RENZO FRANCABANDERA | Il direttore Tomasz Kirenczuk accoglie tutti con un grande sorriso, come se nulla fosse. Anzi.
Ma che il clima sia di allerta combattiva è chiaro a colpo d’occhio, visto che gira per Piazza Ganganelli a Santarcangelo, dove sta per inaugurare il festival con il Presidente della Regione Emilia-Romagna e l’Assessore regionale alla cultura, con una maglietta su cui ha stampato i punteggi assegnati allo storico festival romagnolo dal Ministero, che ha dimezzato di punto in bianco il punteggio storicamente alto di questo festival multidisciplinare dalla visibilità internazionale.
I politici del territorio sono qui per esprimergli solidarietà ed esprimerla al Comune. I recenti paventati tagli ministeriali ai festival multidisciplinari hanno scatenato un terremoto nel mondo della cultura, ma Santarcangelo risponde aprendo la sua edizione 2025 come un manifesto vivente. Mentre le piazze si trasformano in palcoscenici di protesta poetica, il festival dimostra che l’arte non può essere ridotta a semplice intrattenimento — è un atto politico, un corpo che occupa spazio pubblico e lo riempie di significato. Come suggerirebbe Donna Haraway, forse è proprio “stando con il problema” (ammesso che sia il festival il problema… o è invece per le commissioni ministeriali la ricerca libera nel linguaggio delle arti sceniche?) che si impara a combattere: abbracciando la complessità, rifiutando le soluzioni facili, trasformando la crisi in opportunità creativa.
La scommessa che Santarcangelo Festival 2025 incarna è racchiusa in questo approccio: ogni performance, ogni installazione, ogni incontro diventa quest’anno un modo per abitare le contraddizioni del nostro tempo senza cedere alla retorica della lamentela sterile. Le parole del direttore artistico e della Regione in questi giorni di inaugurazione, e nelle assemblee auto-organizzate dei lavoratori dello spettacolo dal vivo, suonano come un chiaro atto di resistenza culturale. Non si tratta solo di difendere un budget, ma di proteggere uno spazio di pensiero critico, un laboratorio dove — come direbbe Haraway — occorre “fare parentela” tra discipline diverse, tra artisti e cittadini, tra tradizione e innovazione.

I probabili tagli ministeriali rischiano di interrompere quel delicato processo di “compostaggio culturale” che Santarcangelo ha perfezionato in oltre mezzo secolo, cambiando con il cambiamento della società, vivendo crisi e rinascite, quel ciclo vitale in cui le esperienze artistiche si decompongono per rinascere in forme nuove, come semi che trovano terreno fertile nella comunità. Privare il festival di risorse significa amputare non solo un evento, ma un intero ecosistema di relazioni, ricerca e produzione di conoscenza.
Raccontiamo, quindi, la giornata inaugurale del 4 luglio, che ha trasformato piazze e teatri in un laboratorio politico ed estetico, dove l’incertezza – tema centrale dell’edizione not yet – si è materializzata in corpi che sfidano norme e confini. L’apertura, per quanto mi riguarda, è con Boujloud (man of skins) di Kenza Berrada, un monologo che fonda il suo spunto creativo intrecciando l’indagine transculturale sulle ferite coloniali e la società marocchina con la narrazione della violenza di genere. Ispirandosi alla figura mitologica marocchina dell’Uomo dalle Pelli, evocato nel titolo e anche nella scenografia, Berrada utilizza la nudità alternata a camuffamenti ispirati ai riti tradizionali, insieme a movimenti butō, per svelare come i traumi storici si inscrivano nei corpi, trasformando la performance in un atto di testimonianza e denuncia.
La sua danza, oscillante tra ipnosi e disgregazione, rivela la doppia natura del corpo come archivio e campo di battaglia, tema caro a un festival che da sempre interroga le identità marginalizzate.
