GIORGIA VALERI | Quelle rare volte in cui ci fermiamo a goderci la frescura del vento che scivola tra i palazzoni in una sera d’estate, sollevando lo sguardo verso la skyline, capita spesso che gli occhi vengano catturati da quelle piccole luci in lontananza che punteggiano i grattacieli. Chi sarà rimasto a lavoro fino a tardi? Non ha qualcuno da cui tornare a casa? Dietro quelle finestrelle c’è Solness. O meglio, se Ibsen fosse nato qualche decennio più tardi e avesse vissuto in una grande metropoli occidentale e capitalista, avrebbe collocato proprio lì lo studio del famigerato costruttore Halvard Solness. 

Kriszta Székely, regista ungherese associata del Teatro Stabile di Torino, che si è fatta conoscere per molte produzioni monumentali negli ultimi anni come Zio Vanja, Riccardo III, Hedda Gabler, si cimenta stavolta con il terzo dei suoi studi ibseniani, Solness. Nell’adattamento minuzioso di Ármin Szabó-Székely, collaboratore assiduo di Székely, Solness viene estrapolato dal contesto della medio borghesia norvegese fine ottocentesca e catapultato nell’affollatissimo e verace mondo capitalistico contemporaneo. Al Teatro Stabile di Torino.
Il palco del Carignano viene spogliato di ogni struttura, sventrato e svuotato persino delle quinte. Rimane solo una pedana bianco ottico, a contrasto con la parete grezza di fondo: sulla sinistra una scrivania, qualche sedia e dei computer; davanti, sulla destra, il modellino illuminato di una casa minimalista. A cornice, fari industriali dall’asta gialla che delimitano l’arena dello smisurato ego di Solness: un Valerio Binasco magnetico (per certi versi e movenze ricorda Jep Garmbardella di Sorrentino) che, a partire dai pesanti occhiali neri e dal tailleur grigio con t-shirt, catalizza tutte le energie strutturali dello spettacolo su di sé. Ancor prima di entrare in scena. 

Ph. Luigi De Palma

Sua dipendente, nonché mentore ora in decadenza, Frida, ideata e cucita appositamente su Laura Curino, che sostituisce l’originale maschile Knut Brovik. Nel confronto con il figlio Ragnar (Marcello Spinetta), e la fidanzata di lui Kaja (Lisa Lendaro), Frida intesse le prime fila della trama narrativa, intrecciando nodi tematici diversi rispetto alla storia originale: l’ageismo, il gender gap, l’abuso di potere, il mobbing. Su queste coordinate si consuma lo scontro tra titani: Curino modula la voce, il corpo, la gestualità sulla tensione relazionale con una padronanza da fuoriclasse, Binasco le si scaglia addosso con tutta la sua presenza scenica, i movimenti puliti e contenuti nello slancio aggressivo. 

La trama da qui si snoda con un ritmo serrato, che accelera modulo nelle scene collettive e rallenta nella solitudine dei monologhi e delle riflessioni, in particolar modo quelle dello psichiatra della famiglia Solness, Dr. Herald (Simone Luglioche fungono da raccordo tra le scene e da commento alla parabola solipsistica e profondamente narcisista di Solness: «C’è solo Halvard Solness, il grande architetto. Il visionario. Il profeta organico. Il poeta della forma cubica. Vediamo cos’altro…ecco. L’uomo irresistibile, ancora».
Székely gioca molto sul potere attrattivo di Solness, un personaggio che oggi possiamo trovare ai piani dei grandi grattacieli della finanza, in metro con le gambe spalancate, nei bar di lusso delle vie più rinomate delle grandi città, con un bicchiere di scotch liscio in mano. Questo potere lo mostra innanzi tutto la presenza scenica di Binasco: il modo in cui siede sulla sedia, si muove sul palco, distrugge le regole di prossemica con gli altri personaggi, gli scatti nervosi delle braccia e delle gambe, lo sguardo acuto e perforante, le labbra sempre arricciate in un sorriso compiaciuto. Il mostro perfetto contro cui ci si scaglia giornalmente nelle pagine culturali di sinistra.

