ENRICO PASTORE| Mith Makers. Creatori di miti. Questo il titolo della Biennale Danza 2025 sempre diretta da Wayne McGregor. Una prima domanda sorge spontanea, una questione che aleggia senza risposta già dal Novecento: è possibile una mitologia nella modernità? Il Novecento non ha visto molti autori capaci di creare un mondo e delle figure immaginari capaci di rappresentare le inquietudini del proprio tempo. Kafka sicuramente, e poi Tolkien, Lovecraft, Philip K. Dick, William Gibson. E tutti questi autori hanno usato il fantastico e la fantascienza per raccontare storie capaci di estrapolare l’essenza del convulso secolo passato. Ma oggi? Per comprendere il reale bisogna ancora stringere alleanza con l’immaginazione e la fantasia? Per decifrare il mondo, dobbiamo inventarne di alternativi? Per affrontare questo tema è necessario partire dall’ultimo spettacolo cui abbiamo assistito, perché ben rappresenta la possibilità di una moderna mitopoiesi.

A good man is hard to find di BULLYACHE, il duo artistico formato Courtney Deyn & Jacob Samuel, crea sulla scena una mitologia concreta, reale, tristemente presente sui nuovi dèi del turbocapitalismo. L’opera prende spunto dal Bohemian Grove, club esclusivo di potenti di tutto il mondo che, dalla fine dell’Ottocento, si riuniscono nei boschi dell’Alta California per celebrare la Cremation of Care, rito neopagano che allude al sacrificio di un druido a un grande gufo di cemento alto dodici metri. Come nella serie American gods le sadiche, immature e fallibili divinità dell’economia di mercato si scatenano contro i vecchi dèi. Tutto questo dovrebbe cancellare nei potenti i sensi di colpa per gli effetti delle dure decisioni prese sulle spalle delle popolazioni.

BULLYACHE A good Man is hard to find Foto Andrea Avezzù

A sentir raccontare di Bohemian Grove si rimane sconcertati e dapprima si pensa all’ennesima teoria del complotto, alle risibili storie alla Dan Brown su Illuminati e simili; ma dopo qualche ricerca ecco apparire i documenti e i nomi dei partecipanti a questa confraternita super-esclusiva: da Reagan a Nixon, da Clinton a Tony Blair a formare una congrega perfettamente bipartisan. Uno sfilare di potenti in questo camping, da cui ovviamente sono escluse le donne e in cui, oltre a ritualità di dubbio gusto, vengono decisi gli umani destini.
BULLYACHE partendo da ricerche e riflessioni sulla crisi economica del 2008, ricrea sulla scena il relitto di una sala riunioni di una grande società finanziaria i cui membri del consiglio di amministrazione si torturano con atti di bullismo e umiliazioni degne del marchese De Sade. Vittima privilegiata è l’uomo delle pulizie costretto a cantare l’Ave Maria di Schubert mentre viene schiaffeggiato e umiliato con un microfono. Le vittime spesso però si rivelano complici degli aguzzini. È infatti proprio l’addetto alle pulizie a dare il via a una sorta di concorso di bellezza in cui i manager vengono battuti all’asta per il pubblico che partecipa festante alla vendita dei corpi. Il prescelto è colui che verrà sacrificato.

Sulle note della Sinfonia da camera op. 110 di Shostakovich, dedicata nella sua forma primitiva per quartetto d’archi “alle vittime della guerra e del fascismo”, si svolge l’intensissima, brutale, appassionante danza che porta al sacrificio del capro espiatorio, anticipato da una preparazione alla Dexter dell’uomo delle pulizie che appresta teli di plastica per non lasciare traccia dell’evento.
La forza di quest’opera danzata risiede nella sua capacità di rappresentare la disumanità e bestialità dei nuovi dèi, di fornirci un’immagine vivida e concreta delle sociopatiche e umanissime divinità che governano i nostri destini. Un’opera d’arte di grande impatto con un impressionante cast di danzatori capace di coniugare la ricerca con il pop o, per usare le loro parole, immaginare ”Pina Baush che fa cosplay di Dua Lipa”.
Oggi in Italia a causa degli improvvidi e ingiustificati tagli alla cultura gli artisti e gli operatori non intravedono niente all’orizzonte che non si situi nella manichea divisione tra ricerca da una parte e bruta commercialità dall’altra. BULLYACHE dimostra che è possibile fare ricerca pur nel pop perché l’opera si situa nel grande regno che sta tra “il significato e il nulla”, in uno spazio in cui tutto è dunque possibile.

