RENZO FRANCABANDERA | Alla fine il bilancio, includendo sicuramente nel conto anche il grandissimo clamore mediatico originatosi con le decisioni della commissione assegnazioni del Ministero per i festival multidisciplinari, che ha visto Santarcangelo penalizzato in modo drammatico rispetto alle passate valutazioni, il bilancio, dicevamo è sicuramente positivo. La 55esima edizione del Santarcangelo Festival, diretta per il quarto anno consecutivo dal drammaturgo e critico polacco Tomasz Kireńczuk, si è conclusa domenica 13 luglio con un esito straordinario che conferma il festival come uno degli appuntamenti più rilevanti della scena performativa europea. E sicuramente quest’anno come non mai, la comunità teatrale italiana si è stretta intorno a questo evento e alla sua portata non solo artistica ma anche fortemente simbolica.
Per dieci giorni, come ogni anno, il borgo medievale di Santarcangelo di Romagna si è trasformato in una “città-festival”, accogliendo 39 compagnie (di cui 20 in prima nazionale) e 182 appuntamenti tra spettacoli, concerti, workshop e talk, distribuiti in 18 luoghi tra Santarcangelo, Rimini, Longiano e Poggio Torriana. La manifestazione ha registrato un sold-out storico: 24.000 presenze, 12.781 biglietti venduti e una platea internazionale in crescita con 462 professionisti da 34 Paesi e 5 continenti. E questi sono numeri record. Numeri che parlano da soli di un modello vincente, dove la sperimentazione radicale si fonde con un radicamento territoriale profondo.
Ma questo, come dicevamo racconta solo una parte di quanto è successo e che ha a che fare non solo con l’arte ma anche soprattutto con la politica culturale. Non è un caso che, dopo le polemiche sul probabile taglio di fondi da parte del Ministero, il Comune abbia aperto la sua sede per ospitare incontri e meeting online fra gli operatori, riportando questo festival ai fasti dei tempi in cui guidava politicamente e intellettualmente la comunità teatrale italiana.

Ma qual è l’oggetto dello scandalo che rende questo festival così emblematico rispetto agli altri, che lo rende pericoloso, oggetto di corruzione dei costumi, e quindi da debellare? Al centro della programmazione, anche quest’anno una riflessione corale su corpo, identità e politica, declinata attraverso linguaggi ibridi che hanno spaziato dalla danza al teatro, dalle arti visive al sound design. Simbolica da questo punto di vista, la performance di chiusura Unarmoured di Clara Furey al Teatro Galli di Rimini, un’indagine coreografica sull’erotismo cosmico come energia collettiva capace di liberare il corpo dalle costrizioni sociali.

Ma andimo alla giornata dell’11 luglio, che qui testimoniamo, per ripercorrerne alcune delle esperienze più intense: mentre in Piazza Ganganelli, cuore pulsante del festival, si sono susseguiti due concerti gratuiti di artiste italiane di fama internazionale, noi siamo andati prima al Palazzo della Poesia per Brinjë më Brinjë di Genny Petrotta e poi all’ITSE Molari per Malign Junction (Goodbye, Berlin) di Alex Baczyński-Jenkins, per poi concludere la serata in modo scoppiettante, con un colpo di frusta! Andiamo con ordine.

Genny Petrotta, che ha portato in scena, con una partitura gestuale affidata alla coreografa Cristina Kristal Rizzo, la complessa identità delle Burrnesha, donne albanesi che vivono come uomini secondo il codice del Kanun. È il secondo spettacolo che mi capita di vedere su questa tematica dopo Vergine Giurata al Polis Festival del 2024. Le vergini giurate sono donne albanesi che decidono di vivere come uomini. Dopo aver preso questa decisione irreversibile, rifiutano il sesso e le loro vite come donne e cominciano a vivere come uomini, beneficiando di alcuni privilegi che, in quel territorio, sono riservati solo a essi.
L’approccio della ricerca occidentale sul fenomeno albanese delle vergini giurate è spesso stato esotico, con uno sguardo da “mondo civilizzato” verso un “mondo non civilizzato”. Tutti, specialmente i media internazionali, ma anche ricercatori di discipline come l’antropologia, la sociologia e l’etnografia, hanno sfruttato questo fenomeno. Quell’intimità garantita alle vergini giurate nel diventare tali è stata tutto d’un tratto esposta ai media e a un vasto pubblico – un’esposizione che non ha portato benefici alle vergini giurate, anzi, il contrario – dipingendole nella maggior parte dei casi come “relitti” di una società patriarcale. Ma, per molte di queste donne, vestirsi come uomini e diventare vergini giurate è stato un atto di emancipazione, un atto di libertà. Dave King ha parlato di questo fenomeno come di “migrazione di genere” comparandolo alla migrazione geografica.
Anche questa performance si confronta, sotto molti aspetti, con il concetto di libertà, precisamente con la sua mancanza in società con diversi valori, principi e costrutti sociali. Ma qui il segno è molto più astratto e indefinito rispetto a quello insito nella drammaturgia di Jeton Neziraj di cui si diceva.

