ROBERTA FUSCO | PAC LAB* | Una figura scalza, vestita di nero, si muove nel vuoto. Nessuna scenografia, nessuna parola esce dalle sue labbra, eppure, voci registrate la attraversano, rimbalzando sulle pareti della sala. La luce squarcia l’oscurità: ora proviene da una torcia bianca, ora da una fila di fresnel aranciati, poi dall’alto, con un occhio di bue dello stesso colore, fino alla luce blu e rossa di una volante della polizia. I riflettori si accendono e si spengono: la torcia si muove veloce o accompagna i passi, l’occhio di bue incornicia, i fresnel proiettano ombre. Buio, poi ancora luce, che si rifrange sui teli neri del retropalco: un’oscurità che si frantuma, come un pensiero muto. Uno spazio sospeso tra suoni e giochi di luce, dove prende forma Hijos de Buddha (qui proposto come studio 1): un’esperienza da attraversare, più che da guardare.

Lo spettacolo, in questa versione sperimentale e di studio appunto, nasce da un’idea di Nicolò Sordo nel 2024, con la regia di Alessandro Rossetto, e viene riproposto alla Sala Assoli di Napoli il 27 giugno, all’interno del Campania Teatro Festival. Protagonista, Marina Romondia nei panni di Maria Sanchez de la Misericordia; in presenza sonora Fatou Malsert, Alejandro Bruni e Giorgio Squilloni, con la partecipazione di Roberto Latini. Fondamentali per la costruzione della messa in scena le musiche e il montaggio di Andrea Giorgelli, il mix di Paolo Segat e il disegno luci di Paco Summonte.

Alessandro Rossetto; Nicolò Sordo

La collaborazione tra Sordo, Rossetto e Romondia nasce nel 2023 con Bye Bye, in cui prende forma la figura di Maria Sanchez, poi ripresa in Hijos de Buddha a comporre un dittico drammaturgico. Il personaggio comune denominatore fra gli spettacoli, è un personaggio femminile crudo, con vizi che la rendono spietata, scomoda, odiosa. Una donna religiosa ma profondamente manipolatrice.

A colpire sono le differenze tra i due lavori: se in Bye Bye il corpo si espone, parla, grida in una confessione tragicomica, Hijos de Buddha è il suo eco silenzioso, lo svuotamento. Se il primo racconta una crisi viva, il secondo ne restituisce il riflesso. A parlare sono ora le luci, i movimenti, il tempo: una drammaturgia senza parola, che lascia al corpo nudo uno spazio sospeso e muto.

Bye Bye, 2023

Due opere autonome ma intrecciate, che rivelano la capacità del trio di esplorare il margine – umano, scenico, politico – da prospettive diverse e con linguaggi eterogenei. Inalterata resta la scrittura: spigolosa, istintiva, ibrida, dove il teatro si fa dispositivo di indagine. Merito della scrittura diretta e provocatoria di Sordo, che con ironia affronta temi come consumismo, marginalità, identità generazionale e desiderio di riscatto – già presenti in Ok Boomer. Anch’io sono uno stronzo, vincitore del 14º Premio Riccione “Pier Vittorio Tondelli”. Rossetto, regista e documentarista con formazione in antropologia culturale, porta al teatro uno sguardo analitico e poetico maturato nel cinema (Piccola patria, Effetto domino). Fulcro della scena è Marina Romondia, attrice e performer la cui emotività intensa e fisicità essenziale traducono testi forti in immagini di grande impatto visivo.