La coreografa franco-canadese Virginie Brunelle ha portato a Venezia Fables, opera che racconta un mito diverso, più vicino al mondo della danza perché ne costituisce le fondamenta nella modernità: la comunità artistica sorta nei primi anni del Novecento sulle sponde del Lago Maggiore a Monte Verità, sopra Ascona in Svizzera. Tra bagni di sole, nudismo e vegetarianesimo (non escludendo tossicodipendenza e qualche suicidio) artisti, psicologi, intellettuali tedeschi in fuga dall’orrore della guerra mondiale diedero vita a una comunità eterogenea in cui si trovarono i dadaisti ma anche Rudolf von Laban, Mary Wigman, Suzanne Perottet e molte altre protagoniste della nuova danza. Questa comunità utopica, formata da intellettuali spinti dal desiderio di cambiare un mondo negli anni bui della guerra mondiale, diede vita, all’alba, a strani rituali nei boschi che guardavano il lago. La nuova danza nascente salutava il sole che si specchiava nelle acque al tramonto, di notte si scatenava illuminata dalle torce e dai falò, prima di accogliere nuovamente la luce del mattino. I valligiani scuotevano la testa e sorridevano di questi strani satiri e ninfe dei boschi chiamandoli balabiöt, i ballanudi, parola che tutt’ora resiste nel dialetto di tutto il Lago Maggiore.

Virginie Brunelle Fables Foto Andrea Avezzù

Brunelle si concentra sulle utopie sociali e femministe di quell’esperienza senza tralasciare le ombre che pur funestarono la comunità. Fables si produce per quadri distinti. Nel primo quadro la lotta è fisica, i corpi si scontrano, si malmenano, le danzatrici si fronteggiano come novelle amazzoni con il seno scoperto. Un altro quadro è dedicato alla donna-madre. una danzatrice viene vestita con un abito da sposa la cui gonna amplissima fagocita tutti i danzatori che vengono in seguito espulsi e partoriti da questo mostro tentacolare il cui volto è segnato dal dolore. Come la regina di Aliens, i figli di questa piovra in velo e tulle sono pronti a conquistare il mondo. Ma questi corpi sono ibridi, né maschi né femmine, Frankenstein costruiti con i pezzi di entrambi. E poi una donna ragno di pelle vestita, i cui fili della ragnatela terminano nelle mani degli altri danzatori: questa donna dall’immagine forte è ragno o marionetta? È libera di esprimersi o il suo campo d’azione è determinato dalla società? E infine il luccichio dell’utopia, le paillette del mondo nuovo che appare e promette felicità e prosperità. Manterrà le sue promesse?

E ora la Biennale College. I fratelli Anthony e Kel Matsena, gallesi di origine africana, costruiscono con gli allievi The remaining silence, uno studio su un museo dell’estinzione. Dietro le vetrine di un acquario, o di una teca entro cui riporre le spoglie impagliate di strani animali del passato, i danzatori si muovono nel fluo creato da luci e fumi. Il pubblico assiste alle evoluzioni di questa mandria eccentrica, distante ormai nel tempo e appartenente a una civiltà scomparsa. Ancora una volta la mitologia del presente si costruisce su un passato più o meno lontano.