Petrotta affronta il complesso fenomeno attraverso un approccio multimediale che combina tenui segni di cinema documentario e teatro fisico. La ricerca, condotta in collaborazione con l’antropologa albanese Liria Dedja e sostenuta dall’Italian Council, si basa su tre anni di lavoro sul campo tra Tirana e le comunità rurali del nord dell’Albania. La scelta di utilizzare il monologo di Amleto nella traduzione di Ledia Dushi trasforma il testo shakespeariano in strumento per esplorare le ambiguità di genere. La coreografia di Cristina Kristal Rizzo, ispirata al Gjama e Burrave (il lamento funebre maschile tradizionale), è stata sviluppata attraverso un workshop con le stesse Burrnesha, tra cui la novantenne Drande Dodaj che compare nel video. Questo lavoro si inserisce nel solco delle ricerche sulla performatività di genere iniziate da Petrotta con il progetto Mamma Perdonami, presentato alla scorsa edizione di Manifesta. I due segni, video e performativo,  sono tenui e preziosi, ma allo spettatore che nulla conosce di questa faccenda, onestamente non arrivano a raccontare. Manca la dimensione della trasmissione narrativa. Evidentemente una scelta, che per un verso ambisce a distillare un segno che si astrae dal fatto specifico per diventare quasi assoluto, ma per altro non avvicina lo spettatore “ignaro”. Una forbice che la scelta artistica lascia volutamente molto aperta, pregio e difetto della creazione.

Ci spostiamo nella palestra dell’istituto tecnico per Malign Junction (Goodbye, Berlin) di Alex Baczyński-Jenkins, creazione-riflessione sulla precarietà delle relazioni queer nell’Europa contemporanea. Coprodotto da importanti istituzioni come il Kunstenfestivaldesarts e il Tanzquartier Wien, lo spettacolo rappresenta l’evoluzione delle ricerche che l’artista polacco ha condotto durante la residenza al Gropius Bau di Berlino. I cinque interpreti – tra cui il noto performer queer Mickey Mahar – sviluppano un linguaggio fisico che riecheggia le tecniche di contact improvisation, ma contaminato con elementi del voguing e delle danze rituali balcaniche, quasi una svolta nella produzione di Baczyński-Jenkins verso un maggiore impegno politico, evidente nella scelta di dedicare la performance alle vittime di omotransfobia in Polonia.

Il lavoro ha una bellezza intensa. Così spesso lo sguardo si perde su queste fisicità che entrano ed escono dal ring del palcoscenico, accolte dal suono di un vento gelido, attraverso due porte nei due angoli opposti del palcoscenico, mentre il pubblico è disposto sui lati del quadrato. Il movimento è lento e lascia lo sguardo indugiare sulle bellezze dei corpi che si fermano in posizioni statuarie per lasciarsi contemplare da un pubblico cui viene chiesto di abbandonarsi a una condizione quasi estatica, nel vorticare di combinazioni gestuali ora di matrice più classica, ora più contemporanea.
La performance si allunga fino alle due ore e mezza. Una durata che certamente mette lo spettatore alla prova ma che non lascia andare la bellezza della creazione che resta completa ed efficace anche nel suo evolvere e muoversi fra i diversi apparenti finali che si sviluppano nella seconda parte, in cui un disegno di luci arancioni e oscure avvolge i performer. In tanti momenti mi sono perso a guardarli nella loro possente naturalezza, e a pensare a quanto fossero adatti a quel sistema specifico di gesti, ovvero, al contrario, che il regista fosse arrivato a distillare un sistema di azioni coreografiche adatte a questo gruppo in modo davvero appropriato e intimo.

