CHIARA AMATO | Nella piccola e accogliente sala blu del Teatro Franco Parenti di Milano, va in scena la nuova creazione di e con Filippo Timi, Non sarò mai Elvis Presley. Da molti anni ormai, Timi è un volto abituale della programmazione della Shammah, che in occasione di questa prima milanese, presenta lo spettacolo. Ma qui, più che con uno spettacolo teatrale abbiamo a che fare con un concerto vero e proprio, composto da tredici canzoni e altrettanti monologhi di intermezzo.

Sul fondo della scena è posto un telo, sul quale vengono proiettate immagini diverse durante tutta la performance (dal volto di una donna che potrebbe essere la madre dell’artista, a sfondi colorati psichedelici, fino alla sigla di ok il prezzo è giusto); al centro siedono la rock star Timi e il musicista Lorenzo Minozzi, cavalcando le onde di un paracadute fuxia e rosso, mentre ai lati sono poste due gigantografie animalesche: pochi elementi, di cifra decisamamente pop, che nei colori e nello stile hanno il sapore di Andy Warhol. Anche il disegno luci (consulenza di Oscar Frosio) va in questa direzione: arancio, verde, fuxia e giallo colorano l’intera sala al susseguirsi delle canzoni.
A completamento della scenografia, ci sono gli strumenti musicali: una pianola, una fisarmonica, una chitarra e due handpan.

Inizia il concerto con una captatio benevolentiae, volutamente ruffiana e divertita, su quanto proprio questa performance e questa replica in particolare stiano a cuore a Timi (sottolineando poco dopo che lo dice tutte le volte). L’introduzione rompe già la quarta parete, abbatte il distacco tra il palco e platea, riuscendo – come sempre – a portare il pubblico dalla sua parte e con la predisposizione d’animo di chi è pronto ad ascoltare le sue composizioni musicali, intervallate dalle elucubrazioni mentali su vita, famiglia, morte, politica, cultura.
Le canzoni, dal titolo a volte serio a volte faceto (E allora viva i Griffin, Le tue caviglie secche madre, La pulce d’acqua, etc), si susseguono alternando emozioni e ricordi personali, creando un puzzle. Pezzi, per l’appunto, sparsi, frammentari, caotici, variegati e – totalmente – politically incorrect.
L’elemento che riesce a tenere le fila del tutto è indubbiamente la musica e gli intermezzi che cercano in modi diversi di dare una cornice a quelle che, prese in maniera separata, potrebbero anche sembrare di volta in volta canzoni sconclusionate o perfette hit dell’estate. La competenza del compositore e musicista Minozzi, insieme al gioco dei generi musicali, riesce anche a tenere viva l’attenzione dello spettatore. Nessuna canzone è uguale alla precedente e si alternano, ad esempio, un pop spinto, uno stile alla Califano, fino ad un pezzo blues.
Tra le citazioni di Majakovskij, Goethe, Michelangelo e i Griffin, si fanno strada alcune tematiche ricorrenti come il rapporto con i genitori e l’infanzia: con una tenerezza disincantata, Timi riesce da adulto a perdonare quei genitori, che proprio come tutti, sono stati imperfetti e manchevoli.
Approfondisce l’amore (perché, come dice Brunori, “di cosa altro vuoi cantare?”) nei componimenti Lumaca, Generale e Sasso, sempre percorrendo sul filo del rasoio un viaggio che passa dalla battuta al pensiero profondo e malinconico.

Ma non è forse proprio la traccia artistica di Filippo Timi quella dell’ironizzare sulla sua balbuzie e poi nel pensiero successivo svelare – “con psicologia spicciola” – che compensava in questo modo il parlare veloce (e vuoto di contenuti) di suo padre? Oppure immaginare un sasso che esprime i propri sentimenti, con un testo introspettivo, e giocare col paradosso che quegli stessi sentimenti non potranno essere comunicati perché in fondo “un sasso non parla”.
È il suo estro creativo e la sua poliedricità, forse, ciò che più conquista il pubblico, perché si crede all’artista che dimentica la scaletta, a quei monologhi che si perdono come in un flusso di coscienza alla Woolf. Che sia studiato o reale, funziona perché ci fa sentire più vicini all’arte, meno soli nelle fragilità.
I suoi pensieri non sono sempre di facile fruizione, perché intessuti e articolati su una cultura non di certo di portata comune; e non a caso il pubblico in sala ride a crepapelle quando i bersagli sono Trump o Salvini, ma non coglie tutte le sfumature quando a far viaggiare le menti sono dei versi del Paradiso Perduto di Milton.
Nell’impoverimento del patrimonio sociale di conoscenza, non basta essere un istrionico divulgatore, un’aedo o un raccontastorie della sua bravura: certe sottigliezze non possono essere spiegate e troppo spesso non vengono raccolte, un po’ come vaticina il sottotitolo dello spettacolo, “si è tutti bestie davanti al capolavoro”.

 

NON SARÒ MAI ELVIS PRESLEY.
Si è tutti bestie davanti al capolavoro

di e con Filippo Timi
musicista Lorenzo Minozzi
consulenza luci Oscar Frosio
produzione Flippo Timi / Teatro Franco Parenti / Argot

Teatro Franco Parenti, Milano | 20 luglio 2025