RENZO FRANCABANDERA | Assistiamo a We did it! di Ateliersi, alla Corte Ospitale di Rubiera nella caldazza emiliana, che sarebbe ingeneroso attribuire in toto al cambiamento climatico perché da sempre caratteristica delle estati in questa terra. Ma certo lo scombussolamento degli ultimi decenni nel territorio emiliano (e non solo ovviamente), fra temperature record, alluvioni, paesi sommersi dal fango, ne fa un luogo dove più di altri l’urgenza di riflessioni globali si sente potentemente. Lo spettacolo ha avuto già diverse felici tappe e sta facendo una buona circuitazione grazie ad alcune caratteristiche di cui andiamo a parlare.
Innanzitutto non è solo una performance teatrale ma un vero e proprio esperimento di “futurizzazione ecologica” che sfida il paradigma TINA (There Is No Alternative), il mantra neoliberista che da Margaret Thatcher in poi ha plasmato l’immaginario collettivo negando la possibilità di modelli alternativi al capitalismo estrattivo. Attraverso una drammaturgia ibrida tra documentario e finzione speculativa, Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi, il sodalizio umano e artistico che sta dietro Ateliersi, costruiscono un racconto ambientato nel 2054 dove crisi climatiche, conflitti e disuguaglianze sono state superate non per miracolo tecnologico, ma attraverso pratiche collettive già esistenti oggi in forma embrionale. La scelta di un furgone elettrico alimentato da pannelli solari come alimentazione del palcoscenico mobile con qui questo spettacolo si sposta non è un semplice espediente tecnico: è una dichiarazione di poetica che ricollega il teatro all’antica tradizione dei girovaghi, trasformandolo in un veicolo di transizione ecologica letterale e simbolico. Il van è il risultato di un bando vinto proprio per sostenere le spese di creazioni d’arte volte a indagare le problematiche ambientali.

La struttura narrativa, basata su micro-storie di umani raccontate da Mochi Sismondi con prospettive non antropocentriche (piante, fiumi, oggetti), ricorda sicuramente da vicino le teorie dell’antropologo Arjun Appadurai sul “diritto all’immaginazione” come prerequisito per il cambiamento sociale (nello spettacolo si parla di ecoimmaginismo, non a caso). Nel saggio “Il futuro come fatto culturale” (2013), Appadurai sostiene che la capacità di prefigurare futuri desiderabili è oggi soffocata da un eccesso di “immagini preconfezionate” del domani (dai disaster movie alle distopie tech), creando una paralisi politica che questo spettacolo tenta di sciogliere attraverso esercizi di narrazione condivisa.
Questo approccio risuona insieme alle riflessioni di poco successive del filosofo Timothy Morton sull’”ecologia oscura”, dove l’arte ha il compito di creare “immagini di coesistenza” che superino la dicotomia natura/cultura.
We did it!, come si diceva, fa esattamente questo: mostra un futuro post-capitalista non come astrazione ma come collage di pratiche reali (dai community garden alle energie rinnovabili di quartiere), rendendo tangibile il concetto di “economia della ciambella” – quel modello circolare che rispetta i limiti planetari e i bisogni sociali. È bella questa replica a Rubiera, in un luogo che da sempre questa comunità ha destinato all’accoglienza e al confronto.
L’allestimento qui apre uno dei portali della Corte e lascia volutamente come sfondo il paesaggio antropizzato, fra campi e automobili sullo sfondo. Di lì una narrazione frammentaria di vicende che non si incastrano fra loro, che saltano dall’Asia al continente Americano, in luoghi e addosso a vicende umane lontanissime, eppure legate dagli effetti del disastro, vissuti addosso a queste comunità resistenti e alle loro buone pratiche di resilienza e collettivizzazione del poco, sulla scorta del principio della ragionevolezza e della cura dell’ambiente naturale.