Restiamo nello stesso ambiente, una delle scuole del paese, da sempre luogo deputato ad accogliere gli eventi del Festival. Dopo la replica nel chiostro della Certosa di Villeneuve-lez-Avignon, tocca a Santarcangelo ospitare la coreografa franco-svizzera Maud Blandel che trasforma sei danzatori in simboliche pulsar umane, oscillando tra l’esplosione di una stella morente e il ricordo lacerante del suicidio del padre. È il secondo degli spettacoli che vediamo nella palestra dell’ITC Molari: L’œil nu – vincitore del Premio Svizzero per la Danza 2023 – non ricostruisce il trauma biografico, ma lo sublima attraverso leggi astrofisiche: rotazioni, gravità e periodicità diventano metafore di un lutto che persiste in “loop, vuoti e zone d’ombra”.
Al nostro ingresso in sala i sei giovani danzatori sono lì che giocano a bocce, mentre sullo sfondo va l’audio di un cartone animato anni Settanta, tipo Duffy Duck, mandato con un registratore a bobina. Archeologia del suono. Ma come fu nella vita della regista, così il mondo dei giochi viene spezzato. In L’œil nu la coreografa associa il collasso di una stella morente (quando esaurisce l’idrogeno) all’esplosione del cuore del padre, morto suicida (evento che ci viene partecipato a inizio spettacolo), creando un’analogia tra degenerazione astrofisica e lutto personale.
Il lavoro utilizza sei danzatori per creare eterne spirali, galassie in rotazione, mentre la musica si interrompe continuamente, in un loop inarrestabile di gesti, fratture, scomposizioni. Blandel, formatasi tra danza e arti visive, evita il patetismo: «Ciò che percepiamo di un corpo che collassa è sempre una traduzione imperfetta», suggerisce, citando T.S. Eliot nel finale – «Il mondo finisce così: non con uno schianto, ma con un pianto». Resta una fissità del dolore, dell’azione, una sorda e assordante ripetizione, riaprirsi continuo di una ferita che non guarirà mai.
Finiamo la serata al Lavatoio, anche qui tutto esaurito, per la gemma della giornata inaugurale, Rapeflower di Hana Umeda, presentato qui in prima assoluta, e che si è imposto come uno dei gesti artistici più radicali di questa 55ª edizione di Santarcangelo Festival. Anche questa performance trasforma il trauma della violenza sessuale in un vocabolario coreutico che sfida i limiti tra testimonianza e atto rituale, tra eredità storica e liberazione individuale, ma con un’estetica diversa dal primo lavoro di cui abbiamo parlato.
Umeda, danzatrice e maestra della scuola jiutamai Hanasaki-ryu, attinge alla tradizione giapponese del XIX secolo, un’arte performativa praticata da donne in spazi chiusi, molte delle quali probabilmente vittime di abusi. Come Artemisia Gentileschi con la pittura, Umeda, che all’ingresso in sala vediamo sdraiata nuda immersa in una videoproiezione di un prato di fiori gialli. Di qui in poi saranno diversi i momenti in cui l’artista userà il corpo come superficie di proiezione e iscrizione del dolore, ma anche come strumento di riconquista: ogni movimento, ispirato alla danza jiutamai, diventa un atto di decostruzione della figura della vittima, rifiutando tanto la pietà quanto l’invisibilizzazione, con una serie di passaggi in cui i tentativi di abradere la memoria si sovrappongono alla rabbia, alla distanza, all’improvviso riavvicinarsi.
Il testo bellissimo e a tratti dolorosissimo, in ossimoro con un gesto poetico, ma anche crudo a volte, crea uno spettacolo gioiello, che fa piombare la sala in uno stato emotivo molto strano e contraddittorio.
La scena, immersa in luci stroboscopiche e suoni distorti (avvertiti come “contenuti sensibili” dal festival), vede l’artista attraversare fasi successive – dalla contrazione alla dissociazione, fino a un’ipnotica sequenza di gesti ripetuti – che traducono fisicamente il concetto di “stupro come condizione, non come evento singolo”. La forza politica di Rapeflower risiede nella sua capacità di narrare ibridando i linguaggi per arrivare a scavare una verità indicibile: la drammaturgia di Weronika Murek fonde testo e non-detto, mentre la colonna sonora di Olga Mysłowska alterna silenzi improvvisi a rumori metallici, evocando la dissonanza tra memoria corporea e narrazione sociale.