Finiamo la serata correndo in un appartamento in piazza Ganganelli per vedere Feral della cilena Josefina Cerda, caso emblematico di arte autobiografica trasformativa. E qui non c’è equivoco. Dobbiamo connetterci alla dimensione erotico sessuale. Lei ci aspetta seduta su un puff in abito di pelle sadomaso, con il seno grande e le cosce tornite in bella mostra, mentre prende voluttuosamente in bocca un sex toy di forma fallica e invita gli spettatori a sedersi. La performance, presentata nella cornice del festival dopo essere stata sviluppata presso la Fundación Cuerpo Sur di Santiago, trasgredisce i confini tra vita privata e pratica artistica e vuole esplorare il piacere non convenzionale come atto politico, mescolando performance sonora e autobiografia. Attraverso un uso sperimentale di sound design e body art – con riferimenti alla tradizione delle performance sonore di Diamanda Galás e alla ricerca corporea di Ron Athey – Cerda decostruisce la sua esperienza di sex worker virtuale e dominatrice. E il frustino con cui percuote con gusto le natiche di uno spettatore che si offre con piacere all’atto ci fa capire che la membrana della quarta parete, in questa piccola stanza che odora di sesso in modo estremo, è davvero cambiata. Immaginare, qualche decennio fa, uno spettatore che accetta  di offrire davanti a una cinquantina di sconosciuti il culo alla frutta di una una puta, come lei stessa si definisce senza mezzi termini, o di slinguare un simulacro di lingua che lei tiene attaccato al pube, passando la propria lingua dove l’ha appena attorcigliata la vicina di posto, beh, ci racconta di un pubblico evidentemente richiamato dall’evento e disposto a farsi trascinare nell’esibizione, intesa sia come performance che come atto dell’esibirsi; è un pubblico che ha scelto non solo di assistere, ma per alcuni anche di prendere parte a uno spettacolo evidentemente non al bordo ma decisamente oltre il bordo, e che anzi resta anche dopo l’evento a continuare a giocare con Josefina.
L’opera, della durata di quaranta minuti, alterna registrazioni vocali distorte all’uso rituale di sex toys, creando una partitura che riecheggia le ricerche del Teatro del Sonido di cui l’artista fa parte. La performance è stata preceduta da un intenso lavoro di residenza artistica presso il centro di creazione olandese Veem House for Performance, dove Cerda ha affinato la componente di improvvisazione vocale.

Lei racconta ci apre le cosce davanti e offre il suo sesso al nostro sguardo mentre si penetra con alcuni oggetti, e ci racconta della sua vita e della sua visione del sesso e del piacere assai disallineato dalla morale sociale convenzionale. Paradossalmente lo spettacolo è lei, ma è molto anche il pubblico che pian piano gira intorno a questa creazione folle e disturbante, esplicita fino a non ammettere distanza; che chiude il pubblico in questo boudoir da cui è difficile fuggire. Insomma per quaranta minuti siamo ostaggio di un’azione sicuramente non mediata (gli spettatori sono tutti ovviamente avvisati e consapevoli prima di entrare, con ampi ed espliciti disclaimer forniti prima di acquistare il biglietto).

Il festival si chiude per certi versi sulle tematiche su cui si è aperto e le polemiche per le posizioni ministeriali che così tanto e a molti sono parse interventi di censura: il corpo come territorio di lotta, l’identità come costruzione fluida e la performance come pratica di liberazione. Se i primi spettacoli della programmazione 2025, come abbiamo raccontato, analizzavano la violenza sul corpo, questi ultimi indagano il piacere, il desiderio, oltre la morale corrente. Come sottolineato dal direttore artistico Tomasz Kireńczuk, la scelta degli spettacoli proposti è stata quella di fornire esempi di come l’arte performativa possa “attivare processi di trasformazione sociale” superando i confini tra discipline artistiche e tra sfera personale e collettiva. La scelta del Santarcangelo Festival di dedicare uno spazio privilegiato a queste ricerche è insita da decenni della sua vocazione di laboratorio delle nuove frontiere della scena contemporanea, in continuità con la tradizione sperimentale che dal 1971 ne ha fatto un punto di riferimento internazionale. Per certi versi sconvolge, per altri sorprende che il Teatro sia tornato ad essere pericoloso. In ultima analisi potrebbe non essere una cosa così negativa e drammatica per questo medium che stava conoscendo un appannamento nel suo radicarsi alle nuove generazioni e ai territori.
Alla fine la commissione potrebbe aver finito per svegliare il can che dorme… Forse non è ancora il momento di decretare la fine di questo linguaggio. Not yet.