L’uso del teatro come strumento di “alfabetizzazione ecologica” segue per certi versi le intuizioni di Donna Haraway sul “tessere narrazioni tentacolari”, il tema dello stare con il problema “Staying with the trouble” che molta arte sta suggestionando. La scelta di parlare di entità non umane nello spettacolo evoca il suo concetto di “simpoiesi” (creazione insieme), smontando l’antropocentrismo che ha portato alla crisi climatica. Non a caso, la modalità performativa ricorda i “cabinets de curiosités” ecologici della compagnia inglese Invisible Flock, dove dati scientifici diventano esperienze sensoriali.
La differenza è che Ateliersi più che lavorare su una immagine definita, che lascia allo spettatore di immaginare, si concentra sul definire pian piano, senza svelarlo subito, una dimensione temporale: quelle storie, che pure sembrano attuali, sono presentate come “memorie del futuro”, un ossimoro che ricorda il lavoro dell’artista americana Amy Balkin e le sue Archiviazioni climatiche.

Ph Margherita Caprilli

Dal punto di vista scenico, la semplicità dell’allestimento (poche luci led, un sedile circolare e alcuni altri oggetti di semplice presenza scenica davanti al performer) è funzionale a un’ecologia delle relazioni, in linea con il pensiero dell’architetto Alessandro Petti sul “diritto alla mobilità leggera” nelle pratiche artistiche.
La musica di Vincenzo Scorza, da anni collaboratore di Ateliersi per le sculture sonore presenti nei loro lavori, mescola suoni naturali ed elettronica, ricamando un disturbo di frequenza radio con le quattro stagioni di Vivaldi, come se si faticassimo a sintonizzarci su questo canale: si sviluppa così una colonna sonora per l’Antropocene.
Quella che a fine spettacolo ci pare sia la vera forza di We did it! sta nell’evitare sia il catastrofismo paralizzante sia l’ottimismo ingenuo. Le alternative al capitalismo spesso nascono già oggi nelle “zone di rovina” del sistema, ed è proprio questa estetica del “riparare” che lo spettacolo cattura. Quando Mochi Sismondi descrive città riconquistate dalla vegetazione o conflitti risolti con la diplomazia dell’acqua, non sta inventando: cita casi reali (dai progetti di rewilding urbano alla Commissione Internazionale per il Bacino del Congo) proiettati in un contesto di cambiamento sistemico.

In tempi di eco-ansia giovanile crescente (il 75% degli under 25 secondo l’UNESCO nel 2024 vive il futuro con angoscia), We did it! offre qualcosa di poco frequente e che ricorda quanto viene tentato quest’anno da diversi architetti internazionali presenti alla Biennale Architettura a Venezia: non limitarsi a denunciare ma mostrare percorsi, seguendo l’invito della filosofa Isabelle Stengers a costruire “narrazioni capaci di ospitare speranza senza ingenuità”.

Rispetto ad altre opere di teatro ecologico come The Children di Lucy Kirkwood o 2071 di Katie Mitchell, Ateliersi sceglie una via più radicale: non parlare “di” crisi, ma “dall’altro lato” della crisi, anticipando quella che il teorico Jeremy Rifkin chiama “coscienza biosferica”. Con il suo mix di pragmatismo e poesia, Ateliersi vuole provare a dire che il teatro può essere un laboratorio per immaginari rigenerativi, soprattutto se – come in questo caso – la forma stessa dello spettacolo (mobilità sostenibile, energia pulita, circuiti non istituzionali) incarna il cambiamento che predica. In un’epoca di collasso narrativo, le storie non sono solo intrattenimento: sono strumenti per “disincantare il presente e reincantare il futuro”.


WE DID IT

ideazione e drammaturgia: Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi
con Andrea Mochi Sismondi
regia, spazio scenico e progetto sonoro Fiorenza Menni
creazione musicale Vincenzo Scorza
in voce Anna Amadori, Massimiliano Briarava, Eugenia Delbue, Fiorenza Menni e Alessio Scorza