia funebre da banda di paese (esecuzione a cappella geniale), andando in giro nello spazio antistante l’altare della chiesa.
Buone, nel complesso, la coralità e l’azione scenica, come pure pregevole il lavoro sulle musiche e la cifra da cabaret-espressionista del lavoro. Si può lavorare, dopo questo felice debutto nazionale, all’amalgama drammaturgica per rendere più nitido il filo conduttore delle parti testuali.
Partiamo mentre si prova freneticamente Nel nome una storia, lo spettacolo ispirato al libro Ti racconto com’ero di Emilia Marasco, e che nasce da un’idea di Carla Peirolero, figura cardine del SUQ Festival, che ne è anche interprete insieme a Irene Lamponi, cui si deve la cura drammaturgica. Le due si muoveranno dentro l’allestimento scenico e impianto visivo studiato da Arianna Sortino, per raccontare anche qui una storia al femminile, attraverso l’intreccio di due vicende, una più vicina nel tempo, una più lontana. La prima è quella di una bambina che arriva dall’Etiopia e in Italia trova una madre, un padre, un fratello, una casa. L’altra storia è quella di Maria, una bambina abbandonata in un brefotrofio di Savona nel 1925, che viene adottata da una famiglia di contadini, ma che a scuola resterà sempre “la figlia di NN”.
In scena le storie rivivono nel racconto della madre di Saba e della figlia di Maria, al bordo fra spazi della memoria e narrazione, secondo l’impianto registico voluto da Marcela Serli, la regista e performer italo-argentina, da anni fra le figure più interessanti del teatro di indagine sui temi dell’identità nel contemporaneo. Lo spettacolo si configura come una nuova tappa della Compagnia del Suq sul tema della maternità, dopo Madri Clandestine e Da madre a madre.
Cosa rende il SUQ diverso da qualsiasi altro festival? Forse è il fatto che qui nessuno fa finta che il dialogo interculturale sia facile, cosa che mi appare sempre più chiara man mano che mi perdo e affondo in questo corpo sociale così diverso da quello di altri festival di arti performative in Italia.
Gli errori di traduzione ci possono essere, i malintesi anche, i momenti di imbarazzo sono all’ordine del giorno nelle vite di tutti – eppure è proprio in questi momenti che arriva il cortocircuito. Come superare la dimensione violenta della convivenza fra diversi, se non provando a capirsi e conoscersi? In un’epoca in cui i social media ci dividono in bolle sempre più isolate, in cui la politica gioca sulla paura del diverso, in cui le guerre ci ricordano ogni giorno quanto può essere fragile la convivenza, il SUQ ci dimostra che un altro mondo non solo è possibile, ma è già qui… almeno per due settimane all’anno. E forse, chissà, è proprio da esperienze come queste che potrà nascere un futuro diverso.

POEMI FOCOMELICI
versi, gesticolazioni e voce Daniele Timpano
collaborazione Elvira Frosini
musica originale di Marco Maurizi
disegno luci di Omar Scala
un progetto di Frosini/Timpano
produzione Gli Scarti Centro di Produzione Teatrale di Innovazione, Kataklisma teatro
PICCOLO CANTO DI RESURREZIONE
di e con Francesca Cecala, Miriam Gotti, Barbara Menegardo, Swewa Schneider
arrangiamento canti Miriam Gotti
disegno luci Simone Moretti
produzione Compagnia Piccolo Canto, I Teatri del Sacro, Associazione Musicali Si Cresce
NEL NOME UNA STORIA
di adozioni felici, segreti, speranze
ispirato al libro “Ti racconto com’ero” di Emilia Marasco
un’idea di Carla Peirolero
cura drammaturgica Irene Lamponi
con Irene Lamponi, Carla Peirolero
regia a cura di Marcela Serli
allestimento scenico e impianto visivo Arianna Sortino
produzione Suq Genova Festival e Teatro
SUQ Festival, Genova | 19 e 20 giugno 2025