Sacha Walz sceglie invece un mito estatico, astratto, geometrico e minimale, fondato su differenza e ripetizione, in cui far emergere ciò che è sepolto dalla razionalità. Sacha Waltz sceglie di costruire la sua coreografia su l’iconica opera minimalista In C del compositore americano Terry Riley del 1964, e chiede ai danzatori e a noi del pubblico l’abbandono al disorientamento prodotto dal susseguirsi e intrecciarsi delle semplici frasi (53 per essere esatti) ripetute dagli strumenti. L’ordine è rigorosamente successivo, ma la durata è a discrezione di ogni strumentista. L’esecutore inoltre può scegliere se saltare uno o più numeri sempre rispettando l’ordine consecutivo prestabilito in partitura. Il pianoforte (o le percussioni) ripetono ossessivamente la nota Do (C nella notazione anglosassone) con la funzione di metronomo. Il pezzo orchestrale di Riley unisce dunque l’aleatorietà ereditata da Cage a una scrittura capace di costruire una complessa tessitura musicale e ritmica a partire da elementi cellulari semplici. Ripetizione e variazione vanno a braccetto e la durata del pezzo è variabile.
La coreografia di Sacha Waltz dialoga con la composizione replicandone l’ossatura e amplificandone la complessità. Le frasi coreografiche si intrecciano con quelle musicali, la ritmica del corpo risuona in quella strumentale. Un grande schermo sullo sfondo diventa tela per il gioco di luci in cui i colori dello spettro si rincorrono producendo l’effetto immersivo e ipnotico delle grandi tele di Rothko. Più che un mito assistiamo a un rito della perdita del sé. Non vi è alcuna espressione, non vi è nulla da dire. Si produce solo l’azione dei corpi e dei suoni che trascinano l’osservatore in un mondo in cui l’estrema complessità è generata da una semplicità disarmante.

Wayne McGregor On the other earth courtesy La BIennale di Venezia

Da ultimo On the other earth, futuristica istallazione coreografica di Wayne McGregor creata in collaborazione con Jeffrey Shaw, star della new media art, e l’Hong Kong Ballet. Venti persone entrano in una stanza cilindrica all’interno della quale viene proiettata, sul primo schermo cinematografico LED stereoscopico a 360 gradi, la coreografia, variazione o derivazione, di DEEPSTARIA ultima creazione di Wayne McGregor. On the other earth è un viaggio nel futuro della percezione. Lo spettatore, grazie agli occhiali 3D, si trova immerso all’interno della coreografia, può quasi interagire con i danzatori, può cambiare punto di vista, osservare da diverse distanze il movimento dei corpi. Il momento più emozionante è stato il venir catapultati in un secondo su uno dei grattaceli di Honk Kong e vedere dispiegarsi intorno lo skyline della città percependo il vento tra i capelli dei danzatori o nelle manichette. Il reale è virtuale e, nello stesso tempo, la virtualità diventa la nuova realtà. Vitale e inorganico si mescolano indissolubilmente permettendo un ampliamento delle possibilità percettive senza precedenti. Certo oggi esperienze di questo genere sono ancora parte del mondo del fantastico e del meraviglioso, il mito è quello delle wunderkammer, dei gabinetti delle curiosità, ma nel prossimo futuro, le frontiere della sperimentazione artistica multimediale potranno usufruire di grandi prospettive soprattutto se si abbasseranno i costi.

A seguito di questa panoramica sui cinque spettacoli visionati durante Biennale Danza 2025 possiamo trarre qualche conclusione. Per farlo vorremmo spendere qualche parola sulla Biennale Architettura intitolata Intelligens. Natural. Artificial. Collective. La nuova urbanistica propone soluzioni concrete e possibili per creare un mondo più sostenibile, attento allo sfruttamento delle risorse e delle energie, addirittura proiettato alla colonizzazione di nuovi pianeti. Si attraversano le Corderie dell’Arsenale partendo dalla cupezza del presente. Una stanza nera piena di motori di condizionatori. Lo spazio è caldo e soffocante e lo sarà sempre di più perché il funzionamento ininterrotto farà aumentare sempre più la temperatura. E poi si varca la soglia verso il futuro, verso ciò che potrebbe essere possibile, verso il mondo che potremmo costruire se solo abbandonassimo sterili questioni territoriali, una lotta da bambini su ciò che è mio o tuo, e finalmente capissimo che siamo una sola specie in un piccolo mondo sperduto nelle galassie. Il futuro disegnato non è solo prossimo, è addirittura possibile.
Al contrario, il mondo della scena danzata ci ha proposto per la gran parte miti generati dal passato. Anche quando è vicinissimo al nostro presente, la scintilla parte da ciò che è accaduto. Siamo in un territorio che, per usare le parole di Mark Fischer si dispiega tra «un non più e un non ancora». L’arte scenica sembra incapace di prefigurare un futuro, e stenta anche a comprendere il presente. E questo non solo alla Biennale Danza 2025.