Il terreno comune su cui si costruisce questa alleanza artistica è la storia di Maria Sanchez de la Misericordia: donna di Pamplona trapiantata a Roma, madre di un figlio anaffettivo che vive alle Canarie, badante per lavoro, buddista per fede, quasi alcolizzata per disperazione e cleptomane per vizio. Vive ai margini di una società da cui cerca affetto ma a cui restituisce solo perfidia. Il suo vizio maggiore è approfittarsi degli altri. Il nodo centrale è l’incontro con GiraGira, “una joven bellissima” africana arrivata con suo figlio Gianpier, che Maria costringe alla prostituzione con la falsa promessa di un permesso di soggiorno. La sua crudeltà le si ritorce contro con infelicità, precarietà. Neppure la preghiera la salva dal dolore: Buddha le risponde soltanto di continuare a pregare. Quando Maria convince GiraGira a sposare suo figlio per ottenere l’agognato documento, la situazione precipita. GiraGira fugge dopo il matrimonio, trova un lavoro onesto e inizia a farsi chiamare Sharon. Di conseguenza, Maria non riceve più denaro da lei, e al suo posto arriva il figlio: collerico, senza soldi. Disposto a tutto pur di ottenerli, arriva a derubare sua madre e fuggire.

La narrazione emerge attraverso le voci degli audio, mentre il corpo dell’attrice resta muto. I salti temporali e scenici sono segnati solo dalle tracce. Ogni inizio è accompagnato da un’indicazione: “interno notte”, “giorno”, “esterno”, “luogo ignoto”. Seguono le voci di Maria, GiraGira e le telefonate con il figlio. In sottofondo, rumori urbani: vociare, auto, porte che sbattono. Con attenzione maggiore, si colgono le emozioni nei toni di voce: la collera di GiraGira, la calma autoritaria di Maria, la disperazione del figlio, la fermezza solenne di Buddha. Una sola musica apre e chiude lo spettacolo: un ritmo latino di tamburi che rievoca le calde giornate navarresi.

Audio preregistrati, luci e movimenti lenti di Romondia costituiscono la sostanza della pièce. Il disegno luci di Summonte accompagna ogni gesto: se l’attrice gioca con le dita davanti alla torcia per creare ombre, si inginocchia sotto l’occhio di bue quando prega; se i lampeggianti la colpiscono nell’angolo sinistro del palco, i fresnel creano ombre durante le telefonate col figlio, mentre cammina mimando con la torcia lo schermo del cellulare.

Ogni elemento scenico – movimento, luce, suono – non accompagna la narrazione ma la costituisce, in un intreccio coeso che converge verso un unico senso. Ogni parte è funzione: audio al posto della voce, vuoto al posto della scena, ombre invece di luce, il lampeggiante che scandisce un tempo altro, estraneo, che incombe su un trauma non ancora accaduto – e che solo nel finale si rivela essere quello della polizia. Buio, trasparenze, abbagli improvvisi compongono un universo percettivo stratificato, in cui la storia non si racconta ma si rivela per attriti, riflessi, scarti. 

È un teatro del corpo, del suono e dell’assenza. Alcuni spettatori chiudono gli occhi per immaginare ciò che non si vede: una narrazione dissolta che apre a una dimensione non verbale, da abitare, deformare, attraversare. Un rito minimo, un’esperienza ipnotica, un percorso percettivo dove il teatro si fa installazione.

Ciò che resta, in Hijos de Buddha, è una realtà sfasata costruita sull’esposizione del tempo. Una forma performativa concettuale, in cui sogno, racconto e allucinazione si confondono. Si attraversa la scena in un’esperienza immersiva e perturbante, da cui emergono emozioni e significati. Un teatro che interroga, che lascia sospesi nel vuoto. Perché, alla fine, resta solo l’assenza. E il buio. Come in tutte le cose.

 

HIJOS DE BUDDHA
Studio 1

di Nicolò Sordo
regia Alessandro Rossetto
con Marina Romondia
in presenza sonora Fatou Malesert, Alejandro Bruni, Giorgio Squilloni
con la partecipazione di Roberto Latini
musiche e montaggio Andrea Giorgelli
mix Paolo Segat
disegno luci Paco Summonte
promosso da Rara con il sostegno di Casa Fellini – Gambettola 

Campania Teatro Festival 2025
Sala Assoli, Napoli, | 27 Giugno 2025

 

*PAC LAB è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.