 

BRINJË ME BRINJË

installazione video, performance Genny Petrotta
ideazione, regia, camera, editing Genny Petrotta
performer Gloria Dorliguzzo, Cristina Kristal Rizzo
con la partecipazione di Drande Dodaj, Ledia Dushi
musiche, sound design Angelo Sicurella, Limone Lunare
estratto musicale da Kënga, Lazarit, eseguito da Saverio Guzzetta
voce e poesia Ledia Dushi
estratto poetico da La Libellula di Amelia Rosselli
produttore esecutivo Luca Bradamante
producer Elena Castiglia
aiuto regia Arlind Kola
prodotto da Luca Bradamante per Alción
coprodotto da Federica Bianchi per Snaporazverein
con il supporto di Istituto Italiano di Cultura di Tirana, Art Explora
si ringraziano Jeta Luboteni, Yan Duyvendak, Julian Hetzel, Giorgiomaria Cornelio
incontri artistici a cura di FONDO Yan Duyvendak, Julian Hetzel, Agnietė Lisičkinaitė, Cristina Kristal Rizzo
progetto sostenuto da FONDO network per la creatività emergente coordinato da Santarcangelo dei Teatri e realizzato con AMAT Associazione Marchigiana Attività Teatrali, Centrale Fies, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Fondazione Fabbrica Europa per le arti contemporanee, Fondazione I Teatri – Reggio Emilia, Fuorimargine / Centro di produzione della danza in Sardegna, L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino | Centro di Residenza Emilia-Romagna, Lavanderia a Vapore / Fondazione Piemonte dal Vivo, OperaEstate Festival Veneto / CSC Centro per la Scena Contemporanea, Ravenna Teatro, SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione della Liguria, Teatro Stabile dell’Umbria, Triennale Milano Teatro

© Arlind Kola

MALIGN JUNCTION

coreografia Alex Baczyński-Jenkins
ideazione originale in collaborazione con e interpretata da Aaron Ratajczyk, Elvan Tekin, Samuel F. Pereira, Shade Théret, Mickey Mahar
attuale versione in collaborazione con e interpretata da Aaron Ratajczyk, Samuel F. Pereira, Mickey Mahar, Aaa Biczysko, Taos Bertrand
suono dal vivo Krzysztof Bagiński
contributi sonori Jasia Rabiej
luci Jacqueline Sobiszewski
scenografia Société Vide
styling Christian Stemmler
assistente styling Sebastián Ascencio
ricerca drammaturgica Sebastjan Brank, Andrea Rodrigo, Carlos Manuel Oliveira
supporto coreografico Thibault Lac
direzione studio Andrea Rodrigo
coordinamento studio Laura Cecilia Nicolás
produzione Darcey Bennett
tour manager Anna Posch
grazie a Nora-Swantje Almes, Jad Salfiti, Kasia Wlaszczyk, Cathal Sheerin, Jeremy Wade, Hugo Hectus, Melanie Jame Wolf, Matthias Moore, Eugene Yui Nam Cheung
produzione ABJ Studio
coprodotta da Kunstenfestivaldesarts, Tanzquartier Wien, Festival d’Automne à Paris, De Singel, Arsenic, PACT Zollverein, Teatro Municipal do Porto, MDT Moderna Dansteatern, Instytut Adama Mickiewicza
con il sostegno di Santarcangelo Festival
si ringrazia Radial System
sviluppato all’interno del Gropius Bau Studio Programme
con il supporto di NATIONALES PERFORMANCE NETZ International Guest Performance Fund for Dance finanziato da Federal Government Commissioner for Culture and the Media
progetto realizzato con il supporto di Adam Mickiewicz Institute e cofinanziato dal Ministero della Cultura e del Patrimonio Nazionale della Repubblica di Polonia
con il sostegno di Istituto Polacco di Roma

© Maximilian Koppernock

 

FERAL

creazione, performance Josefina Cerda
maschera Pedro Gramegna, John Alvarez
protesi O’Ryan Lab
amministrazione, produzione, distribuzione Ébana Garín, Roni Isola – Fundación Cuerpo Sur
Josefina Cerda è artista associata di “Fundación Cuerpo Sur”
la presentazione di “FERAL” a Santarcangelo Festival è realizzata grazie alla collaborazione con Belluard Bollwerk Festival

© Pablo Salvador Valenzuela