Le proiezioni video di Martyna Miller mostrano frammenti di corpi archiviati, così come dipinti di donne oggetto di ratto che sembrano prendere vita quando proiettati sul suo corpo, creando così un dialogo tra violenza individuale e stratificazione storica. Non a caso, il lavoro nasce da una ricerca VR (Close, presentata all’IDFA DocLab) sull’impronta intergenerazionale del trauma, rivelando come la violenza si trasmetta attraverso generazioni di corpi femminili.
In questa edizione del festival, che il direttore Tomasz Kirenczuk descrive come «partecipante attivo nel dibattito pubblico», Rapeflower acquisita così un ulteriore strato di significato: la scelta di programmarla nell’inaugurazione, accanto a opere di contenuto affine, segnala la precisa presa di posizione contro la “visione riduttiva” delle politiche culturali attuali, e la conseguente minimizzazione delle criticità sociali che questa scena sa così profondamente narrare. Come ha sottolineato Kirenczuk, riferendosi alla rimozione del “rischio culturale” nei criteri ministeriali: «Se non siamo noi a sperimentare, chi lo farà?».
L’opera di Umeda, però, va oltre la denuncia, e ribalta la logica della vittimizzazione. Il momento culminante, tanto della svestizione che della finale vestizione dell’artista, non è un’esibizione di fragilità, ma un atto di riappropriazione: la pelle, segnata, diventa territorio di resistenza, ma anche di capacità di ricomporre il trauma grazie all’arte. Come scrive Umeda nelle note di regia: «Il tempo necessario per guarire è anche il tempo per reimparare a danzare». Questo spettacolo dovrebbe girare molto. Duro, per un pubblico adulto, ma (anche per me che odio questo aggettivo a proposito del teatro) necessario.
Tornando in chiusura alla Haraway, «nulla di veramente importante si fa da soli». E mentre il festival sfida la gravità dei tagli con la leggerezza della creazione, ci chiediamo: quanto ancora possiamo chiedere alla cultura di resistere senza sostegno? Eppure, osservando l’energia con cui Santarcangelo ha aperto i battenti, viene da pensare che la vera arte sappia sempre trovare strade alternative. Come un fiume carsico, riaffiora anche quando qualcuno tenta di deviare il suo corso. Forse, è questo il messaggio più potente: in tempi di austerity e normalizzazione culturale, i festival come Santarcangelo ci ricordano che la creatività non è un lusso, ma una necessità.
I disegni live di Renzo Francabandera
BOUJLOUD
di e con Kenza Berrada
video Maud Neve
suono Kinda Hassan
disegno luci Rima Ben Brahim
produzione Les Bancs Publics
L’OEIL NU
direzione e coreografia Maud Blandel
con Bilal El Had (in alternanza), Karine Dahouindji, Oscar M Damianaki (in alternanza), Maya Masse, Tilouna Morel, Ana Teresa Pereira (in alternanza), Romane Peytavin, Simon Ramseier (in alternanza)
suono Flavio Virzì, Denis Rollet, Maud Blandel
luci Daniel Demont, Florian Bach
mixaggio, diffusione del suono Denis Rollet
sguardo esterno Anna-Marija Adomaityte
costumi Marie Bajenova
RAPEFLOWER
concept, regia, coreografia, testo, performance Hana Umeda
drammaturgia, collaborazione al testo Weronika Murek
video Martyna Miller
musica Olga Mysłowska
disegno luci Aleksandr Prowaliński
sguardo esterno Joanna Nuckowska
produzione Olga Kozińska
Santarcangelo di Romagna | 4 luglio 2025