In questi giorni la scena italiana, e soprattutto la danza e quelle tendenze che si occupano di ibridare i linguaggi, sono stati colpiti da tagli, soppressioni, ridimensionamenti. Nella crisi generata da queste improvvide e arbitrarie decisioni che nulla hanno a che fare con la resa artistica dei progetti, artisti e operatori non stanno reagendo producendo visioni nuove né proponendo futuri alternativi a fronte di un sistema che da decenni non funziona e non è premiante per chi si occupa di innovazione. Si chiede di rivedere le decisione, di riformare il Fondo Nazionale per lo Spettacolo dal Vivo (ex FUS), ma non c’è indicazione di un progetto alternativo di rapporto con la politica e il finanziamento pubblico. Oggi il mondo dello spettacolo sembra incapace di prefigurare un futuro e anzi sembra aggrappato alle consuetudini. Per quanto la situazione sia grave, è più che mai necessario pensare a cambiare il mondo, non a conservarlo. Bisogna disegnare nuovi paesaggi, inventare nuove strade, scoprire nuove terre. Il mondo di oggi è afflitto da conflitti e dai nuovi nazionalismi capaci solo di innalzare muri e barriere. Al mondo della creazione spetta smentirli e per questo sono necessarie visioni, anche utopiche e irrealizzabili, ma che facciano posto ai costruttori e non ai distruttori.

 

A GOOD MAN IS HARD TO FIND

coreografia, regia e direzione creativa BULLYACHE (Courtney Deyn & Jacob Samuel)
performance BULLYACHE, Sam Dilkes, Oscar Jinghu Li, Connor Scott, Pierre Loup Morillon, Frank Yang
produzione Nancy May Roberts (Metal & Water)

FABLES

coreografia Virginie Brunelle
performance Nicholas Bellefleur, Sophie Breton, Alexandre Carlos, Sabrina Dupuis, Chi Long, Milan Panet-Gigon, Marie Eve Quilicot, Marine Rixhon, Peter Trosztmer, Lucie Vigneault
produzione LAC Lugano Arte e Cultura, Fonds national de création – Centre national des Arts (CNA), Danse Danse, Centre national des Arts d’Ottawa, Harbourfront Centre, Festival des Arts de Saint-Sauveur

THE REMAINING SILENCE

ideazione e regia Anthony & Kel Matsena
composizione Beth Lewis
produzione La Biennale di Venezia

IN C

ideazione, coreografia e luci Sacha Waltz
coreografia sviluppata da e con i danzatori Davide Di Pretoro, Edivaldo Ernesto, Melissa Figueiredo, Hwanhee Hwang, Annapaola Leso, Michal Mualem, Zaratiana Randrianantenaina, Aladino Rivera Blanca, Orlando Rodriguez, Joel Suárez Gómez
produzione La Biennale di Venezia

ON THE OTHER HEART

regia e coreografia Wayne McGregor
ideazione e progettazione di estetica dell’interazione e tecnologie nVis Jeffrey Shaw, Sarah Kenderdine
progettazione e produzione cinematografica Ravi Deepres, Theresa Baumgartner

Arsenale di Venezia (Teatro alle Tese – Tese 3 – Teatro Piccolo Arsenale – Sala D’Armi E)
22 – 25 luglio 2025, Venezia