Ph. Luigi De Palma

Gli altri ruotano attorno a lui come pianeti che pian piano si assestano sulla sua orbita gravitazionale. Tutti tranne Hilde Wangel. Alice Fazzi, neodiplomata della Scuola per attori del Teatro Stabile di Torino e che sta già prendendo parte a numerose produzioni dello stesso, arriva nella dimora/studio dei Solness come una meteora fuori orbita. Se per tutti gli altri i colori predominanti variano su una scala di grigi sottotono, lei buca la scena con un crop top nero, pantaloni Adidas e Dr Martens. Provoca Solness, lo aggira, lo seduce: tutto è tensione erotica, seduzione. Si appollaia sulla sommità del modellino della casa, come un King Kong pienamente consapevole delle proprie capacità distruttive.
Nel rapporto con lei, vediamo per la prima volta Solness vacillare, mostrare le crepe dietro il ritratto di Dorian Grey. In quella tensione si svela la bruttezza – prevedibile – di Solness: la carriera costruita sulle macerie della propria vita, i figli morti nell’incendio di casa, la moglie impazzita di dolore. Insomma la cenere da cui ha fatto nascere il proprio impero. Hilde lo ascolta, lo spinge a raccontare e si nutre delle sue paure. Lo fa prima seducendolo e poi specchiando le sue fragilità. Fino a distruggerlo con le sue stesse carte.
Un gioco di potere ancora più evidente se paragonato al rapporto di Solness con la moglie Alina (Mariangela Granelli) la quale, completamente soggiogata dal marito, ha sviluppato invece nevrosi. In un confronto con lui, si siede in punta di palcoscenico e comincia la tecnica EFT: il tapping, ovvero il tamburellamento delle dita su determinati punti energetici del corpo.
Show, don’t tell: nella regia di Székely questo è evidente. Tutto è organizzato in un ordine composto con una minuzia cinematografica, come la scacchiera di faretti led sopra la casa/ufficio che simulano lo scrosciare della pioggia. 

Ph. Luigi De Palma

L’incastro tra testo drammaturgico, composizione scenica e mimica è pressoché perfetto: anche la gestualità un po’ sporca, sopra le righe e talvolta urlata di Fazzi rientra nel quadro impietoso di Székely, che usa il testo ibseniano per decostruire il presente, pezzo dopo pezzo. Lo fa prima con la ricomparsa di Frida/Curino, ora priva del tremolio delle prime scene e che torna come un fantasma delle vite passate. Poi con Spinetta/Ragnar che, tagliato da una luce gialla e densa, appare come fantasma del futuro. Ed ecco infine Solness che si alza in volo insieme a Fazzi, sorretti entrambi da imbracature montate a vista dai tecnici, al termine della festa sorrentiniana per il premio alla carriera. Ormai quella che fluttua a mezz’aria è la carcassa svuotata di un personaggio-caricatura, privato di quei pianeti che gli orbitavano attorno e che aveva attratto fino a quel momento.

Ma la sua disfatta non è catartica: perché in realtà è un personaggio troppo comodo da odiare. E anche da uccidere. La regia si è affidata a una bidimensionalità valoriale per la quale tutto è bianco o tutto è nero.  E se ciò poteva essere comprensibile nel testo di Ibsen, in una regia che pretende di attualizzarlo, una più accentuata sfumatura ideologica sarebbe stata da spunto per comprendere che Solness, oggi, abita i grattacieli del mondo perché è un modello legittimato, ammirato, spesso celebrato. Abita i piani alti delle aziende, guida team, entusiasma giovani colleghi. I Ragnar di oggi faticano a riconoscere la violenza quando prende la forma della competenza, della brillantezza, della promessa. Perché mancano alternative. Perché manca il tempo per sognare. E i soldi. E le Hilde, rare, imprevedibili, fuori norma, non sono necessariamente accolte come portatrici di cambiamento. Spesso vengono isolate, ridotte a disturbo, scambiate per provocazione. In questo senso, ciò che manca davvero è la rappresentazione del male che non ha nome, che non alza la voce, che si insinua tra i corridoi aperti degli uffici e nella grammatica quotidiana delle relazioni di potere.
Solness continuerà ad abitare le skyline fintanto che lo vedremo come un’eccezione. Fintanto che avrà il volto nitido e riconoscibile di un “mostro”. E non quello, molto più difficile da guardare, di una figura normale. Rassicurante. E proprio per questo pericolosa.

 

SOLNESS

da Henrik Ibsen
adattamento Ármin Szabó-Székely
traduzione Tamara Török
regia Kriszta Székely
con Valerio Binasco, Laura Curino, Alice Fazzi, Mariangela Granelli,
Lisa Lendaro, Simone Luglio, Marcello Spinetta
scene Botond Devich
costumi Ildi Tihanyi
luci Pasquale Mari
suono Filippo Conti
assistente regia Giovanni Miglietti

Teatro Carignano, Torino | 22 maggio 2025